Nella temperie storica attuale dominata dagli effetti ambivalenti della cosiddetta “globalizzazione” argomentare sul concetto di “sviluppo sostenibile” è diventato ormai imprescindibile, giacché le implicazioni di quello che per converso potremmo definire “insostenibile” sono invece sotto gli occhi di tutti. Al netto delle locuzioni à la page i due asset si differenziano tra loro per un uso diverso delle risorse naturali, più oculato e rispettoso degli equilibri planetari, e orientato verso una distribuzione “democratica” delle ricadute positive sull’esistenza delle persone nel caso della sostenibilità, mentre all’opposto le disparità sociali e l’inquinamento ambientale si tengono insieme, generando un sistema che riduce ogni forma di biodiversità, anche umana.
Se si affrontano queste tematiche giocoforza non si può che entrare in un territorio di riflessione dove la trasversalità dei contenuti ne è la cifra distintiva: che tipologia di modello di sviluppo si sta promuovendo? E per chi? Secondo quale possibile tenuta nel tempo? Il benessere raggiunto dalla parte più fortunata degli abitanti del pianeta tendenzialmente si sta spostando anche verso i Paesi delle “economie emergenti”, ma questo fenomeno emancipativo non è indolore. Accanto ad una sempre maggiore richiesta di materie prime da parte dei Paesi più industrializzati unita con la consolidata abitudine consumista dell’ “usa e getta”, la rapida espansione delle economie di nuovo conio pone dei seri dubbi sul fatto che l’offerta delle risorse non rinnovabili sarà abbastanza abbondante ed economica, e tale da soddisfare i bisogni umani del futuro. Ammettendo la possibilità (a questo punto doverosa) per la popolazione mondiale che è stimata intorno ai sette miliardi e mezzo circa di individui, di possedere un’abitazione, un’auto, un frigorifero, un televisore, ecc., sarà in grado la nostra Terra di sopportarne l’impatto pauperista ed ambientale?
Quindi quanto si argomenta intorno allo “sviluppo sostenibile” si ha come riferimento principale la parte del mondo più industrializzata, la quale numericamente rappresenta un segmento minoritario del genere umano, mentre una fetta consistente si sta ancora dibattendo con le più prosaiche questioni della sopravvivenza: i massicci fenomeni migratori in atto sono la cartina di tornasole degli squilibri planetari causati spesso da “economie di rapina” ed anche dalle conseguenti devastanti perturbazioni ambientali. I “limiti dello sviluppo”, diremmo noi di quello insostenibile, erano già noti all’inascoltato Club di Roma di Peccei e sodali sin dall’inizio degli anni settanta del secolo scorso, ma oggi assumono una contingenza ineludibile, giacché il problema delle risorse risulta impellente e non di rado è la causa di sanguinosi conflitti, e poi soprattutto poiché tale questione vuole essere affrontata in termini proiettati verso al futuro, cioè «lo sviluppo sostenibile, lungi dall’essere una definitiva condizione di armonia, è piuttosto processo di cambiamento tale per cui lo sfruttamento delle risorse, la direzione degli investimenti, l’orientamento dello sviluppo tecnologico e i cambiamenti istituzionali siano resi coerenti con i bisogni futuri oltre che con gli attuali»[1]. Tuttavia questa cultura si sta sempre più diffondendo e promanando “dal basso” perché l’opinione pubblica è molto più sensibilizzata rispetto al passato sui temi del riuso, del riciclo, dell’ “economia circolare” abbondantemente ricostituita nella forma green; inoltre lo spazio che è stato conquistato nel tempo dal commercio equo e solidale, dalla finanza etica, dal turismo responsabile, ha come contropartita positiva una forma di mercato sui generis che è in grado di veicolare consistenti valori culturali sulla possibilità di concreta affermazione di una economia alternativa.
Un punto di vista molto illuminante sulla materia è stato espresso da Papa Francesco mediante l’enciclica “Laudato sì”, pubblicata soltanto qualche mese prima della significativa COP 21 di Parigi del 2015 successivamente un po’ depotenziata dalle decisioni altalenanti degli USA, nella quale i temi ambientali hanno assunto una nuova dimensione per così dire “olistica”, poiché il pontefice ha ricondotto la cura della “casa comune”, della nostra Terra ad una dimensione complessiva di “ecologia integrale”, che abbraccia nello stesso tempo le questioni ambientali, con quelle economiche e sociali, permeando di conseguenza la quotidianità della vita di ogni uomo e donna. Il concetto di “sviluppo sostenibile” trova qui uno spazio inedito, anzi ha assunto la valenza di un vero e proprio appello lanciato dal vescovo di Roma verso un progresso “integrale” in grado di coinvolgere l’intera famiglia umana, mentre contemporaneamente la crisi ecologica in atto ha imposto la necessità di difendere il lavoro, innanzitutto come obiettivo dell’accesso per tutti ad una forma dignitosa di occupazione. Riecheggiano in queste argomentazioni anche le riflessioni certamente profetiche, a suo tempo formulate da un ambientalista a tutto tondo ed un politico ante litteram quale fu Alexander Langer, che ci ha lasciato togliendosi la vita proprio durante questo periodo estivo, il 3 luglio di 23 anni fa. Il fondatore di questo circolo Dossetti l’indimenticato Giovanni Bianchi era amico di Alex – che definì in uno dei suoi ultimi lavori editoriali “uomo per gli altri”[2]– così la “conversione ecologica” tanto auspicata in vita dal politico di origine Sudtirolese può essere intesa nel suo distillato essenziale dentro a questa cornice permeante di altruismo, giacché il termine conversione è una nozione che afferisce al cristianesimo, e presuppone pertanto una trasformazione spirituale personale orientata verso l’altro da sé, che viene molto prima dei comportamenti ecologici virtuosi.
Resta però il tema ostico di quanto gli organismi rappresentativi, le istituzioni ma soprattutto la politica abbiano introiettato all’attualità le coordinate della questione, cioè in particolare quanto quest’ultima sia disposta ad “investire” in termini di contenuti innovativi in una prospettiva non rivolta soltanto come di sovente accade al presente ma al medio/lungo periodo. Così se i limiti dello sviluppo ci sono abbastanza noti, come la concentrazione della ricchezza in mano a pochi soggetti, gli squilibri ambientali che si rappresentano ormai su scala mondiale, la drastica riduzione delle possibilità di lavoro, le ricette per correggere le storture del sistema appaiono spesso più nebulose. In questa direzione le politiche rivolte ad esempio al controllo delle delocalizzazioni, alla tutela del lavoro dalle aggressioni di un mercato che ha sempre di più un volto selvaggio, quindi la promozione di una economia della sostenibilità che incorpora valori umani, sociali, ambientali non rappresenta soltanto un orizzonte programmatico ma una vera e propria necessità.
E’ richiesto comunque un forte sforzo di “immaginazione”, forse proprio di quell’utopia che a 50 anni dal celebrato ’68 si vorrebbe oggi veramente al potere, ma soprattutto che sia in grado di “gettare il cuore oltre l’ostacolo” del pensiero unico del mercato inteso nella sua forma più o meno liberista, poiché ogni sistema economico così come ogni vicenda umana, ha un inizio, una fase espansiva ma anche una fine, o quanto meno una sua “evoluzione”. Si può provare ad andare oltre ad un turbocapitalismo finanziarizzato e tecnologico, ad una società che non ha più al centro della sua organizzazione il lavoro, e forse una strada potrebbe essere quella di sperimentare una nuova via verso l’“economia di comunità”, cioè non guasterebbe una sorta di rivisitazione dell’intuizione formulata da quell’imprenditore atipico che fu Adriano Olivetti. Il tema è però troppo complicato per giungere affrettatamente a facili conclusioni. Non si tratta infatti soltanto di ridefinire un’organizzazione statuale in senso più federale, o di attingere riferimenti culturali dalle dottrine socialiste di ispirazione fabiana, le quali possono condurre certamente a forme di produzione, di cooperazione, di scambi e di consumo fondate sulla reciprocità e sulla messa in comune di beni e servizi, insomma comunque ad una ipotesi di riforma nel e del capitalismo. Tuttavia nemmeno un nuovo “azionariato operaio” sarebbe da buttare, inteso sia come compartecipazione alla gestione dell’indirizzo aziendale ma anche come costituzione di un vero e proprio patrimonio nella disposizione dei lavoratori non soltanto da sperimentare come “ultima spiaggia” nel caso di fallimento delle imprese, costruendo così un sistema delle forme proprietarie della produzione diciamo così maggiormente “polifonico”.
Il busillis è il fatto ben più sostanzioso di ideare un diverso e nuovo paradigma organizzativo, senza per questo aumentare a dismisura soltanto le locuzioni definitorie come ad esempio appunto “economia di comunità”, “economia della conoscenza”, “economia della rete”, “economia solidale”, ecc., le quali pongono ciascuna l’attenzione su un singolo aspetto del problema, tuttavia sempre declinandolo dentro ad un imbuto di stampo più o meno neocapitalista. A complessificare ulteriormente il quadro c’è anche il fatto che la traiettoria verso l’innovazione equitativa in termini di sostenibilità ambientale confligge con l’ “imperialismo immanente nella società dei consumi”, la quale fa leva essenzialmente sul desiderio individuale, e che mal sopporta l’imposizione di regole che lo comprimono, poiché le stesse vengono percepite come un “attentato alla libertà personale”. Così i modi di essere, di pensare e persino le affettività si costituiscono soltanto dentro a questo sistema di valori, mentre il capitale incessantemente trasforma in risorse produttive qualsiasi pulsione vitale: siamo purtroppo ancora molto lontani da una ipotesi di altruismo strutturalmente diffuso nel campo ben arato dell’economia.
Andrea Rinaldo
[1] https://it.wikipedia.org/wiki/Sviluppo_sostenibile – principio recepito anche nel Codice dell’Ambiente, D.Lgs. 152/06 art. 3-quater c. 1.
[2] Giovanni Bianchi, Alex, uomo per gli altri, Eremo e metropoli edizioni, Sesto San Giovanni (MI), 2017, ebook gratuito