Basterebbe soltanto la costatazione di palmare evidenza di più di 70 anni di pace per evidenziare il fatto che l’intuizione politica della Unione Europea come entità internazionale ha garantito per i suoi membri un lungo periodo di benessere, di crescita economica, di sviluppo scientifico e tecnologico.
Non a caso nel 2012 la UE è stata insignita del premio Nobel per la pace. Invece a qualche decennio di distanza dal trattato di Roma e da quello di Maastrict, il sogno di Altiero Spinelli, di quelli del “Manifesto di Ventotene” per intenderci, e di Alcide De Gasperi di una Unione Europea come il primo passo verso un governo mondiale, sembra allontanarsi.
Spinte sovraniste, isolazioniste, protezioniste minano dalle fondamenta quel progetto, che è innanzitutto un’Europa dei popoli prima che un’organizzazione economica, e che quindi dipende fondamentalmente dal livello di condivisione dei cittadini che ne fanno parte. E’ chiaro anche che una siffatta condizione non si può soltanto “indurre dall’alto” come una “fusione a freddo”, insomma costruendo un prodotto di laboratorio: deve provenire “dal basso”, dai cittadini. E’ probabilmente anche attorno al tema del lavoro che va ricercato quell’ idem sentire che può costruire un nuovo progetto di Europa.
Ma seminando bene, gli effetti di una tale visione si potranno misurare soltanto dopo parecchi anni. Le ormai numerose “generazioni Erasmus”, la mobilità in generale dei giovani, gli eventuali stage lavorativi in Paesi UE diversi da quello di nascita, una migliore conoscenza delle lingue, muovono certamente in questa direzione. In senso opposto dirige invece la Brexit, le chiusure nazionaliste e conservatrici di certi Paesi dell’ est europeo, l’esasperata austerity imposta ad alcune altre nazioni, l’euro-scetticismo che matura come frutto acido all’interno di partiti marcatamente ad impronta populista.
La poca significanza della politica estera europea però non porta bene, non dimentichiamoci della Storia: l’attentato di Sarajevo e la conferenza di pace di Versailles, sono stati eventi a loro modo prodromici allo scatenarsi dei due pesanti conflitti mondiali novecenteschi. La chiusura protezionista dell’America di Trump, un certo “neo-zarismo” russo uniti a loro volta dallo stesso collante euro-diffidente, aggravano notevolmente il quadro di una possibile crescita federata per il Vecchio Continente.
Mentre l’elezione di Emmanuel Macron alla Presidenza della Repubblica di Francia può essere letta ambivalentemente sia in una chiave di speranza che di incertezza circa le sorti del progetto europeo.
Lo scacchiere mondiale si è poi complessificato dopo la caduta del muro di Berlino, e nuovi attori geo-politici si sono affacciati sulla ribalta mondiale, tanto che potremmo parlare di un inedito policentrismo di potenze in grado di condizionare i rapporti di forza tra gli Stati. In questa dimensione successiva a quella dei “due blocchi contrapposti”, tipica della temperie della guerra fredda, l’arma nucleare assume il compito di stabilire un diverso e più fluido “equilibrio del terrore”.
Non che i conflitti tradizionali manchino. Anzi… I “punti caldi” sono piuttosto diffusi nei diversi continenti, mentre le contrapposizioni in Libia, Siria, Afganistan, Iraq, rappresentano forse le guerre più coperte dall’informazione – al netto di una immancabile censura che quasi sempre impedisce di comprenderne le motivazioni profonde – a fronte delle centinaia di milizie guerrigliere o terroristiche impegnate in sanguinosi scontri spesso dimenticati dai media.
Non a caso il Papa venuto dalla “fine del mondo” ha affermato che “siamo entrati nella terza guerra mondiale, solo che si combatte a pezzetti, a capitoli“[1]. Se nel conflitto Siriano si concentrano questioni locali con le mire e le ingerenze delle due grandi potenze superstiti Russia ed USA, una “opa” determinante è lanciata dalle lobby degli armamenti, e sempre Papa Francesco ha più volte sollecitato la necessità di fermare i mercanti di morte, giacché a farne le spese di una economia di guerra sono quasi sempre i più inermi, gli ultimi[2].
Andrebbe detto allora che ci sono evidenti responsabilità dei Paesi più evoluti nel rifornire di armi i belligeranti di ogni latitudine, e che comunque questo mercato è sicuramente un business, un affare, per una cerchia ristretta di cinici imprenditori o finanziatori. I 59 missili da crociera Tomahawk lanciati recentemente in Siria avrebbero un costo di più di 103 ML di euro[3], mentre la “madre di tutte le bombe (?)”, la distruttiva MOAB sganciata invece in Afganistan ammonterebbe a quasi 15 ML di euro[4] al pezzo.
Se è discutibile il risultato strategico militare di tali azioni belliche, semmai lo stesso è più da ascrivere a quello tattico interno agli USA, sulla capacità decisionista del loro Presidente, e quindi sull’eventuale accrescimento del consenso intorno alla sua figura.
C’è da chiedersi in questo contesto quale sia stata e quale è la capacità di intervento delle Nazioni Unite, cioè sulla mission costitutiva di tale organismo sovra-statuale di mantenere la pace e di raffreddare i conflitti in atto. In Africa sono presenti numerosi presidi di peacekeepers ONU i quali soltanto in parte sono riusciti a proteggere i civili, a creare maggiore stabilità, a liberare dalla fame.
E’ certo che se gli stessi non fossero stati presenti si sarebbe determinato un maggiore caos e una più estesa violenza, ma nel contempo si può anche dire legittimamente che tali operazioni per il mantenimento della pace sono risultate insufficienti. Con riferimento al quadrante medio-orientale proprio l’ONU ha definito il conflitto in Siria come uno dei peggiori eventi bellici dopo la seconda guerra mondiale, e sta sostenendo congiuntamente con la UE e la Russia azioni finalizzate a far cessare le armi, e a condurre quella nazione verso una transizione politica.
Ma a sette anni dall’inizio delle ostilità la terra martoriata del Presidente da più parti inviso Bashar al-Assad attende ancora una autentica pacificazione. Poco possono fare le Nazioni Unite nel caso dei “conflitti asimmetrici”, dove non sono evidenti chiaramente gli eserciti in campo, secondo una codificazione classica delle controversie in armi.
Quando le azioni provengono da cellule terroristiche non sempre costituenti un network organizzato se non magari soltanto in maniera ideale – quindi non da foreign fighters di ritorno – e financo invece da singoli individui che agiscono in autonomia sulla scorta di una radicalizzazione “fai da te”. Inoltre è stata introdotta una novità significativa rispetto la quale è difficile relazionarsi: l’assenza di paura della morte di queste compagini del terrore, tema quest’ultimo assolutamente rimosso nella contemporaneità, inoltre per la diffusività degli obiettivi da colpire, tendenzialmente illimitata.
Le armi poi possono essere sia di tipo leggero convenzionale ma anche semplicemente un’auto, un camion od anche una cintura-ordigno fatta in casa. Le attività di prevenzione dei servizi di sicurezza possono essere certamente utili ma un Islam umiliato nei Paesi occidentali, l’integrazione che nel migliore dei casi può consistere in una assimilazione che tende a marginalizzare la cultura di provenienza, sono motivazioni più che sufficienti per spingere le seconde, le terze generazioni alla “lotta contro gli infedeli”, e alla creazione quindi di altrettanti “nemici in casa”.
In questa congerie a nulla serve la “costruzione di muri”, plastica manifestazione dell’incapacità di immaginare un destino comune per il genere umano. Invece è fondamentale porre al centro dell’interesse pubblico il valore dell’integrazione e della convivenza pacifica, orientata verso la costruzione di società plurali, avanguardie di un mondo che sa quali sono le potenzialità ed anche le contraddizioni del terzo millennio.
Sullo sfondo infine, anche un’inedita minaccia nucleare generata dalla densificazione delle potenze che sono in possesso di armi atomiche, e che attualmente si concentra sulla “guerra di nervi” tra Pyongyang e Washington. Le preoccupazioni che provengono dalle azioni intraprese dalla Corea del Nord stanno spingendo però verso un imprevisto nuovo dialogo tra Stati Uniti e Cina, mentre l’ONU ha già deliberato ulteriori sanzioni contro il Paese del leader unico Kim Jong-un, dalla smisurata “passione” verso le potenzialità belliche dei missili balistici.
Sull’efficacia di tali sanzioni ci sarà da discutere, così come di quelle europee contro la Russia con riferimento all’instabilità occorsa in Ucraina. Forse si tratta soltanto di una esibizione muscolare alla quale gli USA stanno rispondendo essenzialmente con l’aumento delle pressioni sulla Corea del Nord, ma è probabile che una scintilla nucleare non sia tollerata neanche dal vicino gigante cinese, e soprattutto che (guarda… guarda…) l’economia di mercato e la sua stabilità a livello planetario possa essere (e c’è da sperarlo…), il miglior deterrente verso un conflitto dagli esiti disastrosi per tutti, quindi anche per i “signori della guerra”. Chi l’avrebbe mai detto?
Andrea Rinaldo
[1] http://www.repubblica.it/esteri/2014/08/18/news/papa_francesco_terza_guerra_mondiale_kurdistan-94038973/
[2] http://it.radiovaticana.va/news/2017/04/13/francesco_si_fermino_i_signori_della_guerra_e_la_violenza/1305469
[3] https://it.wikipedia.org/wiki/BGM-109_Tomahawk
[4] https://it.wikipedia.org/wiki/GBU-43_Massive_Ordnance_Air_Blast_bomb