In lui infatti viviamo, ci muoviamo ed esistiamo, come alcuni dei vostri poeti hanno detto: Poiché di lui stirpe noi siamo. (Atti, 17,28)
1. Politeismo. Tra tolleranza e scepsi
Stando a quel che racconta Diogene Laerzio, sembra che Talete ritenesse “l’acqua principio di tutto e il mondo animato e pieno di dei.” (Diog. Laert. I, 27) Ma il protofilosofo nel ritenere che il mondo è tutto pieno di dei portava alle estreme conseguenze il politeismo del mito o, al contrario, eliminava in un colpo solo dei e mito mostrando che se ci sono dei dappertutto nessuno è di essi è veramente dio? Se prendessimo per buono il secondo corno del dilemma dovremmo dire che il primo illuminismo greco, per suo conto e indipendentemente da ogni monoteismo, ha fatto fuori definitivamente le vestigia del mito: gli idoli. Per Talete, dunque, principio di tutto sarebbe l’acqua e non quella che scorre per terre e continenti, né il mare che li circonda, ma l’acqua “primordiale” da cui germinano tutte le cose. Un acqua originaria che impropriamente possiamo anche chiamare Dio, ma che quelli che “per primi filosofarono” chiamarono physis: natura.
E, tuttavia, Diogene Laerzio nell’esporre la dottrina di Talete sembra prendere sul serio l’affermazione ” tutto è animato e pieno di dei”. Qual è, allora, il significato di questa frase, cosa volva dire veramente Talete? Voleva probabilmente dire che il “principio” nella sua stessa origine si dispiega come un insieme di potenze indipendenti e contrapposte: voleva dire che la physis si differenza nel suo stesso inizio e che l’inizio è coesistenza di differenze. Talete, nell’identificare l’acqua come principio di tutte le cose perviene, a suo modo all’idea, dell’uno pensato, però, non tanto come l’unico, ma piuttosto come il grembo. La natura è una ma si differenzia eternamente in se stessa. Per i greci ogni cosa è momento di un’eterna e medesima physis che non esiste né sussiste come entità separata, ma si determina nelle sue metamorfosi: vive nelle e delle sue stesse opposizioni. I greci erano conquistati dalla lussureggiante varietà delle cose, erano attratti e stupiti dalla terra dal cangiante colore e raccoglievano quest’illimitata molteplicità nell’unità dell’origine che si differenzia eternamente in se stessa senza mai uscire da sé: Gaia – come dice Esiodo – dall’ampio petto che genera ogni cosa.
Il mondo, dunque, è un gioco tra potenze che talora si contrappongono, altre volte si alleano: si amano e si odiano, comunque si implicano e reciprocamente s’influenzano. Talete vedendo il mondo animato e pieno di dei, lo vede come potenze in conflitto che, però, generano ordine e secondo il ritmo dei tempi governano il mondo. Potenze visibili ad occhio umano o invisibili e soprattuto per quanto numerabili innumerevoli. E’ sempre possibile aggiungere un dio in più: un nuovo dio non f a problema. Blumenberg evidenzia come l’ara innanzi a cui Paolo pronuncia il suo discorso all’Areopago non è dedicata non “al ” dio ignoto – proprio quello che Lui vuole annunziare – ma ad “un “dio ignoto, uno dei tanti, degli innumerevoli dei che circolano per il mondo. Nel mondo tardo antico non era difficile trovare altari dedicati a ignotis diis , a dei ignoti. Ma il mito, negli dei null’altro identificava se non le molteplici potenze che, a vario titolo e in modalità diverse, si manifestano nel mondo. Ma gli dei lungi dall’essere favole esistono. Sono apparizioni: nomi che gli uomini assegnano ad eventi naturali, mentali e in genere a quelle potenze ignote che li circondano per entrare in rapporto con esse, per tenersele buone, per trovarle alleate, ma soprattutto potere concepire razionalmente il mondo. Sono divini o comunque abitati da un Dio le manifestazioni occasionali ed improvvise della natura -il fulmine, la tempesta, la pioggia – e i luoghi naturali in genere – i fiumi, i mari, le fonti. Dei sono gli inconsulti moti della mente, la violenza delle passioni da cui l’uomo si sente travolto quasi fosse posseduto da potenze estranee di cui non conosce la natura, ma ne patisce gli effetti: la voluttà, l’amore, l’odio, il rancore, l’inganno e in generale la vasta gamma dei sentimenti che, a seconda dei casi, attivano o inibiscono azioni e pensieri. Forze esterne e potenze interne vengono dagli uomini nominate e quindi collocate in un panteon che permetta loro di immaginare un ordine e una gerarchia e di sapere, a seconda dei casi, a chi ricorrere per chiedere aiuto e protezione.
Coloro che per primi filosofarono ancora teologizzavano e tuttavia, in quanto già fisiologi, naturalizzarono le potenze e perciò le demitizzarono. La naturalizzazione delle potenze non è di per sé sufficiente a dominarle, ma rappresenta comunque un modo per neutralizzarle, è lo scudo teorico che permette agli uomini di ridurre l’ansia indotta in loro dal sentimento di esposizioneall’imponderabile.
Le potenze con cui gli uomini avevano a che fare o da cui in qualche percepivano la presenza non erano affatto numerabili e per questo gli dei potevano essere, senza scandalo, innumerevoli .
Ma fino a che punto gli antichi credevano davvero ai loro dei? Per un verso indubbiamente ci credevano. Di nomi divini era, infatti, pieno il vocabolario della loro tradizione, in virtù di questi nomi risalivano alla loro provenienza, ricostruivano la loro storia. L’Iliade e l’Odissea ne sono i documenti esemplari: Omero fu il maestro di tutta la Grecia. Questi dei non cessarono mai d’essere dei: vennero piuttosto dimenticati a mano a mano che gli uomini scoprivano nuove tecniche e parole ben più potenti per dominare gli eventi e intrattenere il loro rapporto con il mondo. In effetti gli antichi dei non furono mai negati, né confutati – in pochi s’impegnarono a dimostrare che erano falsi – ; furono semplicemente abbandonati. Il mito si mutò in favola perché ad un certo momento risultò inefficace rispetto alle aspettative e perciò deludente. Paradossalmente, ritengo che il mito fu definito “mito” quando non lo era più: finché vigeva era semplicemente muthos , quel che da sempre viene narrato, il racconto, la verità. Lo dichiararono favola quelli che di fatto se ne trovarono fuori e verosimilmente senza alcuna intenzione.
Se le cose stanno in questi termini si può allora dire che gli antichi si sono mutati, in senso stretto in idoli solo innanzi al vero Dio o comunque ritenuto tale. Solo il vero Dio svela gli altri dei come falsi e bugiardi: appunto idoli. Il politeismo antico interpretava il mondo come un campo di forze antagoniste tutte egualmente vere perché semplicemente date, manifestatesi come accadimenti – miracoli, eventi d’eccezione – nei più disparati luoghi della terra: e così raccontati. Dal momento poi che si potevano reperire dei dappertutto, non si poteva mai immaginare che ve ne potesse essere uno solo. Di qui un panteon popolato che però era anche e soprattutto uno spazio ospitale e perciò un universo prospettico. In un universo di credenze cosi accogliente – e perfino inflazionato – per un pensiero illuminista era più facile accedere all’idea che esistessero dei piuttosto che postularne uno solo. Questo dà ragione del perché nel mondo tardo-antico alcuni esponenti dei ceti colti della società avevano smesso già da tempo di credere nei loro dei. Per la medesima ragione i ceti popolari erano disposti ad accogliere senza remore dei nuovi e stranieri, di aderire con entusiasmo alle più svariate, singolari, pittoresche credenze. E dal momento che di pittoresco si parla, si comprende anche come il mito si sia il tramutato con facilità e quasi naturalmente in materiale fantastico e si sia risolto in letteratura. Ovidio, per tutti, insegna . Per alcuni – e non furono pochi – gli dei cessarono d’essere tali prima ancora di potersi trasformare in idoli.
Tutti dei, nessun dio. O meglio, un dio come a ciascuno aggrada. Il mondo tardo antico fu così ampiamente tollerante da permettere la superstizione ed ospitare l’incredulità, da consentire il proliferare delle sette ed apprezzare la sapienza profana dei filosofi. Fatta salva la pace. Cosa ai pagani poté sembrare il cristianesimo alla sua prima apparizione? Una religione nuova? Una nuova scuola filosofica? Verosimilmente ambedue le cose. E’ noto d’altra parte che i cristiani nel confutare gli dei pagani impiegavano argomenti comuni a quelli dei filosofi, ma con diverso intento. I filosofi utilizzavano i criteri razionali per liberare gli uomini dalla false credenze, dallasuperstitio, i cristiani utilizzavano argomenti filosofici per liberare il campo dagli idoli e dimostrare come la religione dell’unico Dio fosse la vera religione. La patristica tutta, fino ad Agostino, ne è la chiara documentazione. La religione vera di un Dio ineffabile, ma che storicamente – è un fatto – ha autorizzato tanta, troppa violenza. Non si può dire così degli antichi dei: troppo viziosi, troppo indolenti, troppo umani per poter essere davvero spietati.
Troppi dei e un solo dio: l’eccesso di tolleranza conduce all’indifferenza per la verità; la proclamazione dell’unico Dio alla pretesa di possedere la verità per tutto e per tutti. Impotenza e prepotenza: due esiti da evitare. E’ allora necessario ripensare l’esperienza che gli uomini hanno fatto e fanno di Dio.
2. “Non avrai altri dei di fronte a me”. Il dio unico e il disincanto del mondo
Molti sono gli studi e le ipotesi sulle origini del monoteismo: egizie, prima ancora che giudaiche. Egiziano è ritenuto lo stesso Mosè. Secondo alcuni studiosi, ideatore primo e instauratore violento del monoteismo è stato Amenofi IV che chiamò se stesso Ekhnaton. “Poco dopo la sua morte nel 1338 a.C. il suo nome fu cancellato dagli elenchi dei re, furono abbattuti i suoi monumenti, distrutte le sue raffigurazioni e le su epigrafi e fu eliminata quasi ogni traccia della sua esistenza terrena”. L’esperimento di Amenofi IV non ebbe seguito e la cancellazione della sua stessa persona rappresenta una tra le più grandi rimozioni della storia: ma – come ci è stato insegnato – il rimosso ritorna. Ed Amenofi ritornò nella personalità storico/mitica di Mosè. Assmann sostiene che la rivoluzione monoteista di Ekhnaton “non solo fu il primo, ma anche il più radicale e violento manifestarsi di una controreligione nella storia dell’umanità”.
Controreligione appunto. Il monoteismo, infatti, s’impianta a partire dalla distruzione di tutte le forme di religione naturale: abbatte templi, abolisce le feste connesse al culto degli dei locali e alle tradizioni popolari. Il monoteismo prima ancora di formularsi come dottrina si è realizzato come distruzione di quel che, modernamente, potremmo chiamare il multiculturalismo religioso. Ha coinciso, inoltre, con l’imposizione violenta di un centralismo politico. Se il monoteismo s’impone storicamente attraverso la distruzione di tutte le forme di religione presistenti – diciamo i molteplici culti locali – si realizza in concreto come una contro religione. D’altra parte vi sono correnti importanti delle teologia cristiana e cattolica che sostengono apertamente che il cristianesimo non è affatto una religione.
Per tornare alla origini è verosimile sostenere che uno dei motivi per cui in Egitto il monoteismo non riuscì ad attecchire, ma provocò, anzi, una cristi di rigetto fu il suo carattere di controreligione. ” Quanto più si penetra nel mondo dell’antico Egitto, tanto più chiaramente si può desumere quale terribile shock debba essere stata la caduta degli dei per una società convinta che non solo il benessere politico ed economico del paese, ma la vita stessa della natura dipendesse dallo svolgimento ininterrotto dei riti in tutti templi del paese”. L’esperimento di Amenofi non ebbe avere corso e perciò non ebbe altro modo d’affermarsi se non come fenomeno minoritario, una religione caratterizzata dall’amixia dall’ esclusivismo e perciò escludente ed esclusiva, separata. E paradossalmente ha tratta forza da questa sua separazione. Il monoteismo si costituì come religione di una comunità di puri, di incontaminati di altri e ala fine come la religione dell’Altro: un altro Dio rispetto agli altri dei, ma soprattutto il Dio più forte, il vero Dio.
“In quel giorno – si legge nella Bibbia – il Signore salvò Israele dalla mano degli Egiziani e Isarele vide gli Egiziani morti sulla riva del mare…Allora Mosè e gli Israeliti cantarono questo canto al Signore e dissero:
Voglio cantare in onore del Signore:
perché ha mirabilmente trionfato,
ha gettato in mare
cavallo e cavaliere.
Mia forza è il Signore…
La tua destra, Signore
terribile per potenza,
la tua destra, Signore,
annienta il nemico.
( Es. 15, 30 ss.)
Il Dio d’Israele è indubbiamente un Dio forte, ma di una forza del tutto singolare. E’ noto come nella tradizione ebraica vi siano correnti che interpretano la creazione come un ritrarsi di Dio perché il mondo sia. Nell’ebraismo si sono quindi sviluppate linee di pensiero centrate sull’idea della debolezza di Dio, tendenza questa che nel novecento ha preso un particolare spicco dopo Auschwitz. Questo modo d’intendere Dio ha poi avuto ampia diffusione nelle teologie cristiane contemporanee. Ora, insisto nel dire che il Dio d’Israele è il dio forte per eccellenza anche se non lo è certamente al modo di quelle divinità coeve, quelle che, appunto, al suo cospetto si tramutano in idoli. Gli dei del faraone, e in generale tutte le altre divinità che il Dio d’Israele rivela come idoli erano potenti secondo un’idea in certo senso spaziale – altezza, larghezza, profondità -: erano tali perché imponenti. Gli idoli, inoltre, erano potenti perché vincevano in battaglia e su questo piano il l’iniziale Dio d’Israele è fortemente imparentato con essi. Ma ogni idolo, così come imponente domina, può essere schiacciato, travolto, può cadere. Non così il Dio d’Israele per il semplice fato che è inafferrabile. Si sottrae nel momento che crea, ma non torna più alla presenza, non è perciò catturabile da mano umana, né da altra potenza: è insondabile, misterioso. Il Dio d’Israele è forte perché nessuna forza lo può mai incatenare, sfugge a ogni presa. Gli idoli, statici nella loro nella loro immane potenza, sono bersagli fissi, vulnerabili; il Dio d’Israele, al contrario, è vivente.
In verità ogni Dio è vivente, ma quello d’Israele sa essere anche assente. All’uomo si rende manifesto per quel tanto che lo chiama e promette, ma insondabili sono i suoi pensieri. E’ un Dio che tiene l’uomo in scacco, lo spiazza e non facendosi mai trovare paradossalmente lo fa avanzare. Per questo le carte si possono sempre rovesciare e l’ultima parola non è mai detta. Il Dio d’Israele tiene l’uomo in cammino e, si può sempre ricominciare. E’ il Dio più forte non perché ha più forza degli altri dei e li tiene sotto di sé – un altro più forte potrebbe sempre sorgere – ma perché si pone al di là del meno e del più, è l’incommensurabile. Un Dio più potente di questo è difficile da immaginare.
In ogni caso il Dio d’Israele si profila, ai suoi esordi come il più forte; progressivamente si trasforma nell’unico e vero Dio. Il Dio più forte fa fuori tutti gli altri dei, li dissacra il mondo e in un mondo ormai privo di dei si erge come radicalmente altro rispetto al mondo stesso e perciò come suo creatore, signore, legislatore. Dio è legge e gli uomini sono a lui sottomessi. Ma di Dio in questi termini ne parlano gli idolatri. Il popolo di Dio parla di lui in altro modo. Dio nel donare agli uomini legge – e singolarmente ad Israele – stringe con loro un’alleanza, offre loro la salvezza. Il mondo, disabitato dagli dei, si disincanta per trasformarsi in uno spazio aperto che Dio consegna alla responsabilità degli uomini. Diverrà giardino o deserto a seconda dell’agire degli uomini, della loro condotta, della loro conformità alla legge e soprattutto della loro fedeltà: “non avrai altri dei di fronte a me” (Es. 20, 3).
Il monoteismo nella sua forma più estrema annienta le potenze intermedie e se non le annienta, angeli o demoni che siano, le mette al suo servizio e comunque le marginalizza. Lo spazio mondano, reso ormai sgombro, diviene luogo dell’incontro libero e verticale tra Dio e l’uomo. Il Dio unico nel disincantare il mondo – e forse proprio per questo- avvicina l’uomo a sé come nessuno degli dei poteva fare. E ciò era impossibile perché gli dei che popolavano il panteon pagano erano già delle gigantografia umane, delle simbolizzazioni delle loro virtù e dei loro vizi Nella Bibbia, al contrario è l’uomo ad essere fatto ad immagine di Dio. Dio eleva l’uomo sulla natura, lo rende intimo a sé, si lega con lui in con un legame sponsale e geloso. L’altra faccia di quest’elevazione è, però, l’assoluta dipendenza, il riconoscimento che solo Dio è il Signore e a lui solo si deve un’incondizionata obbedienza: fit voluntas tua, sia fatta la tua volontà. D’altra parte, l’uomo fatto ad immagine di Dio diviene signore e dominatore del mondo a patto che lo abiti e lo custodisca secondo i comandi del Signore. E perché la natura tutta non gli si rivolti, non può fare quel che lui vuole, ma unicamente quel che vuole Dio.
Il monoteismo non solo discaccia gli dei dal mondo, ma fa sparire completamente gli eroi: se non vi sono dei, meno che mai vi saranno semidei e soprattutto e nessun uomo dunque può essere trattato o venerato al pari di un Dio. Gli uomini, tutti, sono “servi del signore”, e se differiscono tra loro, differiscono in forza dei diversi servizi loro assegnati. Gli eletti, infatti, sono sempre e soprattuttoinviati e nessuno può rivendicare gloria per sé, ma solo Dio è degno di gloria: soli Deo gloria. Questo insegna l’umile grandezza di Mosé. Ma il monoteismo, in ragione della unica e sola sovranità di Dio – sia nella sua formulazione giudaica che nella sua variante cristiana – nel momento stesso in cui eleva gli uomini al culmine della dignità creaturale li rende uguali tra loro: coram Deo, innanzi a Dio sono posti tutti sullo stesso piano. Questo non comporta affatto che gli uomini siano eguali per doti fisiche, intelligenza, carattere, personalità – sono e restano diseguali e se vogliamo essere politically correct, diciamo “differenti” – ; uguali di sicuro invece lo sono per posizione: innanzi a Dio hanno tutti la stessa dignità. Israele, infatti, per quanto costituito da individui singoli, è soprattutto popolo ed è il “popolo di Dio” nelle sua interezza. Al popolo sono promessi dapprima la terra, quindi il regno messianico e, infine, con il cristianesimo, quello dei Cieli. Il monoteismo nell’abbattere gli idoli rovescia anche tutte le gerarchie delle terra e riscatta gli uomini da ogni soggezione, li emancipa da ogni potenza che non sia Dio. Nel renderli universalmente liberi ed uguali li rende responsabili, li obbliga ad istaurare rapporti di giustizia tra di loro e nei confronti della stessa natura. Di questa giustizia Dio stesso si fa garante e la premia con la pace. Un solo Dio, una sola umanità. Nulla sembra più universale del monoteismo. E lo è. Ma il monoteismo, per quanto la cosa possa sembrare paradossale, risulta escludente proprio perché è onnincludente, perché pretende per sé l’universale. La vicenda risulta poi storicamente drammatica se si pensa che di monoteismo non ve n’è uno solo. Ciò ha dato luogo a una storia sanguinaria, a contrasti spietati e senza soluzione dal momento che ogni monoteismo riteneva, per suo conto, d’essere l’unico vero. Vi sono state società, tradizioni, uomini e soprattutto organizzazioni che di volta di volta in volta e contemporaneamente hanno preteso di parlare in nome dell’unico Dio, che hanno arrogato a sé il privilegio di essere depositari unici e garanti dell’unica verità. Di qui una metamorfosi perversa dell’uno. Ognuno e chiunque ha preteso di parlare in nome di Dio, elevando, di fatto, ad idolo la propria autorità. Gli antichi dei erano più dimessi e nessuno pretendeva di essere il solo: si combattevano ma anche coesistevano, s’insidiavano ma, del pari, si alleavano, ognuno aveva una propria sfera d’azione – chi il cielo, chi il mare, chi gli inferi, – e abitualmente nessuno Nei suoi effetti, alla fine, il monoteismo si è rivelato più distruttivo e intollerante del politeismo ingenuo e tollerante, ha scatenato guerre che non potevano concludersi se non con la soppressione dell’altro e perciò senza fine. Ciò ha prodotto una sorta di politeismo mascherato – travestito dalla finzione dell’uno – e perciò degenerato e perverso. Né molti dei né un solo Dio, ma ognuno per suo conto al postodell’unico Dio. La controprova della degenerazione dell’idea monoteista la si ricava dall’uso plurale – e perciò contraddittorio – della parola stessa: appunto i monoteismi. I monoteismi, sul piano storico, lungi dal celebrare il primato dell’uno si sono consumati nella pretesa di fare valer come unica verità la loro particolarità. Risiede qui la grandezza, ma anche l’equivoco dell’idea stessa di cattolicità.
I monoteismi per sussistere legittimamente nella loro diversità devono iniziare a concepire se stessi come vie diverse verso un Dio di tutti e di cui non è padrone nessuno, un Dio- ammesso che vi sia – che la mano d’uomo non può mai catturare e dire: è mio. Tutti devono e possono stare in ascolto della voce dell’Uno, ma nessuno può parlare in suo nome. L’unico Dio si è variamente rivelato, ma la sua parola è segno da decifrare, è appello, interrogazione. L’unico nel suo manifestarsi si rende diverso, ma proprio per questo nessuna diversità può dire di essere la manifestazione vera e compiuta dell’uno. L’uno è dappertutto e per questo sempre altrove. Di questo Agostino ne aveva avuta una chiara percezione quando distingueva tra il nomen gloriae e il nomen misericordiae , tra il Dio eterno, nascosto nella sua eternità e di cui nessuno conosce il nome, e il Dio di Abramo, Isacco, Giacobbe. Questa sequenza di nomi rappresenta uno dei molti possibili sentieri verso l’unico Dio, dal nome non a caso impronunziabile.
A partire da qui bisogna riconsiderare quel che davvero si vuol dire quando si afferma che Dio è uno. Dio è uno perché non esiste alcun dio di fronte a lui. Se così è, nulla è fuori di lui nel senso che nulla può esistere indipendentemente da lui, nulla può essergli radicalmente altro. Non lo può il creato e neppure lo stesso male. Evidentemente Paolo intendeva dire questo quando affermava “in lui viviamo, ci muoviamo ed esistiamo” (Atti 17, 28). Non solo dunque non c’è alcun Dio al fuori di Dio, ma tutto è in Dio. Il Dio “uno”non può, dunque essere concepito come un’entità numerabile – uno fra tanti – e neppure come l’uno opposto ai molti – diverrebbe subito parte – ma piuttosto come, una complicatio, spazio illimitato di relazioni o come avrebbe detto Cusano coincidentia oppositorum. Forse il Dio “anonimo”, l ‘Uno- Tutto della tradizione ermetica: “Dio è Uno; ma l’Uno non ha bisogno di alcun nome; egli è Ente senza nome“. Né politeismo dunque, né panteismo ma l’hen kai pan di Eraclito. Così concepito, Dio non è un ente, quanto ma piuttosto sorta di luogo, il raccordarsi di tutto con tutto.
Se l’unità di Dio la si disegna come una dimensione non dimensionabile che posto ha qui il rapporto “io-tu”, la relazione personale ed elettiva con Dio? Un Tu che è tutto, ma insieme è anche l’Altro, che risolve in sé quel che ha creato, ma consegna l’uomo alla sua libertà? Non mi avventuro oltre a sondare il mistero dell’”unico Dio” – ove Dio e mondo sembrano trapassare l’uno nell’altro – ma mi limito semplicemente a sottolineare quanto sia idolatrica – nel senso corrente di adorazione di un falso Dio – quella presunzione di verità di chi ritiene di poter parlare in nome di quell’Uno che è al di sopra di ogni nome e forse anche di ogni significazione. State ferme umane genti al quiz.
3. Idoli d’oggi
Saremmo del tutto fuori strada se interpretassimo i molti idoli d’oggi come il ritorno degli antichi dei. Non a caso, fin dall’inizio, mi sono premurato di mostrare come gli antichi dei non fossero affatto esperiti come idoli, ma che è stato il monoteismo a farli decadere e a renderli tali. Al politeismo antico non si torna. Per converso gli idoli d’oggi – e non solo quelli – sono frutto o della necrosi dell’unico di Dio. La tradizione che immediatamente precede l’avvento della modernità – intendo quella cristiano-medioevale – faceva coincidere l’essere con in Dio: solo Dio, infatti è quell’ente la cui essenza coincide con l’esistenza. Heidegger ha definito quest’esito, in cui si fondono in l’ontologia classica e il Dio d’Israele, ontoteologia. In quest tradizione l’essere compete solo a Dio: il mondo proviene dal proprio nulla ed esiste solo perché Dio, che lo ha creato, lo tiene in essere. Sullo sfondo della creazione il mondo si rivela come insufficiente e se stesso: se Dio lo abbandonasse ricadrebbe in quel nulla da cui proviene.
Questa prospettiva può essere considerata autenticamente cristiana o no; in ogni caso appartiene ai secoli cristiani che sono inequivocabilmente esistiti. E non sono passati invano. Ora il politeismo moderno si genera a partire dal dissolversi dell’egemonia dell’uno, della signoria dell’unico Dio. Questa mutazione, nell’Europa cristiana, prende avvio dalla confutazione della giurisdizione della Chiesa sulla verità. Il libero esame, la problematizzazione dei dogmi, la contestazione dell’autorità, messe insieme, attivano quel processo di emancipazione che coincide con quel che si usa chiamare autoaffermazione della soggettività. La modernità nel suo svolgersi si differenzia entro di sé: singoli, gruppi, associazioni cercano, ognuno per loro conto, di farsi valere, nessuno è più disposto a riconoscere a nessuno il monopolio unico della verità. Lo stesso “bene” perde la sua evidenza: non è più ciò a cui bisogna conformarsi, ma qualcosa su cui di volta in volta accordarsi. Il bene si trasforma in valore, è qualcosa che si valuta, che al pari dei beni economici si scambia. Di qui diverse prospettive sul mondo, una molteplicità di punti di vista, di posizioni e di postazioni: nuovi molti dei fioriscono da ogni parte. Un libero gioco tra libertà, ma che ha anche avuto esiti perversi.
Non sempre, infatti, la controversia tra le diverse posizioni si è formulata come confronto tra prospettive, come discussione e selezione tra ipotesi alternative. Vi sono stati movimenti che a partire dalla loro parzialità hanno ritenuto di possedere una verità più vera di tutte, che a partire dalla loro prospettiva particolare hanno elaborato visioni del mondo universali e si sono sentiti in diritto non solo di divulgarle, ma perfino di imporle.
I totalitarismi che hanno contrassegnato la tarda modernità hanno preteso di essere tutto – e perciò di ricondurre tutto a sé – perché ritenevano di conoscere il destino della storia e dunque i sentieri su cui avviare e guidare l’umanità. Il tratto peculiare di queste idolatrie è quello di farsi valere come verità assolute. Questa non era affatto la prerogativa dei vecchi, antichi, dei: ” gli dei – scriveva Jean Paul – possono giocare insieme; ma Dio è serio”. Se l’idolatria coincide con l’adorazione di “dei falsi e bugiardi”, il monoteismo, che pure ha fatto decadere ad idoli gli antichi dei, ha generato, per eterogenesi dei fini, una più terribile idolatria: quella della parte che, dissimulando perfino a se stessa il suo essere parte, usurpa il posto dell’uno. La modernità specie nei suoi esiti novecenteschi ha violato ed insieme ha tentato di rendere storicamente effettiva la “smisurata sentenza” di Goethe: “nihil contra Deum nisi Deus ipse“. Chi come Dio? Biblicamente nessuno, ma nel senso: nessuno si permetta neppure di pensarlo. La domanda è retorica? Oppure “chi come Dio!” E’ una sfida, la formulazione icastica di un’impossibilità. Eppure la modernità ha violato in varie riprese le barriere della smisurata sentenza, ha tentato di darne effettività nel mondo. Lo ha fatto elevando a divinità la ragione umana ed esaltando le magnifiche sorti e progressive della storia; lo ha fatto tentando l’assalto al cielo della rivoluzione proletaria, pretendendo di selezionare una razza superiore che ha condotto solo ad una sperimentazione illimitata dell’uomo sull’uomo. Un delirio un tempo a dominante ideologico-politica, prende oggi le forme più ineccepibili e convincenti dei successi tecnologici.
Nel corso della modernità sono sorti molti dei, si sono scatenate potenze telluriche inaudite che, a turno, hanno cercato di usurpare il posto dell’”uno”. Potenze sconosciute si sono elevate contro in cielo: hanno dato lo sfratto all’Unico, ma nel momento in cui ne sono stati i liquidatori si sono di fatto trasformati nei suoi spuri eredi. Hanno poco a che fare con l’unico Dio, ma in modo magari involontario sono loro stesse per prime a crederlo. Le idolatrie più idolatriche sono quelle non riconoscibili come tali, quelle che paradossalmente sono uscite dal seno dell’uno, che ne assumono le movenze e lo stile, ne sono il parto degenerato e distorto e perciò le più pericolose e dissolutorie. Tanto basta per capire perché le ambizioni della modernità si siano logorate in una guerra senza quartiere il cui esito sono state macerie: la caduta degli dei. Se nelle ideologie del novecento vi è una qualche vestigia di paganesimo è quel tratto di titanismo, l’idea che da una qualche parte possa sorgere un Dio che muova contro Dio.
L’esito fallimentare di questo titanismo va ormai sotto il nome di fine delle ideologie. Questa fine ha dato luogo a una diffusa delusione. Ma le ideologie non sono affatto finite: dalle ceneri dei titani è emersa una miriade innumerevole di dei minori, di comodo: dei effimeri, di un giorno ed è già fin troppo lungo. Potente, invece, e pervasiva è la macchia che questi dei li produce e in grande quantità: il danaro, se non lo vogliamo più chiamare capitale. Non è un Dio nuovo se un’antica sentenza di Publio Siro dice “pecuniae unum regimen est rerum omnia“, governo unico di tutte le cose. Ma il denaro oggi è certamente divenuto il Dio egemone e ciò non riguarda tanto le ricchezze private, che più o meno sono sempre esistite e che a seconda delle filosofie corrompono o aprono le porte a coloro che le possiedono. No, si tratta di un potere invisibile, che è dappertutto, tanto da spiazzare lo stesso Dio della Bibbia. Se, infatti, il Dio d’Israele è inafferrabile, il denaro è oggi sufficiente anonimo per poterlo identificare. La macchia anonima della ricchezza fabbrica un’infinità di dei giornalieri per soddisfare i bisogni sfrenati che essa stessa produce e per placare i disagi, il mal di vivere che costantemente induce. Ma la morte del Dio signore e creatore, l’emancipazione dalla soffocante ipoteca dell’uno sono state sufficienti per rendere gli uomini veramente liberi? Non del tutto. Gli uomini, liberati dai vincoli, hanno perso di vista i fini, si sentono spesso sradicati, abbandonati ad una mobilità senza mete, in preda ad un folle, falso movimento.
Gli dei minori che oggi popolano la terra hanno poco da spartire con gli antichi dei nel cui nome si celebravano i grandi misteri della vita, la generazione, la nascita, la morte. Gli dei di un giorno, invece, sono surrogati d’una salvezza promessa e mai realizzata. All’idea di salvezza è subentrata, infatti, quella di benessere e la felicità lungi dal coincidere con la realizzazione di una vita compiuta la si identifica nell’efficienza nella fitness. Di qui un rapporto strumentale con uomini e cose: non ci si lega a niente e a nessuno per il timore di restarne prigionieri, ma così si rimane soli. E allora non resta altro che cercare compagnia: più che costruire relazioni, si approfitta delle occasioni, in una totale indifferenza per la verità. Non c’è nulla per cui vale la pena impegnarsi a fondo, spendersi, mettersi in gioco: nulla è rilevante tutto è equivalente. L’incapacità di valutare rende, se non impossibile, certamente difficile la facoltà di scegliere. Nelle more ci si abbandona alla vita nella sua immediatezza: si dà libero corso ai desideri, si ricerca l’eccitazione per sentirsi vivi. Viviamo in un mondo ove quando non si è euforici, si corre il rischio di ritrovarsi depressi. Per evitare d’esserlo è meglio trattenersi nell’indolenza oppure si cerca di riempire in qualche modo il tempo vuoto del far niente, l’assordante silenzio del nulla. Ci si impegna comunque in qualcosa: è un prendere e lasciare, un iniziare senza portare mai nulla a termine – come si diceva tempo fa, giro, leggo, conosco. Si frequentano uomini e cose senza relazionarsi davvero con loro e meno che mai ingaggiarsi con la vita. E’ un’accidia travestita da attivismo.
Il nostro tempo non si riduca certo a questo; c’è dell’altro e molto, ma qui ho voluto indicare speditamente solo alcuni degli idoli che popolano il presente, e soprattutto i modi con cui gli uomini cercano di sfuggire alla durezza della realtà, di occultare la loro finitezza procurandosi attimi assoluti, sensazioni artificiali di infinità, di onnipotenza. Oggi più che in un politeismo tollerante ci imbattiamo, di nuovo, in un monoteismo perverso: l’Io/dio. D’altra parte una delle parole d’ordine l’epoca – la si sente spesso – è: emozioniamoci. I nuovi idoli sono istantanei e labili, ma come accade con tutte le droghe e i sostitutivi gli uomini non riescono a farne a meno. Per quanto deludenti non si possono che venerare e per abbatterli è necessaria una nuova, singolare empietà.
A fronte degli idoli effimeri del presente è possibile immaginare che il mondo sia ancora popolato da dei? Certamente: appaiono dei dappertutto se il mondo lo si percepisce in generale come divino, se lo si sente come tale. Gli dei appaiono nelle sorgenti da non inquinare – e sono dei delle fonti – nel malato da curare, nel reciproco generoso dedicarsi degli uomini nel bisogno che non salva, ma sostiene. Gesto di custodia è quella dell’educare, di introdurre ed avviare le giovani generazioni alla vita. Ognuno si fa rende per l’altro dio protettore. E da sempre è divina la passione che accende l’amore – Afrodite sovrana – ma non lo è di meno la fedeltà che lo alimenta e non lo fa appassire. Divina è per gli uomini la giustizia – l’eterna Dike – e dei della città divengono coloro che s’impegnano per la sua prosperità che contrastano gli egoismi e fanno in modo che la riuscita dei singolo non vada a discapito dei più ma sia funzionale al bene di tutti.
Al motto – pare del comico Cecilio – homo homini deus Hobbes preferì quello, a suo parere più realista, di Plauto homo homini lupus. Ha assunto come presupposto il peggio per attingere il meglio, per identificare un spazio neutro che impedisse agli uomini di nuocersi reciprocamente o, quanto meno, di evitarsi senza danno. Ha così elaborato le condizioni formali – il patto – per una pace possibile, per la coesistenza. Non è bastato: il mondo ha conosciuto tregue ma non ha debellato l’inimicizia. E’ giunto il momento che ogni uomo cominci a trattare tutto quel che esiste, preso nella sua singolarità come Dio. Ogni cosa è, infatti, divina nella sua unicità e va rispetta e custodita per quel che è, così come è nella sua irripetibilità. Il divino non è una potenza che prevarica le cose, ma è l’atteggiamento che le custodisce. L’”uno” non è un superente che risolve in sé tutte le ma perché ogni cosa è sempre e solamente una.. Dio è questa pianta, questo fiore quest’uomo e così sempre. Ritengo che non sia affatto un caso che Aristotele considerasse il singolare, il tode ti, ineffabile ed insieme l’assolutamente reale. Per lui, infatti, erano realissime le cose – le sostanze prime – non le essenze. Queste sono significati, parole che nominano e rinominano le cose senza mai attingerle: esse esistono nel silenzio che le custodisce. E’ questo, infine, il modo più adeguato per interpretare l’antica sentenza di Talete – tutto è pieno di dei – il modo migliore di farla risuonare per noi.
In un presente che senza scrupoli viola uomini e cose in un gioco arbitrario tra potenze è all’opera un qualche elemento antidivino che genera idoli. Al contrario, sentire divine le cose nient’altro significa se non accostarle con rispetto, venerale: quest’atteggiamento coincide con la pietas degli antichi e nel presente la prosegue . Che poi è anche quella cristiana. La pietas non è altro dalla vita, ma si sviluppa come un contromoviento della vita in se stessa, come limitazione nei confronti della sua stessa crudeltà. E’ infatti la pietà che sopporta il dolore del mondo, lo prende su di sé. Tramite la pietà, la natura bilancia la sua violenza indominabile scomposta, plasma la sua potenza e la trasforma in forza fecondante e benefica.
Ma la pietà soprattutto venera. Il termine greco per pietà è appunto eusebeia dal verbo sebomai che vuol dire mi ritraggo, arretro timoroso, non entro in territorio sacro. La pietà, così intesa, ha poca da spartire con un atteggiamento patetico e sentimentale; è tutt’altro che un commuoversi, ma è piuttosto un lasciar essere, a suo modo è un contemplare. La pietà, infatti, non invade mai lo spazio dell’altro, né si lascia invadere. Muove incontra se si sente chiamata, e poi è tutt’altro che triste, gioisce della felicità dell’altro. Chi invidia distrugge. E Satana tentò l’uomo di superbia per farlo cadere, perché ne era invidioso. Se si guarda al mondo in cui viviamo alla luce delle pietà ci si rende conto di quanto esso sia distante da Dio, di come l’idea stesa di pietà risulti irrealistica. Nel mondo contemporaneo sono all’opera potenze antidivine che impediscono di riconoscere che il è divino. Da ui idoli che illudono, deludono, deviano. D’altra parte: è necessario che gli dei siano fallaci perché si producano nuovi.
Gli idoli nuovi e vecchi sono stati abbattuti una vola per tutti dall’incarnazione di Dio che per me nient’altro significa se non il divino nel mondo, noi stessi dei. E quand’anche gli non fossero stai definitivamente abbattuti esiste un punto di vista che li rende battibili. Non so se o quanto questa mia convinzione possa dirsi cristiana. Ritengo, però, che non ne sia del tutto estranea se Giovanni, a suo modo, ne suggerisce già l’idea.: “nessuno ha mai visto Dio ; se ci amassimo gli uni con gli altri, Dio rimane in noi e l’amore di lui in noi è perfetto” (2Giov. 4, 12).