Dopo le elezioni
Le elezioni del 6 e 7 giugno 2009 sono le più insidiose per il PD. Perché ha perso Berlusconi ma ha vinto il centrodestra. Questo dice il divario di risultato ed effetti tra le europee e le amministrative. A destra troviamo un ceto politico diversamente cresciuto e convocato che prova a farsi classe dirigente: non a caso si sta saldamente insediando sul territorio, strappando al centrosinistra amministrazioni tradizionalmente governate. E tanto più importanti dal momento che l’impotenza di questi partiti ad educare e selezionare personale politico riduce le distanze tra l’amministrazione e la politica costituendo i luoghi dell’amministrazione come palestra e tirocinio e quindi selezione della nuova classe dirigente. I politici del centrodestra appaiono quindi in grado in prospettiva di affrancarsi dal leader tuttora indispensabile e straripante. Berlusconi cioè sta costruendo preterintenzionalmente un partito oltre se stesso. Arcore è sempre una Versailles brianzola, ma non è già più capitale indiscussa.
Discorso specularmene rovesciato sulla sinistra dello schieramento. Qui un ceto politico tribalizzato in correnti personali e corporative non riesce a diventare classe dirigente. Il porcellum applicato secondo il suo spirito ha finito per fare più disastri a sinistra che a destra. Questo racconta il lavoro “per mappe” svolto con intelligenza ed acribia da Ilvo Diamanti. Se da un lato il PdL, come già FI, si presenta come un partito network che aggrega soggetti politici e gruppi di potere radicati sul territorio, dall’altro il PD, a partire da una incolmata lacuna di cultura politica, si dibatte in un difficile dilemma antropologico, essendosi arroccato autoreferenzialmente intorno a due tradizionali dorsali organizzative, rispetto alle quali i ricorrenti scoop giovanilistici costituiscono un semplice palliativo se non una beffarda aggravante. Si riproduce cioè non la selezione ma la conservazione di un personale politico.
L’interrogativo intorno alla questione delle alleanze ha qui la sua radice. Scrive Pierluigi Battista sul “Corriere della Sera” del 10 giugno 2009: “Sulla prospettiva delle alleanze il buio è totale, nella lacerante incertezza se guardare al centro, alla sinistra, oppure restare immobili.” E infatti la “lacerante incertezza” discende dalla già registrata assenza di cultura politica e dalla conseguente impossibilità di un punto di vista tendenzialmente unificante. Qui pure la non scelta sull’antropologia del personale del partito: funzionari post-weberiani, nuovi notabili diversamente commercianti con l’immagine, totalmente inscritti nei sottosistemi luhmanniani…
Una seconda osservazione riguarda i lavori in corso all’interno dei due schieramenti, o meglio il dislocarsi delle tensioni all’interno del campo bipolare: a destra come a sinistra ottengono vantaggi, che si allargano, le componenti che gestiscono differenti populismi. Da una parte quello etnico della Lega che cavalca le paure territoriali e insieme pone le fondamenta di un welfare territoriale protettivo dove il nemico di classe non è più il padrone ma lo Stato esigente che reclama le tasse. Nell’altro campo avanza il populismo giustizialista di Di Pietro che cavalca i temi morali sollecitando una opposizione più schierata e più gridata, e pigia sul tasto della maestà della legge offesa e messa a rischio dalle iniziative del Cavaliere. Le vicende personali di Berlusconi lo costringono infatti a una continua collisione ed erosione dello Stato di diritto. Entrambe le posizioni, quella di Umberto Bossi e quella di Antonio Di Pietro hanno effetti diluenti sul bipolarismo all’italiana, lo articolano al suo interno, lo impacciano, lo spingono verso altro da sé.
E’ d’obbligo nelle circostanze elettorali un riferimento alle analisi dell’istituto Cattaneo di Bologna: esso da anni rappresenta la bibbia delle consultazioni. Il “Corriere della Sera” di sabato 13 giugno ne fornisce un utile riassunto bignamistico[1]. Tre i problemi che il Cattaneo evidenzia.
Il primo è quello che si raccoglie intorno alla metafora del “grande freddo”. Scrive infatti Francesco Alberti: “Non c’è estate per il Pd. Numeri da Grande Freddo. Meno 47,1% in Trentino Alto Adige. Meno 47,7% in Abruzzo. Un buco nero di 4.133.579 voti in tutt’Italia: pari alla somma degli abitanti di Roma e Milano. Tra Europee e Provinciali l’emorragia è stata tale da incuneare in alcuni osservatori il sospetto del “cedimento strutturale”.”[2] Un mare di consensi volatilizzati. Dove? “Due milioni e mezzo nell’astensionismo – spiega Paolo Natale, docente di analisi dei sondaggi all’Università di Milano -, circa 800.000 a Di Pietro e altri 400 mila sulle liste di sinistra”. Ha perso ovunque, il Pd, con una coerenza numerica che ha dell’incredibile. Alle Europee si è quasi dimezzato nelle isole (-42,9%). Ha subito pesanti amputazioni al sud (-37,1%). E’ rotolato a -33% al Centro, portandosi dierto il mito dell’invincibilità rossa. Si è prosciugato al Nord-Ovest (-33,7%). Solo un po’ meglio nel Nord-Est (-28,6%), dove forse aveva già dato quanto a perdite.”[3]
Più pesante, anche per le ragioni sopra ricordate, il risultato delle Provinciali. “Al Nord la flessione oscilla tra il 30 e il 40% (Torino, Padova, Bergamo, Rimini, solo alcune). Un calo che arriva fino al 50% al Centro (Fermo, Macerata, Grosseto e Frosinone) così come si spinge tra il 50 e il 60% al Sud (Barletta, Brindisi, Taranto, Lecce e Cosenza).”[4] E poi la costante che apparenta gli schieramenti contrapposti: “Sia nel centrodestra che nel centrosinistra – è l’analisi dell’istituto Cattaneo di Bologna – il partito maggiore perde voti a favore della sua stessa area politica.”[5] E’ il già ricordato parassitismo crescente, con il vento in poppa in entrambi i campi degli schieramenti contrapposti.
La terza considerazione del Cattaneo è già stata più volte anticipata: per il Partito Democratico va risolto il nodo di fondo, ossia l’identità, la condizione che fa sì che non si tratti, secondo il mantra abituale, di un nuovo partito semplicemente, ma di un partito veramente nuovo.
Una riflessione altrettanto puntuale ritroviamo, sul medesimo giornale e nel medesimo giorno, ad opera di Piero Ostellino. Il fondista del “Corriere” analizza e interpreta il significato del non voto: “L’astensionismo è in aumento. Non è momentaneo disinteresse, contingente disaffezione. È un partito. Che non rifiuta la Politica, ma fa politica nel solo modo che, ormai, è rimasto al popolo sovrano. È in crisi la democrazia rappresentativa. Una parte crescente del popolo ritiene che i suoi rappresentanti (i politici) lo abbiano spogliato della propria sovranità, che non si limitino a “esercitare” il potere di governare – che rimane formalmente del popolo – ma governino ignorandone la sovranità e le domande. E’ – non necessariamente un male – una nuova, e pacifica, forma di rivoluzione; che, però, potrebbe degenerare se la politica non ne tenesse conto.”[6] La conclusione è quella abituale: “E’ la democrazia, bellezza”, direbbe Humphrey Bogart.[7]
Non c’è una sola chiave inglese
La transizione politica italiana, che forse intravvede in lontananza se non un esito almeno una svolta, e forse una svolta a gomito, continua a presentarsi come un recipiente che si rifiuta di essere aperto con una sola chiave inglese, ivi inclusa la logica referendaria. Per questo può risultare di una qualche utilità una ricostruzione narrativa degli anni recenti.[8] Si tratta cioè di fare i conti con quella che abitualmente viene definita “Seconda Repubblica”: termine che continua a consistere nella sua profonda ambiguità. Probabilmente dietro l’abusata definizione di “Seconda Repubblica” si raccoglie un insieme di crisi, un succedersi di soglie di cambiamento che si mettono in una non ordinata fila indiana lungo gli anni che vanno dal 1992 al 1994. Crisi della prima Repubblica come crisi della partitocrazia, ossia di quella Repubblica dei partiti che vuoi Togliatti, ma anche Pietro Scoppola, avevano additato all’attenzione non soltanto degli studiosi.
Il terremoto è rappresentabile dietro una tumultuosa vicenda politico-giudiziaria e dietro un’etichetta: Tangentopoli.
È a partire da allora che progetti di soluzione della crisi, tentativi di precostituirne un esito si affiancano e contendono tra loro. C’è un progetto di Marco Pannella e Mariotto Segni che punta sul sistema elettorale uninominale, quasi che, acclarata l’impossibilità di mutare i soggetti che stanno dentro il quadro, si possa indurre una qualche razionalità prospettica a partire dalla cornice elettorale e istituzionale.
Un secondo progetto fa capo ad Umberto Bossi. Il Senatùr si contrappone a quello Stato unitario riconosciuto universalmente in difficoltà nel plasmare gli italiani. Contro la centralità dello Stato e dello Stato dei partiti il radicamento etnico: “Roma ladrona”. Perché la capitale e la partitocrazia si tengono, se è vero che lo stesso Berlinguer affermò: “I partiti hanno occupato lo Stato e tutte le sue istituzioni a partire dal governo. Hanno occupato gli enti locali, gli enti di previdenza, le banche, le aziende pubbliche, gli istituti culturali, gli ospedali, le università, la Rai-tv, alcuni grandi giornali. E il risultato è drammatico. Tutte le “operazioni” che le diverse istituzioni e i loro attuali dirigenti sono chiamati a compiere vengono viste prevalentemente in funzione dell’interesse del partito o della corrente o del clan cui si deve la carica”. Analisi gemelle rispetto a quella di Berlinguer troviamo nell’area di riferimento del cattolicesimo democratico. La Lega dunque non muove contro i mulini a vento e il consenso elettorale non le manca: nel 1993 Marco Formentini è sindaco di Milano, ed entra a Palazzo Marino sotto la verde bandiera della Lega.
Che cosa attraversa il corpaccione dei vecchi partiti che si raccolgono a Palazzo Montecitorio e a Palazzo Madama quasi come fossero i bastioni di una nuova Bastiglia? Si può dire che dopo le elezioni del 1992 l’intera classe politica del pentapartito entra nel panico. Non a caso Pannella gioca le sue carte e il Partito Radicale si trova al centro di un’attenzione e di un consenso davvero inabituali, passando dai suoi normali 2000 iscritti ai 40.000 di allora. Marco Pannella convoca alle sette di mattina i parlamentari nell’Aula di Montecitorio, con la dichiarata intenzione non di difendere i singoli parlamentari spaventati in quanto tali, e quindi il ceto politico, ma la dignità del Parlamento messa a rischio. Pannella è tra i fautori dell’elezione di Oscar Luigi Scalfaro prima alla presidenza della Camera e poi al Quirinale.
Terzo progetto ad entrare in campo è quello di Forza Italia. Lo elabora un gruppo di intellettuali che fanno capo a Martino e ad Urbani: l’intenzione dichiarata è quella di dotare finalmente il Belpaese di quel partito liberale di massa che la storia gli ha fin qui negato. L’anticomunismo originario di Forza Italia si spiega con l’intenzione e la necessità di battere la concorrenza considerata vincente del partito della sinistra capitanato da Achille Occhetto: si tratta cioè di mettere insieme tutti quanti si oppongono ai “comunisti”.
Con una sorta di mossa del cavallo scacchistica, Berlusconi sconfigge insieme i “comunisti” e Bossi. I sondaggi del dicembre 1993 dicevano infatti che la Lega avrebbe vinto in tutta l’Italia settentrionale. Si rifletta un attimo sulla circostanza che totalizzando la Lega quasi completamente i parlamentari del Nord dietro le proprie bandiere avremmo avuto uno strano Parlamento. Perché la maggioranza nordista sarebbe risultata minoritaria rispetto alla totalità del Parlamento. E si ponga mente al fatto che Bossi ha parlato più volte di patria padana in chiave secessionistica. Che non ha esitato a raccogliere i propri parlamentari in un sedicente parlamento del nord, che teneva le proprie riunioni nel Mantovano.
Berlusconi tiene sulla corda Mariotto Segni e poi lo scarica. Berlusconi, al di là delle carte preparate da Urbani, non si è affaticato nella creazione di un progetto. Preferisce lavorare per adattamento con l’occhio attentissimo ai sondaggi. Con un uso spregiudicato della sondaggistica, che in quegli anni non appare ancora quella malattia senile della politica che oggi affligge le analisi e le prospettive. Il Cavaliere si reca al Congresso dei Radicali e si mette platealmente in tasca il discorso già preparato esclamando: “Avete ragione voi: bisogna procedere alla riforma uninominale del maggioritario.”
Interviene a questo punto una lettura particolarmente acuta di don Gianni Baget-Bozzo: l’inquieto pensatore genovese osserva che sta emergendo nel Paese una forza politica estranea alla egemonia degli intellettuali. Una sorta di gentry all’italiana. Quelli che la politica della tradizione partitica avverte come “i nuovi barbari”. Aveva cominciato Bossi, passando direttamente dai negozi dell’Upim agli studi televisivi delle tribune politiche, con grande sfoggio di cravatte e fazzolettoni verdi. Lasciando alle spalle il costume che l’austero Togliatti imponeva ai parlamentari che venivano dalla fabbrica: la cravatta era d’obbligo, e, dietro la cravatta, un lungo tirocinio nelle sezioni, talvolta un corso alla scuola di partito moscovita, una Mosca ancora saldamente bolscevica, La Mecca del comunismo internazionalista.
Per questo molti dirigenti del PCI parlavano il russo, non perché fossero poliglotti, ma perché avevano frequentato la scuola di partito. Bossi, oltre alla foggia, “innova” nel linguaggio. La sua è una neolingua dialettale, mutuata dalle conversazioni dal barbiere, punteggiata di espressioni tratte dalla “Gazzetta dello Sport”, i fogli rosa del quotidiano più diffuso sui tavoli dei bar della Padania.
Vi è una convinzione che attraversa il nuovo schieramento “barbarico”: deve fare politica chi fin qui non l’ha mai fatta. Sarà in particolare l’ironia di Oscar Luigi Scalfaro a mettere alla berlina la circostanza che la nuova competenza politica ha salde radici in una dichiarata incompetenza. Ma il problema resta. Restano soprattutto “i barbari” sul territorio, nella politica e nelle istituzione del Belpaese. Un’operazione a vasto raggio che ovviamente non è priva di costi: anzitutto riduce la qualità della classe politica. Sull’onda poi delle vicende personali e giudiziarie del leader propone e pratica una diversa forma di stravolgimento del diritto. L’assalto alla maestà della legge. Il diritto viene partitizzato, o meglio, piegato e dissolto per una ipertrofia del conflitto di interessi e delle sue logiche. Lo Stato di Diritto questa volta esce davvero “picconato”. Tornano gli intellettuali, ma come notai alla corte e manutengoli di questa gentry dallo sberleffo facile. A un certo punto Pecorella non basterà più: ci vuole Ghedini.
Mi interrogo intorno a una prospettiva di lungo periodo. Quando nella sua autentica e lungimirante saggezza il presidente Giorgio Napolitano invita ad una inclusione istituzionale e costituzionale di cui la politica è il veicolo possibile, e dunque ne porta la responsabilità, ebbene mi chiedo se l’inquilino del Quirinale non abbia in mente una “civilizzazione” dei “nuovi barbari”. Con un disegno, mi pare, che riprende in italiano la riflessione di Habermas sul patriottismo costituzionale, in questo distinguendosi da un’analoga operazione tentata prima di lui dal presidente Carlo Azeglio Ciampi, che invece pensava a un comune sentire a partire da una piattaforma risorgimentale (in questo quadro la Resistenza può ben essere letta come “Secondo Risorgimento”), rivitalizzando una liturgia del tricolore lasciata cadere in disuso e riproponendo il gregoriano dell’Inno di Mameli.
Un’interpretazione politologica
Luciano Fasano ha individuato un carattere dei lavori tuttora in corso istituzionalmente intorno ai sistemi elettorali nell’evidente intenzione nazionale di volersi muovere “come gli anglosassoni”. Il Modello Westminster è non a caso dentro la riflessione non solo del ceto politico ma anche di ampi settori dell’opinione pubblica italiana. Con il rischio, dal Fasano additato, di trascurare elementi che risultano tipici del caso italiano. Con il rischio soprattutto di trascurare la circostanza che i sistemi maggioritari a turno unico consolidano il bipartitismo se lo trovano già presente, non sono però in grado di crearlo. Non a caso la legge maggioritaria viene di volta in volta riproporzionalizzata dalle piccole formazioni al tavolo delle trattative con le grandi. A funzionare è ogni volta il ricatto di un mancato consenso che condannerebbe l’interlocutore più grande alla sconfitta. Tutto questo dentro un’identità nazionale ondinariamente definita “fragile”, in un Paese, il nostro, dove pesa meno che altrove la frattura tra capitale e lavoro. Dal momento che consistono maggiormente altre fratture, quali ad esempio il confronto tra laici e cattolici su un territorio che vede insistere il Vaticano. In pratica per tutte queste ragioni soltanto accennate il caso italiano può più di una volta sembrare fare a pugni con il nostro ostinato voler essere “anglosassoni”.
La crisi delle ideologie non ha infatti scongelato le vecchie fratture. L’indebolimento delle storiche identità culturali e ideologiche non ha reso meno profonde le fratture, che anzi sono state assunte ed enfatizzate altrimenti. Dalla Lega, con riferimento etnico; da Berlusconi, nei termini di un anticomunismo elettoralmente rinverdito. Per tutte queste ragioni in fascio il sistema presenta un grado di frammentazione superiore a quello della Prima Repubblica. Per queste ragioni la frattura tra laici e cattolici nel PD appare spesso non essere vissuta come “interna” al partito, ma come oppositiva, cioè come modalità opposta di vivere il partito, quasi che gli sguardi rispettivi vengano da fuori, incubati da una lunga e rancorosa storia.
Non a caso Panebianco ha osservato che quei partiti che un tempo nascevano “fuori” dall’arena parlamentare, adesso nascono per frammentazione interna al perimetro parlamentare. Un tempo lo si sarebbe definito “l’arco costituzionale”. E’ questa circostanza che fa uscire dal campo via via modelli pur razionali, quali quello francese o quello spagnolo. È ancora questa circostanza che ci riconsegna il cruccio di individuare non tanto una legge maggioritaria, quanto piuttosto una legge che garantisca effetti maggioritari. E’a partire da quest’ottica che può essere quantomeno traguardata la concorrenza interna e in certo senso “parassitaria” ai due maggiori schieramenti gestita da Bossi e da Di Pietro. Forse sarei meglio compreso se, anziché usare l’aggettivo “parassitario”, usassi un termine che ha corso nel ciclismo, e che parla dei “succhiaruote”, di quelli cioè che si mettono in scia, pronti a scattare per il sorpasso nel momento opportuno.
Resta comunque un interrogativo di non poco conto: come mai la Lega e l’Italia dei Valori ottengono questi risultati? È pensabile che a consentire loro una crescita non di rado esponenziale sia l’attitudine, in un campo e nell’altro, a dislocare la loro offerta politica sul crinale che divide e congiunge politica e antipolitica. Per questo il gioco riesce. Per questo la dinamica merita di essere studiata. E forse, concedendomi alla battuta, un qualche scenario anglosassone la politica italiana lo ha pur costruito. Lo ritrovi nell’abitudine meteorologica che ripete: “Nebbia su Londra”.
L’ingegneria referendaria
È davvero vero che dove non può la politica potrà il referendum? È davvero vero che dove non arriva il quadro arriverà la cornice? Da tempo ci stiamo arrovellando. Intervenendo in maniera particolarmente acuta sul ruolo dei referendum come antidoto ai troppi partiti in lotta, Angelo Panebianco osserva che la riduzione della frammentazione partitica operata dalle elezioni dell’aprile 2008 non è frutto sistemico, bensì “la causa è stata esclusivamente una decisione politica: la scelta di Walter Veltroni di sbarazzarsi dell’antica coalizione di centrosinistra e di puntare sul “partito vocazione maggioritaria”.”[9] Scelta virtuosa, cui è però seguito uno scivolone, che Panebianco indica così: “Veltroni commise poi il gravissimo errore di allearsi con Di Pietro, obbligò anche la destra a un analogo ricompattamento (con la nascita del Popolo della Libertà). Ma ora Veltroni è fuori gioco e anche il partito a vocazione maggioritaria è stato messo in soffitta.”[10] Così il problema è davvero opposto coi piedi per terra e sui numeri esatti, anche con la previsione, probabilmente non peregrina, che nel campo del Partito Democratico si tornerà a un perimetro più ampio e tradizionale di alleanze, di maniera che “la legge elettorale in vigore tornerà allora a sviluppare le sue letali tossine, alimenterà di nuovo la frammentazione partitica.”[11] Per questo, sostiene Panebianco, “se non si fa qualcosa (e l’unico “qualcosa” possibile è, al momento, il referendum) il sistema politico italiano sarà di nuovo tra pochi anni, come è stato negli ultimi decenni (fino al 2008), il più frammentato dell’Europa occidentale.”[12]
È questa ricognizione che consente anzitutto a Panebianco di superare l’obiezione di Sartori che paventa un partito che con soltanto il 30% dei suffragi incameri il 55% dei parlamentari. Con l’obiezione aggiuntiva che il partito sartoriano candidato al 30% sarebbe comunque destinato a crescere perché fatto oggetto del “voto utile” degli elettori. E poi, se vincesse il sì, quell’Umberto Bossi che ha già imposto una battuta d’arresto agli entusiasmi berlusconiani nei confronti del referendum, è pensabile costringerebbe il Cavaliere a una nuova legge parlamentare… Quanto al pericolo di cosiddette “liste-arlecchino”, fin qui imposte dalla contabilità delle piccole formazioni, dovrebbe considerarsi bypassato dal momento che, dopo il voto, i medesimi partiti di ridotta dimensione si vedrebbero privati di quel simbolo che è parte non soltanto enfatica del rapporto con i rispettivi elettori. Condizione destinata a ridurre irrimediabilmente la loro capacità di contrattazione. Non a caso, secondo un parere di Panebianco che totalmente condivido, la fiera opposizione della Lega al referendum discende da questa considerazione.
Da ultimo uno sguardo alle “regolarità” delle recenti vicende politiche italiane. Scrive Panebianco: “I nemici di Berlusconi temono che, con il nuovo sistema, egli possa rafforzarsi ulteriormente. Osservo che è sbagliato giudicare i sistemi elettorali alla luce di preoccupazioni politiche contingenti. Prima o poi, Berlusconi dovrà comunque lasciare il campo. Invece, il rischio, esasperato dall’attuale legge elettorale, di un’eccessiva frammentazione partitica peserà a lungo su di noi.”[13] Ma c’è di più. La storia della politica nazionale insegna a partire dal 1992 che i sistemi elettorali sono tornati come un boomerang su quanti, da una parte e dall’altra, li avevano pensati a partire dal proprio interesse di parte. Non è detto che questo referendum rappresenti necessariamente l’eccezione.
E, da ultimo, la parte indubbiamente già da oggi più virtuosa dei quesiti referendari: l’impossibilità di presentarsi candidato in più di una circoscrizione. Sarebbe la fine di uno scandalo. Di un’onta nei confronti degli stessi lavori parlamentari. Una vera zeppa dentro la logica dilagante del “porcellum”.
Credo che tutto converga intorno alla considerazione dell’utilità per questa democrazia di costituire un arco costituzionale che ricomprenda i “nuovi barbari.” I quali peraltro hanno già messo in campo liturgie altre. Che altro sono le cene di Arcore il lunedì sera? Come si sta a tavola in quella occasione e per fare che cosa? Non sono già stati tentati i “nuovi barbari” di creare una liturgia parallela? Infatti, che altro è il Parlamento del Nord riunito da Umberto Bossi a Mantova? Battezzare dunque i barbari con le pompe, secondo una celebre metafora lazzatiana applicata ai Longobardi della regina Teodolinda? Fra tante metafore il problema continua politicamente a consistere. Per questo ho parlato di una realtà che rifiuta di essere aperta da una sola chiave inglese.
Siamo a fare i conti con una democrazia interpretata “alla plebea”. Mario Rodriguez ricordava lo slogan di Charlie Brown: “Amo l’umanità. Non sopporto la gente.” La politica italiana sta qui, e nel suo arrovellarsi va man mano introducendo nel proscenio ciò che stava dietro le quinte. Quel che è stato definito “la fine del dietro le quinte”. Nella vita politica italiana l’esaltazione del backstagesignifica la fine del backstage. C’è un’intera generazione di politologi che si è specializzata su questa parte dello spettacolo. E forse però stiamo già descrivendo una decomposizione avanzata ed irreversibile. Le ultime elezioni hanno davvero aperto delle crepe. In queste crepe, come la grande poesia mitteleuropea a chi ha insegnato, s’annida il rischio, ma anche la chance e il vantaggio.
La realtà ci insegna che cattolici e marxisti si sono così combattuti da arrivare a incontrarsi in un punto in cui non c’è più nessuno… Che la grande malattia del sistema politico italiano è di procedere soltanto per cooptazione, non soltanto dentro le forme organizzative tradizionali del politico, ma anche dentro le strutture che organizzano la società civile: perché il sindacato è da tempo diventato una struttura della mediazione sociale. Un sistema che più volte abbiamo avuto modo di riconoscere come bloccato. Dove i partiti storici hanno fatto da tappo e i partiti nuovi non ce la fanno o faticano a crescere. Sul fronte dell’avversario, Berlusconi, ovviamente, non è Olivetti: non crea imprenditori, ma consumatori. Il suo non è americanismo, ma l’edonismo del seduttore sociale, e solo la modalità della discesa in campo nella politica italiana gli ha conferito l’immagine dell’innovatore. A fronte di questo, la mestizia del vecchio ceto politico che si è man mano scoperto inadeguato a creare il partito “nuovo”. Dal momento che il suo primo interesse e di conservarsi in quanto componente e sopravvivere in quanto parte. C’è stata cioè una frattura tra il percorso “naturale” dell’Ulivo e dell’ulivismo e la creazione del Partito
Democratico. In termini generali perché, secondo l’analisi di Salvatore Natoli, in Italia le dinamiche adattative continuano a prevalere su quelle progettuali. Questo fa sì che i politici in campo non abbiano mentalità costituente. E anche per il passato recente si è spesso dovuto assistere piuttosto a una guerra di concorrenza che al tentativo di buttarsi avanti e dentro un nuovo cantiere. Cerco un partito che non si occupi, sul lato del welfare, di un sistema sociale unicamente di protezione, ma che progetti un sistema sociale di incentivi, così come è proposto da Amartya Sen. I drop out non cercano un partito; si considerano semplicemente titolari di servizi sociali… E così a sinistra sono rimasti gli ultimi mattoni utili di un edificio crollato.
Le elezioni del 6 e 7 giugno 2009 contengono più elementi di dinamizzazione di quanto le statistiche e le politologie ci stiano raccontando. La svolta è davanti a noi. Probabilmente inevitabile, forse, come ho detto, a gomito. Nulla è scritto in cielo. Le volontà politiche sono convocate in campo e il campo dei crociati è lo stesso campo di Agramante, così come nelle cose religiose il campo di Dio è il medesimo campo di Satana. Perché non giocare la partita fino in fondo?
[1] Francesco Alberti, Dal Trentino al Sud, la “mappa” della crisi del Pd, in “Corriere della Sera”, sabato 13 giugno 2009, p. 13.
[2] Ibidem, p. 13.
[3] Ibidem, p. 13.
[4] Ibidem, p. 13.
[5] Ibidem, p. 13.
[6] Piero Ostellino, Il messaggio del non voto, in “Corriere della Sera”, sabato 13 giugno 2009, p. 1.
[7] Ibidem, p. 1.
[8] Mi avvalgo degli appunti presi durante una puntuale conversazione di Lorenzo Strik Lievers agli Incontri estivi di riflessione e formazione di Nesso (Como) il pomeriggio di sabato 13 giugno 2009.
[9]Angelo Panebianco, Referendum, antidoto ai troppi partiti, in “Corriere della Sera”, sabato 13 giugno 2009, p. 14.
[10] Ibidem, p. 14.
[11] Ibidem, p. 14.
[12] Ibidem, p. 14.
[13] Ibidem, p. 14.