Di Andrea Rinaldo
Siamo nell’era delle reti telematiche, della connessione permanente, di tutte quelle applicazioni (peraltro in continua evoluzione) per il mondo di Internet basate sul concetto informatico di Web 2.0, il quale consente agli utenti di interagire e di modificare i contenuti, come si dice, online. Si tratta di un cambiamento certamente epocale nel modo di comunicare e di attingere alle informazioni, che sta creando una sorta di ibridazione con i media tradizionali come i giornali, la televisione, il cinema; se non, in prospettiva, un vero e proprio possibile loro superamento. Con riferimento al mese di gennaio dell’anno passato, secondo i dati contenuti nel report Global Digital 2018[1] (un’indagine condotta da We Are Social con la collaborazione della piattaforma Hootsuite), nel nostro Paese il 73% della popolazione risulterebbe connesso per un ammontare di 43 milioni di cyber navigatori, mentre 34 milioni di utenti sarebbero attivi sui social media, con una crescita del 10% nel 2017 rispetto all’anno precedente sia degli utenti di Internet che dei fruitori di social media.
La velocità di comunicazione unita con una certa facilità di utilizzazione del mezzo tecnologico che è progettato per un suo uso intuitivo, consentono l’accesso online per una vasta platea di persone, che normalmente nella “vita reale” avrebbero invece degli spazi più ristretti di interazione. Così mediante l’uso di blog, post, sharing di contenuti multimediali, ecc., chiunque ha la possibilità di esprimere un suo pensiero, una valutazione, di “creare un caso”; di esercitare forme di persuasione o di mobilitazione, di adoperare la retorica dove la parola e spesso anche l’immagine, costruiscono una dimensione emotiva che è in grado di sollecitare gli aspetti psicologici che conducono poi alle decisioni. Mentre i media tradizionali consentono una modesta interazione i nuovi social si alimentano del contributo degli utilizzatori, i quali sono i soggetti che generano la discussione e che cercano la condivisione in rete, a tal punto che secondo l’opinione di alcuni si sarebbe creato un canale diverso in grado di supplire persino alla carenza di socialità connaturata all’epoca moderna.
Di altro avviso è stata l’opinione in merito di una personalità illustre come quella di Umberto Eco, già docente universitario, saggista, semiologo, secondo il quale “…i social media danno diritto di parola a legioni di imbecilli…”[2], ravvisando così una barriera insormontabile in questa contemporanea forma di comunicazione, che equipara il pensiero dell’uomo comune con quello del premio Nobel, con grave danno quindi per la collettività. E’ probabile che a nessuno venga in mente di rimpiangere oggigiorno la TV “pedagogica” del monopolio RAI dei primi anni di attività, che accanto ad indubbi meriti come quello di aver in un certo senso unificato l’Italia proponendo programmi di qualità nello spirito di un autentico servizio pubblico, manifestava i suoi limiti (non tanto in una certa “censura a monte” di alcuni argomenti o magari nelle meno conturbanti calze nere imposte alle avvenenti gemelle Kessler, ma) nel fatto di essere propagata, per così dire, dall’ “alto verso il basso”, assumendo la dominante che la cultura dovesse passare dal tubo catodico a chi stava lì davanti in una sola direzione.
Negli anni a seguire i passi in avanti su questo tema non sono stati così decisivi, e potrebbero fare riferimento all’uso combinato del televisore con il telefono, in una funzione però per lo più di intrattenimento ludico, od anche all’ascesa di programmi definiti come talk show, cioè di quei “salotti mediatici” impostati sulla discussione, dove in teoria potevano sedersi fianco a fianco sia esperti di un certo argomento ed anche persone prese “dalla strada”, sempre però con il forte margine costituito dalla passività attribuita alla maggior parte dei telespettatori.
Una notevole espansività partecipativa è da correlare invece all’epoca di Internet ed affini, che ha reso possibile per una vasta platea di utenti una interazione quasi illimitata nelle sconfinate praterie del virtuale, e che sta condizionando anche i media tradizionali, tanto che questi ultimi per stare al passo con i tempi sono stati indotti ad utilizzare sempre di più i new media. Nel mare magnum dell’ online c’è di tutto: moltissime informazioni utili ed interessanti ma anche molta fuffa e come si dice oggi tante fake news (notizie false), oltre che il problema irrisolto del controllo sulla qualità delle informazioni. Apparentemente ci sarebbe maggiore libertà poiché minori sembrerebbero i conflitti di interesse all’interno di questo mondo mass mediatico, tuttavia la profilatura molto spinta dell’utente effettuata nel cyber spazio indurrebbe a pensare che abbia un valore (economico) soltanto qualsiasi click effettuato a prescindere dai contenuti effettivamente veicolati. A fronte di una possibilità illimitata di azione alla fine l’esperienza nel virtuale mantiene un suo carattere solitario, mentre in quel contesto il gruppo “amicale” con il tempo tende ad essere sostanzialmente quasi sempre lo stesso, e parole come “amico” oppure conversazione o meglio “chat”, assumono in questo ambito un significato profondamente diverso da quello che caratterizza la realtà.
Al di là degli aspetti commerciali che pure esistono e sono propri anche della “rete”, quello che sembra appalesarsi con forza è però una estesa necessità di “relazione” seppure mediata attraverso uno schermo, giacché il sistema economico vigente è stato in grado di plasmare una società regolata sulle modalità di consumo, dove l’individualismo e la solitudine sono le compagne di vita per moltissime persone; dove ci si può sentire peraltro “soli in mezzo alla gente”, dove la qualità delle relazioni quando ci sono non è sempre elevata, mentre l’algido mondo del digitale parrebbe offrire una nuova chance. E allora ragionando per approssimazioni successive si potrebbe affermare che un post è sempre meglio di niente o di un noioso (e passivo) programma visto in TV, che però è sempre peggio di un messaggio vocale, che a sua volta è riduttivo rispetto ad una telefonata, la quale è imparagonabile se confrontata con l’emozione di un caffè bevuto con un amico/a o in compagnia, e così via… C’è comunque un briciolo di “democraticità” in più rispetto al passato in queste “interazioni cifrate”, poiché è concesso a chiunque di poter entrare a far parte quantomeno della community se non di una comunità reale, ovviamente con tutti i rischi del caso. Certo in questa dimensione l’asserzione del medico magari docente universitario che illustra ai cittadini l’utilità dei vaccini, può essere messa in relazione con l’opinione diversa di qualcuno che ha letto in merito soltanto qualche articolo per l’appunto online, tuttavia si dovrebbe avere maggiore fiducia nell’opinione pubblica e nella capacità di critica, da relazionare sia all’innalzamento generalizzato dell’istruzione che alla possibilità di attingere informazioni da più fonti.
Un ulteriore rischio è quello di non riuscire ad evolvere dall’ “interazione virtuale” alla relazione nel mondo reale, cioè che si rimanga imprigionati soltanto all’interno di quell’universo “di plastica ed elettricità”, mentre la relazione ha bisogno di “fisicità”, di contatto tra le persone, di comunicazione sia verbale che non verbale. C’è una bella differenza tra un tutorial ed una relazione dialogica che nasce spontanea ed irripetibile da un incontro de visu.
Inoltre è possibile che il reality, cioè una situazione vera ma per così dire già “precostruita”, sostituisca la realtà, e che lo storytelling sia la modalità di narrazione elettiva dei fatti, secondo però coordinate spesso di carattere emozionale. Le emozioni comunque non andrebbero troppo sottovalutate, anche se una certa critica tenderebbe a svalutare questo tipo di approccio, poiché è ritenuto non sufficientemente razionale ma suscitato più che altro dalla “pancia” e non dal ragionamento: una cosa però sono le emozioni un’altra è il sentimentalismo. La sfera emozionale è una caratteristica fondamentale dell’essere umano e quasi mai si può separare dall’agire come puro frutto asettico della ragione, anzi a volte serve proprio per fissare i ricordi, a conferire più persuasività ai discorsi, a suscitare empatia. In questo senso il raggiungimento di un punto di equilibrio tra emozioni e razionalità sarebbe una cosa necessaria che però è difficile da fissare a priori ed una volta e per sempre.
Per quanto concerne il rapporto che si può stabilire online con la “verità” essa andrebbe intesa come una sua possibile soggettivizzazione e su questo tema si può aprire un campo molto vasto di dibattito. Infatti si potrebbe affermare che la cosiddetta “postverità” non ha senso, esiste invece la negoziazione tra interpretazioni differenti di uno stesso fatto, giacché le stesse sono in teoria fallibili, e ciò che possiamo considerare come una presunta “verità” e quindi in sequenza come una “postverità”, è comprensibile soltanto all’interno di questo processo di mediazione. Il tema dell’autenticità dell’informazione è invece vecchio come il mondo: forse attingendo da più sorgenti credibili ci si potrebbe fare una opinione sufficientemente attendibile sugli eventi, un bel rebus visto che neanche l’informazione tradizionale in Italia gode di elevata stima. Nessun bavaglio però andrebbe messo al web né con la scusa di contenere gli haters (odiatori), né per arginare i propalatori seriali di fake, meglio sarebbe magari imporsi una buona forma di “detox”, cioè una sconnessione volontaria per un certo periodo di tempo in modo da ridurre la compulsività generata dall’uso prolungato dei network sociali.
[1]
Fonte: https://wearesocial.com/it/blog/2018/01/global-digital-report-2018
[2]
Fonte: https://www.lastampa.it/2015/06/10/cultura/eco-con-i-parola-a-legioni-di-imbecilli-XJrvezBN4XOoyo0h98EfiJ/pagina.html