Un tornante difficile

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Giovanni BianchiL’ appartenenza ad un partito politico comporta tutta una serie di vincoli non sempre piacevoli da osservare, ma indispensabili come termini di appartenenza ad una comunità legata insieme da un progetto condiviso, anche se non sempre concorde nel trovare i modi più efficaci per raggiungere i fini comuni.

A maggior ragione ciò nel contesto di un partito che discute e si conta e nella conta definisce per via democratica le maggioranze e le minoranze interne con quel che ne consegue sotto il profilo politico ed organizzativo.

L’ esatto contrario, ad esempio, di quelle forme di partito patrimoniali o militari a cui ci ha abituato la destra italiana, e ci ha abituato così tanto da rendere la stessa opinione pubblica, anche quella non berlusconiana, incapace di distinguere fra dialettica e litigio, scambiando la patologia delle festose conventions aziendali in cui tutti acclamano il capo sia pure in forme diverse (deve essere questa la famosa “libertà” cui tanto ci si appella dalle parti del Cavaliere: la libertà di variare nelle forme dell’adulazione e del meretricio ) con la fisiologia di una discussione interna fra soggetti che pure si rifanno alla stessa matrice.

Questo a meno che non si voglia considerare come normale la situazione che si va creando per cui, stando in un partito, l’alternativa è fra l’essere maggioranza, sottomettersi o uscire dal partito: con ciò scartando la strada che fino a vent’anni fa era la più ovvia, quella di una minoranza che accetta di essere tale, che si attrezza per diventare maggioranza e che nel frattempo accetta di collaborare con la maggioranza attuale in vista del bene complessivo del partito in base ad accordi precisi che non sacrifichino l’essenziale delle sue posizioni politiche.

Per questo la vicenda del “documento dei 75” presentato da Veltroni, Fioroni e Gentiloni con grande scandalo generalizzato dentro e fuori il partito è esemplare della difficoltà del momento. In effetti quel documento, preso per quello che c’è scritto dentro, non sembra avere alcunché di dirompente , e comunque assai meno di quello, circolato qualche giorno prima, a firma di alcuni importanti esponenti della Segreteria nazionale del PD, in cui in pratica si rinnegavano gli antefatti ed i presupposti dell’esistenza stessa del partito rovesciando in aggiunta un bel po’ d’insulti sulla testa del suo primo Segretario.

In realtà i problemi con il documento dei 75 sarebbero altri, primo fra tutti l’evidente valenza tattica dell’accordo fra persone dal profilo e dagli obiettivi tanto distinti quali Veltroni e Fioroni, che in questa fase rende ancora più incerto il senso della discussione interna al partito mentre il sistema di potere berlusconiano appare sull’orlo del baratro senza che nessuno abbia la forza di dargli la spinta finale e , soprattutto, di candidarsi autorevolmente a sostituirlo.

E questo rimanda al problema dell’agibilità politica interna al PD , che non significa solo il diritto di parlare, ma anche quello di essere ascoltati e di ricevere risposte sul merito dei problemi, senza dare l’impressione che il dibattito nei luoghi propri (o che dovrebbero essere tali, Statuto alla mano) sia una sorta di pedaggio formalistico da pagare per salvare le apparenze.

E’ una rappresentazione esasperata? Certamente, ma indica una tendenza, che va ben oltre gli ovvi diritti della maggioranza, e che diventa allarmante quando i riscontri di scelte politiche sbagliate si riverberano su tutto il Partito, il quale ad oggi si trova  in una situazione politica ed organizzativa di estrema debolezza da cui può uscire solo mobilitando tutte le energie disponibili. Magari cercando di recuperare un appealsull’esterno che l’orgia di politicismo incentrato sulla logica delle alleanze che ha segnato quest’anno ha gravemente compromesso, quasi facendo smarrire l’intuizione originale che ha dato vita al PD e a cui si deve ancora dare carne e sangue.

La capacità di vita e di futuro di qualsiasi organismo vivente – ed un partito politico è un organismo vivente in quanto incarna una pluralità di storie e di aspirazioni soggettive cercando di incanalarle in un progetto comune- dipende dalla sua possibilità di respirare a pieni polmoni, senza indebite riduzioni unilaterali. L’unità del Partito è certo un bene, ma è un bene che si paga non solo  e non tanto in termini organizzativi quanto soprattutto in termini politici, favorendo il dibattito ed il confronto a tutti i livelli.

Se no, con o senza Berlusconi, prevarrà all’infinito la logica privatistica che ormai si applica impunemente alle istituzioni pubbliche più tradizionali sul tipo della scuola, come dimostra la disgustosa vicenda di Adro: con il che dallo Stato nazionale si regredirà direttamente al feudalesimo. A beneficio, come sempre, dei più forti e, come sempre, a scapito dei più deboli.

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