No, il governo Monti non è il governo di Todi, ossia il governo ideale di quei soggetti dell’associazionismo cattolico che alla fine dell’ottobre scorso si sono trovati nella cittadina umbra per fare il punto della situazione esprimendo le loro preoccupazioni . Il declino economico, la crisi endemica, la disoccupazione strutturale, il disagio delle giovani generazioni, l’aumento delle diseguaglianze sociali: tutto ciò che preoccupa il popolo italiano preoccupa anche le organizzazioni del cattolicesimo sociale, che di tale popolo sono parte integrante ed anzi sono forse ad oggi fra le forze popolari più immerse nelle dinamiche reali di questo Paese. Ma tale convergenza di analisi e di proposte articola diversi modelli di risposta politica, come è giusto che sia.
Perché in definitiva ha ragione Agostino Giovagnoli quando afferma che il dato che emerge chiaramente dalla giornata di Todi è il riconosciuto pluralismo delle scelte politiche dei credenti e l’irripetibilità della stagione democristiana; a dir la verità ne era emerso anche un altro, cioè l’insofferenza per la lunghissima agonia del potere berlusconiano e per i miasmi orrendi che essa emanava, come di putrefazione anticipata.
Qui si apre lo spazio ad alcune considerazioni, la prima delle quali è che potrebbe essere fin troppo facile pensare che il disarcionamento del Cavaliere chiuda in assoluto la fase di corruzione morale e di infiacchimento della fibra del Paese che tanto bene il card. Bagnasco descrisse nella sua prolusione alla CEI qualche settimana fa. No, il berlusconismo, come il fascismo, è l’espressione di una malattia endemica che appare e scompare in modo carsico nella vicenda storica del nostro Paese, e dalla quale ci si libera con una politica che sappia parlare il linguaggio della sobrietà e della verità: in questo senso a tutti è richiesto un serio esame di coscienza, magari ispirandosi -se la cosa non suona troppo “leggera”- all’ ultimo Gaber: “Non temo Berlusconi in sé, temo Berlusconi in me”.
In questo senso, i credenti più impegnati, e la comunità ecclesiale nel suo insieme, dovrebbero aprire una riflessione seria sulla qualità del loro impegno storico, e soprattutto sulla loro capacità di resistere alla tentazione di strutturare la loro azione secondo criteri mondani e logica dell’apparenza. Ovvio che ciò riguardi l’intera società civile, ma chi professa una dottrina sociale rigorosa ed austera come quella insegnata dalla Chiesa cattolica dovrebbe impegnarsi maggiormente nel riconoscere tali tentazioni in sé – e nello sconfiggerle.
La seconda considerazione riguarda quello che verrà, ovvero il soggetto che dovrebbe articolarsi a partire da questi incontri fra realtà laicali (magari, la prossima volta, non necessariamente introdotte da un cardinale, da un vescovo o da un prete) : poiché le forze riunite a Todi, pur ragguardevoli, non esauriscono certo in sé la rappresentanza di tutti i credenti, il soggetto che nascerà, anche se si trattasse (per quanto improbabile) di un partito politico non potrà reclamare per sé la rappresentanza di tutti i cattolici. E questo, sia chiaro, non solo nelle enunciazioni pubbliche, ma anche nella prassi, perchè, come ha scritto il filosofo cattolico Franco Totaro , il rischio sempre in agguato è quello del “guelfismo”, per cui chi sceglie di non seguire l’opzione “consigliata” si ritrova in una posizione “di serie B” rispetto a tutti gli altri.
La terza considerazione concerne invece l’architrave della riflessione introduttiva del card. Bagnasco, che è data dai cosiddetti “principi non negoziabili”. Un’interpretazione interessante è nella lettera pubblicata da ”Avvenire” il 16 ottobre a firma di quattro intellettuali di sinistra di diversa estrazione (l’ingraiano Pietro Barcellona, il patriarca dell’operaismo Mario Tronti, il togliattian-dalemiano Beppe Vacca e l’ex lottacontinuista Paolo Sorbi), i quali, ponendosi l’esplicito intento di favorire il rapporto fra il PD ed il mondo cattolico, invitano a prendere atto della centralità della “questione antropologica” evocata da Benedetto XVI e a declinare nella laicità del discorso politico le problematiche, anche complesse e spinose, che tale questione implica. In particolare essi additano due problematiche specifiche: quella del “relativismo etico”, a proposito della quale invitano a distinguere fra pluralismo culturale e “visioni nichilistiche della modernità”, che essi riconducono soprattutto al processo di mercificazione dei rapporti sociali tipico di questa fase della società secolarizzata (e quindi appartenente più al campo della destra che della sinistra). La seconda è appunto quella dei “principi non negoziabili”, nella quale gli autori della lettera vedono soprattutto un forte richiamo alla coerenza, appunto, dei principi, che tuttavia di per sé non esclude la possibilità di una mediazione politica che non sia al ribasso.
Il punto sta proprio qui: è possibile che il destino dei “principi non negoziabili” del 2011 sia quello del “Non expedit” del 1861, del “Sillabo” del 1864 e dei “Punti fermi” del 1960, cioè la loro storicizzazione e relativizzazione come elementi di un passaggio storico contingente che la Chiesa vive in modo difensivo. Ma perché questo accadesse fu necessaria allora la capacità di alcuni credenti di farsi soggetto di mediazione politica, anche fra molte incomprensioni : le vicende politiche di Murri, di Sturzo, di De Gasperi, di Dossetti e di Moro (pur con tutte le differenze fra questi personaggi) sono lì a dimostrarlo. Insomma ci volle la politica, una politica intesa non come ancella della teologia o dell’economia ma come funzione specifica che rende possibile la convivenza democratica attraverso la ricerca del bene possibile.
Forse per questo, volendo ricercare un testo di riferimento, sarebbe bene rileggere quello che don Lorenzo Milani scriveva nelle sue Esperienze pastorali (era il 1957) a proposito della presenza dei cattolici in politica, formulando tre proposte: la prima era quella del ritiro dal mondo, la seconda era quella dell’impegno totale per la realizzazione del “programma massimo” della dottrina della Chiesa. La terza, quella cui il prete fiorentino inclinava, era quella di una netta distinzione fra un insegnamento dottrinario che non fa sconti a nessuno ed una prassi in cui persone di buona volontà cercano di costruire la città dell’uomo impegnando soltanto se stessi – e non qualche autorità superiore- ed accettando di pagare di persona. Ecco, questo appello alla responsabilità della persona – e della sua coscienza- sarebbe forse il vero messaggio forte per l’oggi e per il domani dei credenti nella società e nella politica.