Massimo Ilardi, già docente di Sociologia Urbana presso la Facoltà di Architettura dell’Università di Camerino, ci introduce nel tema cruciale del suo testo, e cioè la “potenza sociale del consumo” che è sempre fine a se stesso quale atto conseguente ad un desiderio drammaticamente distruttivo, dentro a cui esplode il conflitto che ridefinisce la libertà dell’individuo. In questa maniera vengono esauriti non soltanto gli oggetti, le cose, ma anche le affettività, i valori, gli eventi, gli interessi generali, le forme di rappresentanza, le istituzioni. (Dall’introduzione di Andrea Rinaldo a massimo Ilardi)
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Premessa di Luca Caputo 07′ 25″
Introduzione di Andrea Rinaldo a Massimo Ilardi 22′ 35″
Relazione di Massimo Ilardi 45′ 32″
Domande del pubblico 15′ 29″
Risposte di Massimo Ilardi 09′ 54″
Domande del pubblico 19′ 46″
Risposte di Massimo Ilardi 13′ 16″
Domanda, risposta e chiusura 10′ 30″
Verso la libertà radicale del consumo. Introduzione di Andrea Rinaldo al testo “Potere del consumo e rivolte sociali” di Massimo Ilardi.
Uno. Il consumo come “stato di necessità”
“E’ con la semplicità, la brutalità e la rapidità dello stato di necessità che la cultura del consumo ha combattuto e vinto la sua guerra. E l’unica regola di questa cultura è che non ha regole, né prescrizioni morali, né valori da imporre. Pensare che le minoranze sociali che lottano contro il lavoro e contro i rapporti di produzione possano generare dei modi di agire diversi da quelli delle stesse minoranze sociali che consumano è come pensare che ci possa essere ancora una natura non contaminata dalla città o un centro storico non ridotto dal mercato a parco a tema…”[1]. Da questo punto di vista decisamente assertivo Massimo Ilardi, già docente di Sociologia Urbana presso la Facoltà di Architettura dell’Università di Camerino, ci introduce nel tema cruciale del suo testo, e cioè la “potenza sociale del consumo” che è sempre fine a se stesso quale atto conseguente ad un desiderio drammaticamente distruttivo, dentro a cui esplode il conflitto che ridefinisce la libertà dell’individuo. In questa maniera vengono esauriti non soltanto gli oggetti, le cose, ma anche le affettività, i valori, gli eventi, gli interessi generali, le forme di rappresentanza, le istituzioni. A fronte di un’analisi consolidata storicamente, che riconduce il consumo ad un raffinato strumento del mercato al fine di eterodirigere l’individuo, Ilardi propone il “consumo come stato di necessità, in pratica come l’unica forma di connessione con la realtà. In questa prospettiva il consumo non ammette regole provenienti dall’esterno e si afferma in modo oppositivo alla dimensione sociale e al mercato. La soggettività si esplica quindi nell’agire consumistico e nella ricerca della libertà necessaria a questo scopo, che però è distruttiva dell’idea di società conformata sulle regole del mercato, anche se non vi è in nuce una contestazione del paradigma economico sul quale essa è impostata. Se si analizzano invece le esperienze del movimento no global le stesse rappresentano una parentesi nella storia dei conflitti sociali, poiché in parte lo stesso è stato poi riassorbito nelle modalità di partecipazione istituzionali ed anche per il fatto che la galassia dei gruppi spontanei giovanili contemporanei non si aggrega più intorno a discriminanti di tipo politico. Così il conflitto, per il lavoro, la casa, le esigenze primarie ha lasciato il passo alla “rivolta”, alimentata dal desiderio di consumare tutto il consumabile. La lotta non è più tra la classe operaia e il capitale ma contro a ciò che impedisce l’appropriazione del “Bengodi” che il territorio è in grado di offrire, e se questo desiderio non viene esaudito aumenta esponenzialmente il livello di frustrazione e l’odio individuale che il modello di società che “non ammette sconfitte” innesca. Si assiste ad una mutazione antropologica, per dirla con il lessico Pasoliniano, che transita dal vetusto nesso lavoro-politica-istituzioni-futuro a quello tra consumo-territorio-libertà-presente, con la conseguenza di una frantumazione della società ed una nuova centralità del territorio e dei problemi urbani.
Due. Il territorio urbano cioè il luogo del conflitto
Il territorio “del moderno” era plasmato sulle forme del politico, regolato dalla legge e dai confini statuali, il mercato frutto del “pensiero unico” inteso come “democrazia degli interessi” lo stava ridisegnando invece come uno spazio anonimo senza limes, mentre è il consumo della fase attuale a generare le relazioni sociali e quindi è anche l’azione che costruisce il “nuovo territorio metropolitano”. E’ sempre su quest’ultimo ed in ragione del consumo che si scatenano i conflitti, come è stato dimostrato dai relativamente recenti casi di Londra, Parigi, Berlino ma anche di Genova o Roma. In questo senso le categorie fondative della modernità (nazione, paese, partito, famiglia, ecc.) perdono molto di significato. Ci si deve muovere ora proprio dentro gli elementi di conflittualità che queste zone urbane producono, per trovare una mediazione tra i desideri degli abitanti; in pratica è richiesta la necessità che torni in campo la politica e che la stessa sia in grado di fare magari proprio del conflitto il motore della ripresa. A fronte diciamo così di un “sol dell’avvenire” che rimandava ad un futuro imprecisato il raggiungimento delle aspettative si afferma al contrario quell’ “utopia realizzata” tipica del modello del “sogno americano”: in buona sostanza si è passati dal fondamento centrato sull’uguaglianza a quello poggiante sulla libertà. Resta comunque un contesto generale di nichilismo dei valori universali, dove nuove forme di “comunità blindate” si stanno affermando: cioè quartieri resi sempre più inaccessibili, sorvegliati, protetti, che definiscono al loro interno i codici di comportamento degli abitanti, i quali si contrappongono in un territorio striato ad ambiti suburbani oltre che a veri e propri ghetti, e a “…processi continui di desocializzazione, anomia, mancata produzione di soggettività, il consumo come modo di essere, il territorio come pratica estrema di libertà: questa è la periferia…”[2], secondo la visione dell’autore. Il territorio quindi come luogo che racchiude le divisività di ordine culturale e le diverse mentalità che appartengono a gruppi, clan, minoranze sociali di massa; come spazio che scaturisce dall’opposizione tra il mercato e la sua società, dal cuneo che si insinua tra il mercato e il consumo. Una nuova politica non può che ripartire dalla constatazione che non sono più i luoghi del lavoro al centro del conflitto, non più le rivendicazioni sul tempo comandato e sulle retribuzioni del dipendente subordinato, ma diversamente la liberazione del desiderio porta con sé una concentrazione sul presente, sulla soddisfazione qui ed ora che diventa valore d’uso, con il corollario che si porta inevitabilmente dietro di conflittualità, individualismo, intolleranza.
Tre. Riavvolgendo il filo dell’analisi intorno al consumo
Cosa spinge il consumatore a… consumare? E’ l’intensità del desiderio che lo spinge e poco importa quale sia l’oggetto agognato, in fondo alla fine non si può che consumare e consumare di tutto, a maggior ragione se il desiderio si trasforma in “stato di necessità permanente”, cioè in azione non perfettamente controllata dalla volontà. Fuori dal campo di forze del consumo non c’è nulla e la libertà consiste nella pratica “gioiosa” dell’esercizio consumistico; questa libertà poi si pone come la possibilità di agire (o non agire) dentro ad uno stato di necessità. L’eresia del professor Ilardi – nel momento storico in cui le ideologie sembrano oramai essere decedute – consiste nella constatazione della propagazione di nuovi spazi di libertà “eccedente” nella società dei consumi, soprattutto a favore di certe frange giovanili, le quali possono attraversare i territori della metropoli accecati dal loro “furore desiderante”. Anche se non è più il lavoro o la politica a conferire identità all’individuo, mentre lo sono invece certe modalità di consumo che seppure in modo debole, provvisorio, labile, costruiscono appartenenze non prive peraltro di un loro contenuto politico. La metropoli, cioè il luogo della “trasformazione della realtà in immagine”, e il mercato hanno bisogno di pace sociale per dispiegare all’interno del mondo finto, riprodotto a poco prezzo, degli outlet e dei centri commerciali, la messa in scena dell’agire consumistico. Lo spazio mondo estetizzato consente al consumatore neoromantico la sua accettazione, intorno ad un giocondo susseguirsi di et-et e non di aut-aut, come in un universo onirico dove chiunque specie se posizionato in basso nella scala sociale può viverne l’illusione. Sta proprio nella incontrollabilità dell’individuo consumatore che attraversa la metropoli il contenuto “eversivo” della nuova fase, nell’impossibilità per costui di riconoscersi in una comunità o di conquistare uno spazio pubblico. Il borghese individualista accettava la società e ci viveva dentro perché era una costruzione delle relazioni di mercato che egli condivideva, mentre l’individuo immerso nel consumo totale la combatte e se ne separa, giacché privo di identità collettive ed indifferente ad ogni vincolo etico e meno che meno di tipo egualitario. E’ il “conflitto” la sua cifra distintiva – e il docente di origini romane qui con noi stamattina – cita a supporto di questa tesi un’asserzione di Mauro Magatti, “… contrariamente all’immagine falsamente irenica di un mondo estetizzato e privato del conflitto, giorno per giorno ci rendiamo sempre più conto di vivere in una realtà dove si moltiplicano le forme (spesso inedite e talora violente) di conflittualità sociale…”[1]. L’individuo però può trasformarsi in soggetto attraverso la pratica mutevole, poco sociale e finalistica del conflitto per l’accesso al consumo, che è in grado di destabilizzare l’ordine prestabilito da una società pienamente in mano al mercato. E’ in questo esercizio di libertà, o meglio nel conflitto tra democrazia e libertà per dirla con le parole di Mario Tronti, che l’individuo trova la sua possibilità di movimento; l’elettore-consumatore poi mal sopporta i tempi dilatati della democrazia politica rappresentativa, la sua gratificazione deve essere immediata, mentre alla “dittatura della maggioranza” egli contrappone l’interesse esclusivamente individuale. Anche l’industria viene a modificarsi dal fatto che è il consumo come stato di necessità ad orientarne la produzione attraverso le sue connotazioni soprattutto emozionali, mentre l’oggetto-merce e la sua capacità di seduzione passa per così dire in secondo piano. Se per il mercato un modello generico di organizzazione della società è quello mutuato dall’ impresa, e l’emergere di una “coscienza eccedente” cioè non esclusivamente finalizzata alle necessità della produzione ne rappresenta una valvola di sfogo, così nel consumo è lo scarto tra il desiderio illimitato e la sua possibilità reale di soddisfazione l’humus dove cresce rigoglioso il conflitto. E’ però per questa “libertà negativa“ del consumatore-totale che potrebbe passare una eventuale ripresa dell’agire politico. Infine un cenno al progetto di architettura che in un sistema di mercato non può che assumerne i suoi desiderata, che corrispondono a quelli di una città estetizzata avulsa dalla storia, dal suo genius loci; tuttavia l’intervento urbano non può che avere consapevolezza del territorio e quindi dei conflitti che su di esso si svolgono, se vuole ancora trasformare veramente la città. La manipolazione ideologica, il controllo sociale e di integrazione nel sistema dominante sono assicurate dal consumismo, il quale produce parallelamente l’occultamento della disuguaglianza e delle fonti di conflitto sociale, con l’eccezione però delle pulsioni incontenibili del consumatore-totale odierno, che (quasi) contro la sua volontà esce da questo schema: il progetto urbano può inserirsi come controparte politica del mercato in questa dicotomia.
Quattro. La mission impossible
Massimo Ilardi pone il focus sul consumo, anzi lo mette in antitesi al concetto di mercato, giacché sono precipuamente questi i temi trattati nel suo testo: consumo, mercato, conflitto, libertà, politica, individualismo, soggettività, con una angolatura obliqua utilizzata per scardinare le vecchie tradizioni di pensiero. L’analisi del professore muove da un postulato fondamentale e cioè che il sistema economico sia quello di mercato e che non esista una possibilità esterna a questo paradigma; tuttavia i sistemi organizzativi così come tutte le questioni umane hanno normalmente un inizio, uno sviluppo ed anche un termine o quanto meno una loro evoluzione. In buona sostanza ci si deve rassegnare che il “pensiero unico” sia proprio l’unico? Si può ipotizzare un sistema economico diverso dal capitalismo senza per forza ripiombare all’interno di sistemi o cripto-comunisti o neo-capitalisti? Però non vi sono dubbi circa il fatto che il processo di “cosificazione” determinato dall’economia di mercato ha creato un “uomo nuovo”, finalmente liberato dal laccio della sua umanità, costantemente dedito al consumo ma anche a vendere se stesso e le sue qualità esteriori. “Tutto ciò che è solido si dissolve nell’aria” ed anche questo nuovo oppio del popolo costituito dalla civiltà dei consumi totali finirà (forse) per “consumare” proprio la società che lo ha generato, giacché alimenta i conflitti, anzi è immanente ai conflitti stessi. L’edonismo laico consumista però è “terapeutico” in una società della precarietà, per la sua propensione a creare comunque un godimento anche se come ultima frontiera dell’affermazione individuale. E quindi non si sa a quale esito ultimo potranno portare le ricorsive “rivolte” dei consumatori-totali, prontamente sedate dall’accesso (in qualsiasi modo esso avvenga) alle merci. Le quali peraltro non si trasformano mai in vere e proprie rivoluzioni, poiché avvengono esclusivamente nel loop consumo-produzione-consumo, determinando tutt’al più un riorientamento delle logiche di mercato ma non il loro scardinamento. La libertà eccedente del consumo appare così come una forma contratta e molto conflittuale di quella più espansiva intesa come la possibilità di scelta consapevole all’interno di un patto sociale condiviso, che nel caso italiano troverebbe nonostante tutto un sostegno robusto dentro ai valori costituzionali ed in quelli che hanno alimentato il periodo della Resistenza. L’imposizione di uno stile di vita unico, oltre che ad estrarre profitto da qualsiasi pulsione umana, è funzionale ad una forma capillare di controllo degli individui, che è resa ancora più efficace se gli stessi sono addomesticati ai valori universali consumistici oltre che dalle nuove tecnologie. Così nell’illusione di essere liberi in realtà si è parte di un assoggettamento esercitato dai pochi beneficiati dal sistema nei confronti dei tanti che di esso sono sostanzialmente succubi; ed è in fondo molto stabile questo paradigma giacché non necessita di forze poliziesche smisurate per mantenerlo in vita, in quanto il collante più efficace è costituito ab origine dalla condivisione generalizzata. Occorre però avere ben presente lo spirito dei tempi e le sue contraddizioni per poter auspicare di costruire una geometria diversa per la società del futuro. Ai conflitti urbani si potrebbe forse aggiungere che i “limiti di questo sviluppo” impongono che soltanto una parte degli abitanti del pianeta possa mantenere questo tenore di vita, il quale necessariamente deve poggiare sulle spalle degli esclusi dalla belle époque metropolitana, anche se nuove consapevolezze come quella ecologica ed ambientale, hanno portato all’ascesa di economie circolari e maggiormente collaborative. Comunque un buon saggio potrebbe essere quello che è capace di dare una efficace interpretazione dei fatti ed anche di offrire alcune proposte con riferimento ad una certa materia, ma forse lo è ancor di più se è generativo di altrettante cocenti domande, e “Potere del consumo e rivolte sociali” lo ha fatto, almeno per quanto riguarda il rimuginare del sottoscritto.
Pertanto un sentito grazie quindi al professor Massimo Ilardi.
[1] M. Ilardi, Potere del consumo e rivolte sociali – DeriveApprodi, Roma, 2017, p. 21.
[2] M. Ilardi, Potere del consumo e rivolte sociali – DeriveApprodi, Roma, 2017, p. 48.
[3] M. Ilardi, Potere del consumo e rivolte sociali – DeriveApprodi, Roma, 2017, p. 48 (Giaccardi C., Magatti M., L’io globale. Dinamiche della società contemporanea, Laterza, Roma-Bari, 2003, p. 134)