Sabato 2 maggio 2020, lezione on-line.
La situazione, del tutto inedita, che stiamo attraversando, mette tutti noi davanti a nuove difficoltà, alla necessità di pensare a nuovi modi di fare quel che facciamo, a nuove forme da dare alle nostre attività.
Noi del Circolo, in particolare, siamo stati costretti a rinviare sine die già due lezioni del nostro Corso 2019-20; dopo un confronto tra di noi, abbiamo scelto di concluderlo ugualmente secondo le possibilità che ci sono date, e di non rinviare dunque al prossimo anno le lezioni mancanti.
Nelle scorse settimane abbiamo sondato l’offerta di programmi per videoconferenze e videolezioni, effettuato dei test e svolto delle prove, via via più ampie, allo scopo di individuare lo strumento più utile al nostro scopo.
Ci è sembrato dunque opportuno riprendere il Corso con la lezione tenuta da Mauro Ferraresi a partire dal suo libro Le nuove leve del consumo. Consumosfera e valore nel capitalismo digitale.
Leggi l’introduzione di Andrea Rinaldo a Mauro Ferraresi
Clicca sui file audio sottostanti per ascoltare le registrazioni della lezione
(se vuoi scaricare i file sul tuo computer trovi i link in fondo alla pagina)
Premessa di Luca Caputo 06′ 00″
Introduzione di Andrea Rinaldo 11′ 25″
Relazione di Mauro Ferraresi 56′ 21″
Domanda con risposta di Mauro Ferraresi 14′ 11″
Domanda con risposta di Mauro Ferraresi 07′ 43″
Domanda con risposta di Mauro Ferraresi 08′ 58″
Domanda con risposta di Mauro Ferraresi 11′ 06″
Domanda con risposta di Mauro Ferraresi 09′ 49″
Domanda con risposta di Mauro Ferraresi 10′ 32″
Domanda con risposta di Mauro Ferraresi e chiusura dell’incontro 18′ 49″
Avviluppati nella “consumosfera” nella temperie del capitalismo digitale
Introduzione al testo “Le nuove leve del consumo”[1] di Mauro Ferraresi, a cura di Andrea Rinaldo.
Uno. Una nuova ipotesi di universo la “consumosfera”
Il passaggio da una cultura orientata verso i luoghi della produzione a quella del consumo, con i suoi centri commerciali ma anche con le vaste praterie di Internet ed affini, definisce il nuovo orizzonte delle pulsioni umane all’interno della “consumosfera” (Hine); così quest’ultima contiene i significati che si generano attraverso i diversi atti di consumo.
Il passaggio è dal capitalismo moderno a quello “postmoderno”, mediante la valorizzazione del “capitale cognitivo” e non più dei luoghi della manifattura; quindi la caratteristica saliente della fase è la predazione del “general intellect”, ossia della forza culturale complessiva della società, cosa che è peraltro facilitata attraverso la comunicazione utilizzando i new media.
Tuttavia se la felicità in termini, diciamo così, “matematici” potrebbe essere funzione del quoziente tra i consumi ed i desideri, azzerando questi ultimi essa “tenderebbe all’ infinito”… In realtà oltre alle merci si consumano le relazioni, i sentimenti, le interazioni umane, le identità delle persone, giacché vi è un mutamento complessivo dello stile di vita, in quanto cambia la modalità mediante la quale quest’ ultima si realizza.
Il significato di una iniziativa di consumo va ricercato contemporaneamente nella costruzione dell’immagine e dell’identità del soggetto agente, e nella catena di ulteriori di consumi che l’azione primaria induce. E’ comunque un “atto totalizzante”, nel senso che non sembra possa esistere una realtà posta al di fuori di questo mondo: infatti anche la volontà non consumistica si traduce in una modalità di acquisto magari più condivisibile, che discende ad esempio dal concetto più generale di “sostenibilità”.
Così nella consumosfera la voglia di novità è incessante, ed è lo specchio di una società “liquida” (Bauman), dove qualsiasi cosa diventa obsoleta rapidamente. Inoltre in essa si produce e si negozia il “senso”, giacché lì dentro si apprendono le relazioni sociali e si acquisiscono le modalità espressive della società postmoderna. All’interno della consumosfera si dipano tre spazialità differenti: quella fisica, sempre più semiotizzata e consumata dall’ uso delle sue stesse immagini; quella intima interna ad ogni persona, il luogo delle sue emozioni; quella virtuale, prodotta dalla digitalizzazione sempre più spinta.
Se le “merci servono per pensare”, nella consumosfera ogni nuovo “testo” di consumo immesso è già dotato di una sua verità fattuale, mentre tutto ciò che non è ancora consumo ben presto lo diventerà; essa agisce per “fago-citazione” incamerando e piegando ai propri fini tutto ciò che vi transita. L’eco-sostenibilità della fase odierna – in parte alimentata dalla crisi economica di questi ultimi anni – reinterpreta così gli stili di vita più sobri del passato, anche se in una modalità che attinge comunque all’attualità, mentre sussiste un legame molto stretto tra i processi di omologazione e quelli di differenziazione.
L’ “olotipia” continua ed incessante ingloba il passato ed il futuro, costruendo un presente infinito ed “ubiquitario”; essa sussiste quando i tre spazi della consumosfera si congiungono. Questa dinamica avviene – ad esempio – con riferimento ad un concerto musicale, quando lo stesso è in contemporanea ripreso e riprodotto da centinaia di smartphone, così per una piazza reale – come quella dedicata all’architetto Gae Aulenti nel Centro Direzionale di Porta Nuova a Milano – la quale è contemporaneamente sia moderna che legata al passato della città meneghina. Nella consumosfera “...il racconto di una città contribuisce a costruirla al pari dei suoi costruttori e dei suoi architetti...”[2], mentre lo spazio diventa “incantato”: lo spettacolo coinvolge così sia le merci che la società dei consumi.
Due. Spazi e luoghi del consumo, la comunicazione ed il suo valore
Secondo la visione di Foucault lo spazio è indicativo anche dei meccanismi del potere, attualizzando questa visione, si potrebbe affermare che lo stesso può raccontare quindi intorno alle dinamiche del consumo. La città – afferma il docente universitario di origini mantovane qui con noi stamattina – è ricompresa nella consumosfera quale modalità di dilatazione urbana del consumo, coinvolgente gli ambiti di aggregazione e di passaggio; inoltre essa è per così dire “uno spazio dell’anima”, cioè è un luogo della soddisfazione (o meno) delle nostre vite.
Ma è anche un’ambito “modalizzato”, dove cioè si possono fare certe cose o dove si è invogliati a farne altre: tutti fenomeni che hanno una natura sociale sono in definitiva forme di consumo equiparate a dei “testi”. Il testo produce delle trasformazioni perché induce al cambiamento anche comportamentale in chi lo legge e/o lo consuma.
La lettura dello spazio di una città quindi, tocca la dimensione urbana, quella sociale e politica, e una tale visione non è mai neutra ma altamente ricca di valori, poiché lo spazio ha molto a che vedere con l’identità e la dignità delle persone. Lo spazio poi è sia oggettivo che soggettivo, quello del consumo produce peraltro elementi passionali, mentre nella postmodernità il paesaggio si pone quasi sull’orlo del linguaggio, e quest’ultimo perde di valore se lo standard di riferimento è quello culturale della città. Nell’urbe emblema della cultura del consumo sono le vetrine.
Le vetrine non sono soltanto il luogo dell’esposizione della merce, ma quello della loro spettacolarizzazione; la “vetrinizzazione” poi, intesa in senso lato come esibizione del proprio ego, è un tratto caratteristico della nostra epoca, dove il privato diventa pubblico e viceversa. Le vetrine “chiuse” concentrano l’attenzione sui prodotti, quelle “aperte” veicolano il concetto di negozio come spazio valorizzato. Il prodotto si trasforma in “marca” quando gli elementi impalpabili collegati, come l’atmosfera, lo stato d’animo o l’emozione, vengono da esso suscitati, è quindi sempre un sentimento che spinge verso il retail, o semplicemente ad entrare in certo negozio o in un centro commerciale.
Attualmente il valore di un prodotto non è in prevalenza funzione del tempo necessario per realizzarlo, ma è corrispondente alla quantità di “medializzazione” della marca, è per questo motivo che si può parlare di centralità del Valore Di Comunicazione (VDC), giacché il VDC dentro alla consumosfera è il principale creatore di valore.
Il simbolismo della merce prende il sopravvento sulla fisicità della stessa, tanto che si potrebbe dire, con riferimento ad una nota marca di abbigliamento sportivo, che il “coccodrillo si è mangiato la maglietta”. Così l’acquisto prevalente di “marche” manda per così dire in soffitta i precedenti concetti marxiani di valore d’uso (VDU) e valore di scambio (VDS), poiché l’acquisto di una quantità sempre crescente di oggetti non pare più essere legato al bisogno bensì al desiderio, e financo alla sua variante più puntuale della “voglia” momentanea.
Nel sistema capitalista gli oggetti sono prodotti in enorme quantità grazie all’ “alienazione” (Marx), cioè al trasferimento di parte della “vita” dell’operaio dentro alla merce; l’investimento simbolico nelle merci riflette poi le differenze di classe, ma su questo punto Ferraresi si discosta un poco dall’analisi del filosofo tedesco, evidenziando il fatto che nella consumosfera odierna, non sembrano più esserci particolari differenze di classe nell’attrazione “libidica” e generalizzata verso le merci.
Una delle principali leve del consumo è certamente quella pubblicitaria, la quale poggia sulla “marca”, e sulla costruzione di “mondi possibili” (Eco e altri), cioè generati da ciò che viene raccontato, i quali sono contemporaneamente “verosimilmente inverosimili”. Il “mondo possibile” della marca è polisensioriale e sincretico, e si nutre di tutti i mezzi di comunicazione a disposizione (testi-token): scritti, orali, visivi, olfattivi, tattili, ecc., attingendo quindi ai possibili “fornitori di esperienze”. Se il prodotto si trasforma in marca, allora vuole dire che il VDC ha raggiunto la sua missione, che è quella di agire – in modo attivo e passivo – per caricare di significati l’oggetto di consumo, magari anche alzando l’asticella del prezzo finale; così “…le marche producono piccole narrazioni in grado di influenzare le nostre vite e addirittura le nostre identità sociali…”[3], afferma il professor Ferraresi.
Tre. Cunsumption mix, il sacro e la violenza, il lusso, il consumo sostenibile
Le tradizionali leve del consumo si sono basate per molto tempo sul concetto di marketing mix, il quale è riconducibile ad una miscellanea di analisi del prodotto, della catena di distribuzione, del prezzo e della strategia pubblicitaria e promozionale, dove però spicca la non centralità della figura del consumatore. Il concetto di “consumption mix”, scaturisce proprio per supplire a questa mancanza, dando importanza alla marca, al luogo (la consumosfera), ma soprattutto al consumatore ed alla società (dei consumi) in cui lo stesso è collocato.
In questo mondo la violenza ed aspetti sacrali in qualche modo si richiamano, ed è attraverso il sacro, mediante l’identificazione del “capro espiatorio”, della vittima sacrificale, che si espelle la violenza dalla comunità (Girard), creando così unanimità attorno ad un progetto di convivenza (ri)pacificata. Tuttavia l’integralismo (magari di matrice religiosa) è in grado di annullare la distanza creata dal sacro, per riportare la violenza proprio di nuovo all’interno della società.
Così se il consumo ha per così dire degli aspetti “religiosi”, si dovrebbe quindi ammettere che lo stesso potrebbe essere in grado di arginare la violenza; di far raggiungere così la “pace del consumo”, generata in questo caso dalla vittima sacrificale che è rappresentata proprio dal consumatore. Il “lusso pubblico e quello privato” poi, sono una costante storica: l’abbellimento di un tempio, di una città, la magnificenza di certe corti rinascimentali – ad esempio – stanno dentro alla prima tipologia, mentre tutto ciò che rende più piacevole la vita degli individui, ed ha a che vedere con la voluttà, il gusto, il piacere, rientra invece nella seconda casistica.
Il lusso quindi sarebbe qualcosa “oltre al necessario” – quest’ultimo però è un concetto assai volubile – e che si riferisce spesso anche allo spreco. Migliore è quindi la definizione che poggia invece su ciò che “eccede i beni di cittadinanza” (Alberoni), pertanto nella modernità il lusso è indicativo di uno status, e le spese voluttuarie sono il segno di prestigio e di differenza sociale (abbigliamento d’alta moda, gioielli, yacht, aeromobili, ristoranti stellati, mercato dell’arte, ecc.).
Secondo il nostro autore, sarebbe peraltro in atto una sorta di “democratizzazione del lusso”, che lo renderebbe accessibile per una più numerosa platea, la quale comunque continuerebbe a sentirsi parte di un’elite. La “sostenibilità” si potrebbe inscrivere nel novero delle nuove leve del consumo, poiché la stessa a che fare con l’ “impronta ecologica” generata dai modelli in atto, che nel caso della sostenibilità sono in grado di cambiare radicalmente il paradigma originario, attingendo a questo scopo dai maggiori livelli di consapevolezza, motivazione e presa di coscienza, ottenuti con la comunicazione mirata verso questo target.
Nel settore alimentare si concentra uno sforzo ingente nella direzione della sostenibilità, giacché il cibo è da tempo immemore l’espressione della identità e della cultura dei popoli. Ma è anche generativo di enormi disuguaglianze ed ingiustizie: ogni giorno si producono nutrimenti per circa il doppio della popolazione mondiale attuale (7; 7,5 MLD di individui), tuttavia almeno un miliardo di persone soffre ancora la fame; si tratta quindi di cambiare le abitudini nutrizionali ma anche di adottare un sistema economico-sociale più democratico ed appunto sostenibile.
I nostri palati sono in generale costruiti dalla cultura del consumo, poiché non si introduce nulla in bocca che non sia già stato prima valutato dall’intelletto. Per promuovere l’idea di sostenibilità allora è utile scegliere prodotti locali, a filiera corta, di stagione, utilizzando magari i GAS (Gruppi di Acquisto Solidale), con packaging minimo, igienicamente sicuri, evitando il consumo di plastica correlato. Avere sotto controllo – diminuendola – la individuale e collettiva “impronta ecologica”, controllare gli effetti delle azioni sopra un mondo nel quale dovrebbero essere globalizzate le regole ed i diritti e non soltanto i mercati (Kant), connotare di valori etici i prodotti sostenibili: queste sono le nuove coordinate di riferimento del consumatore responsabile. Forse il prodotto sostenibile, a basso impatto ambientale, salutare ed igienico per l’uomo, non di lusso e connotato di un certo grado di sussidiarietà, sarà in grado nel futuro di superare l’idea stessa di marca.
Quattro. Qualche pressante interrogativo
A questo punto verrebbe voglia di affermare “consumo ergo sum”, parafrasando la nota asserzione di Cartesio, giacché esistono diversi segmenti sociali che sono incapaci di trovare una forma di “filosofia di vita” innervata di altri valori condivisi, e forse questo fatto nella bolla esistenziale della consumosfera, non è nemmeno possibile.
Così la mente vaga senza meta ed è soggiogata dalla cultura egemonica del momento, dentro alla quale le persone schiacciate dal peso del loro ruolo, si sentono complessivamente spogliate del proprio potere e del proprio valore, nonostante un fatuo appagamento momentaneo.
In questa condizione il sottile, fragile e volubile “Io” del consumatore è facile da frammentare e da abbattere; e le pratiche della cultura dominante fanno sì che si perpetui un “vuoto esistenziale”, prodromico ad un consumo perpetuo, che è però l’anticamera della demoralizzazione e della depressione. Il consumo, quindi, può generare veramente felicità individuale e collettiva duratura?
È corretta poi l’impostazione di questa domanda in una nazione come l’Italia fondata – costituzionalmente parlando – non già sulla felicità come negli USA, né tanto meno sul consumo, ma bensì sul lavoro? I sistemi sociali occidentali, per mantenere stabili i livelli di benessere, perpetuano il paradigma economico capitalistico nella variante consumista, che come una moderna “araba fenice”, risorge sempre dalle sue ceneri.
Se il sistema per continuare ha per definizione un bisogno continuo di espansione delle vendite, la felicità non può dipendere soltanto dall’individuo e dalla sua capacità di utilizzare le risorse mentali per arginare le brame di consumo indotte, ma diventa un problema di ordine collettivo.
È in questa prospettiva che può essere ricompresa la fase attuale, dove locuzioni come “sostenibilità”, ma anche “capitalismo della sorveglianza” o “delle piattaforme”, sono i nuovi riferimenti testuali e le innovative leve del consumo. Dall’ iper-consumo al consumo collaborativo, dalla crescita illimitata ad una maggiore sobrietà e sostenibilità, perché bisognerà pur rompere il circolo infernale della creazione illimitata di bisogni e di prodotti, come pure quello della frustrazione crescente che questa dinamica genera.
Forse quando la temibile fase pandemica in atto sarà termitana, si porrà con maggiore pregnanza il tema della costruzione di un diverso modello di sviluppo planetario. Potremmo dire che è il “territorio del consumo” della fase attuale a generare le relazioni sociali, e quindi è anche l’azione che costruisce il “nuovo territorio metropolitano”.
È sempre sul territorio ed in ragione del consumo però, che si scatenano i conflitti, come è stato dimostrato dai casi relativamente recenti di Londra, Parigi, Berlino ma anche di Genova o Roma. La “pace sociale generata dal consumo” contrasta quindi con le rivolte ricorsive per l’accaparramento del “Bengodi” proprio dei territori urbani? Il meccanismo del “capro espiatorio” poi, funziona veramente nella società di massa dei consumi? Giacché l’unico ruolo possibile è proprio quello di consumatore, e pertanto la società che ne deriverebbe, non sarebbe quella ottenuta dal toglierne… “meno uno”, il capro appunto; ma quella… “meno tutti”, con differenza pari a zero. La sparizione completa della società quindi.
Un sentito ringraziamento al professor Mauro Ferraresi.
Videoconferenza, 02/05/2020
[1] M. Ferraresi, Le nuove leve del consumo – Guerini Next, Milano, 2016.
[2] M. Ferraresi, Le nuove leve del consumo – Guerini Next, Milano, 2016, p. 61
[3] M. Ferraresi, Le nuove leve del consumo – Guerini Next, Milano, 2016, p. 122
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- Premessa di Luca Caputo 06′ 00″
- Introduzione di Andrea Rinaldo 11′ 25″
- Relazione di Mauro Ferraresi 56′ 21″
- Domanda con risposta di Mauro Ferraresi 14′ 11″
- Domanda con risposta di Mauro Ferraresi 07′ 43″
- Domanda con risposta di Mauro Ferraresi 08′ 58″
- Domanda con risposta di Mauro Ferraresi 11′ 06″
- Domanda con risposta di Mauro Ferraresi 09′ 49″
- Domanda con risposta di Mauro Ferraresi 10′ 32″
- Domanda con risposta di Mauro Ferraresi e chiusura dell’incontro 18′ 49″