Sestesità per l’uso

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Che senso assegnare alla “sestesità” in questa complicata fase della globalizzazione e nella congiuntura difficile della città? Quale uso è consigliato o almeno possibile?  E’ ancora possibile guardare (e magari cambiare) il mondo da un luogo storicamente corposo quale è la città delle fabbriche? O siamo tutti risucchiati nel vuoto e nella logica dei non-luoghi che Augé ha puntualmente descritti? Che gli arabi di Dubai abbiano mollato la presa non significa che la città del lavoro possa smettere di fare i conti con le funzioni della globalizzazione e con gli stessi fondi sovrani. Questa la sfida, e non possiamo più tirarci indietro.

Intorno a questi interrogativi di sapore epocale e sulla strada di una soluzione possibile ci aiuta il bel libro di Damiano Tavoliere: La chiamavano Stalingrado d’Italia. Sesto San Giovanni, la città delle fabbriche. Il libro ha il merito appunto di aprire una finestra sulla sestesità, che è stata il nostro modo di essere moderni. Un’epoca rapidissima: novant’anni esatti. La prima colata nel 1906 e l’ultima colata nel 1996, per ordine di Bruxelles.

Non credo al “secolo breve”, ma certamente un’intera epoca si è collocata in questi novant’anni. Un modo di produrre e un modo di vivere. Una città sorta intorno alle fabbriche mentre le fabbriche erano sorte direttamente dai campi di granoturco. Città operaia per antonomasia. Cittadella dell’acciaio per Mussolini. Città del lavoro per le sinistre che a lungo l’hanno governata.

Un problema, dunque, come ci accade sempre più spesso, di memoria. Anzitutto “costruire” memoria. Perché la memoria non è data: chiede di essere organizzata. E poi la memoria è tante cose insieme, come ci avverte Paul Ricoeur: ricordare, dimenticare, perdonare… In essa l’enigma del passato. E quindi anche l’enigma di questa grande Milano, le cui storie vengono raccontate non più da Bonvesin de la Riva o dal Verri, ma da Giovanni Colombo. Anzi, ad essere insieme immaginifici e precisi, l’ultimo grande storico di Milano si chiama Carlo Emilio Gadda, “l’ingegnere in blu” di Alberto Arbasino, a partire da L’Adalgisa

Davvero la memoria non è data, ma si costruisce. E Sesto si colloca sulla frontiera, sia in termini strutturali come in termini di memoria e di cultura, in una fase dove più volte ci è dato di assistere allo sterminio della memoria. E il nostro problema continua ad essere come costruire una memoria all’altezza della sfida del vuoto culturale che ci circonda e ci attraversa

Lo so bene, Sesto oltre e più che una storia materiale, è una storia politica e sociale. Un luogo eminente dell’antropologia culturale dentro l’industrializzazione. Una città con forte ed esemplare identità. Oggi non più. Come ritrovare una identità nella trasformazione e all’altezza della trasformazione? Quale il ruolo del lavoro? Quale socialità? Quale welfare? Si tratta di ritrovare i luoghi della socializzazione… si tratta di aver presente che il nostro problema è non perdere l’anima della sestesità dentro l’innovazione.

Ma esiste un’autentica fedeltà al passato? Può esistere? Che la memoria riguardi il passato sembra un’affermazione ovvia. Ma il vero problema è: quale passato?

Andiamo per tracce, ben sapendo che anche il ricordo a caldo è già un’interpretazione… Ha ragione ancora Paul Ricoeur a ricordarci che la storia e la memoria sono condannate a “oscillare tra fiducia e sospetto”. È vero però che ha anche “il futuro sverna nel passato, dove raccoglie le aspettative e speranze sinora inascoltate in vista della loro realizzazione”.

Sesto S. Giovanni che cosa ha a che fare con questa transitività dei tempi? E’ la voglia di città che vuole sbloccare il proprio futuro, intenzionata a ritrovare un modo di abitare, ad agguantare una vocazione produttiva. Per questo dobbiamo prendere però serenamente congedo dal nostro passato per aprire una pagina nuova di quella che fu la città del lavoro.

Sappiamo, ricostruendola, che cosa è stata la nostra modernità. Ci siamo addirittura appassionati ai suoi miti. Perché tale ad esempio è quello del Bizeta, il quadrimotore praticamente “spiaggiato” a Mogadiscio, grande quanto un Costellation. Non a caso finito in Africa, perché è proprio nel Continente Nero che sono fioriti molti miti, compreso quello degli antenati che ritorneranno in patria alla fine dei tempi a bordo di un grande oggetto volante… Si tratta di quel mito dell’aereo studiato dall’antropologia culturale e presente sulle pagine di Lévi-Strauss e di Margaret Mead.

Da dove guardiamo? Dal postmoderno. Ma che cos’è il postmoderno? Non lo sappiamo. Siamo confusi, non di rado malinconici. Ricostruire la sestesità ci aiuta, ci dà un luogo, ci restituisce un punto di vista da dove guardarci come siamo oggi. Cosa saremo, come già siamo cambiati, come stiamo cambiando.

Il libro di Tavoliere narra le nostre relazioni con Sesto, con i sestesi, con le “cose sestesi”. I forni, le ciminiere, i capannoni, il motorino Garelli, il ventilatore della Magneti Marelli, il Campari…

Andreotti dice in un’intervista: “Ho girato il mondo e non ho visto che aeroporti”. Antonio Pizzinato dice: “Non c’è Paese al mondo, non c’è Continente dove io mi sia recato e dove non abbia trovato produzioni realizzate a Sesto”.

Le “cose sestesi” non ci sono più. I supermercati che si sono insediati sulle aree dismesse hanno lo stesso sapore della cucina internazionale: se va bene, non sa di niente e non ti fa star male. I loro nomi, le loro pubblicità sono gli stessi a Las Vegas o a San Pietroburgo o a Hong Kong. Puoi chiamarli Vulcano, Auchan o Caltacity, ma l’anonimato non cambia. Sono cose e case cresciute intorno al danaro della globalizzazione; non sono più cose sestesi. E’ questo un mondo totalmente dato nelle mani della finanza. L’anonimato delle cose e delle case consegue al dominio universale del danaro.

Gli operai lavoravano per guadagnare e mantenere la famiglia. Si organizzavano nel sindacato, lavoravano duro, scioperavano, anche contro l’occupazione nazista: per questo siamo diventati dal 1943 la Stalingrado d’Italia per il mondo intero. Gli operai amavano e difendevano le macchine. Gli imprenditori hanno sempre amato il guadagno, ma anche i loro prodotti, le loro cose: ne tenevano i modellini sulla scrivania. Per questo sono nati degli autentici miti sestesi: il Zappata, appunto.

E adesso? La finanza ha preso il posto delle cose industriali. È finito il capitalismo territoriale. Non più il marchio della Magneti Marelli, delle Acciaierie e Ferriere Lombarde Falck, con il logo scritto sulla targa verde attaccata alla canna della bicicletta gialla delle guardie. Così pure il marchio della Breda ha fatto il giro del mondo.

I marchi che tutti oggi conosciamo sono invece la Enron negli Stati Uniti e Parmalat in Padania. Per i loro scandali epocali. Anche tra gli imprenditori sestesi c’è stata la corsa a trasformarsi in finanzieri. E sulle scrivanie non ha senso incorniciare un contratto laddove c’era un modellino…

Per questo il libro di Damiano Tavoliere ci aiuta: perché parla della sestesità per le sue cose e i legami con le cose, il lavoro e i suoi prodotti. Perché la crisi nella quale siamo entrati, e dalla quale nessuno ci sa ancora dire come usciremo, ci obbliga a ripensare il rapporto con il lavoro, la produzione e i suoi prodotti. Perché non portano da nessuna parte le ricette soltanto assistenziali.

Dunque guardare al futuro con un po’ di sana sestesità nella memoria aiuta a orientare la speranza, a renderla civile e capace di programmi e delle decisioni che ci toccano.

Grazie a questo libro, una volta tanto, capire non solo è bello ma ha anche un poco incoraggiante. Le “cose sestesi” erano brutte e moderne. Le attuali sono meno brutte, postmoderne, ma sconsolatamente anonime.

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