Non a caso l’analisi ad un tempo più acuta e sintetica di questa fase confusa la fornisce Marco Revelli su “il manifesto” di martedì 5 marzo 2013: “Non c’è una “forza politica”, come novecentescamente avremmo detto. C’è la forza delle cose”. E aggiungerei: l’imprevedibile potenzialità e ricchezza delle cose in movimento, insieme ovviamente alle difficoltà e ai rischi, e a un ritardo collettivo della coscienza dei cambiamenti già da tempo avvenuti. Peraltro questa distanza tra i cambiamenti e la coscienza che ne abbiamo è uno dei cardini del pensiero politico dossettiano, al punto da risultare determinante nella decisione di ritiro presa a Rossena.
Le cose sono dunque confuse, ma sono anche tutte in movimento. E quando i dati sono molteplici diventa buon senso ridurre. Nonostante le previsioni della vigilia che davano per probabile un esteso assenteismo, l’affluenza alle urne è risultata ancora una volta a livelli dignitosi. Il problema non sono in prima istanza i partiti, ma il Paese. Un Paese dove la radicalizzazione anzitutto dei ceti medi e delle altre categorie ha prodotto una radicalizzazione del voto che ha smentito, pur nella rabbia e nell’insofferenza palese nei confronti della Casta, i predicatori dell’antipolitica. “Vivi con rabbia” era il titolo di una commedia di Osborne degli anni Settanta. “Vota con rabbia”, questo il titolo delle elezioni di febbraio. Una politica con rabbia. Un Paese che fa sacrifici, ma non riesce ad elaborare un idem sentire all’altezza delle sfide in atto. Per cui se è chiaro il rivolgersi alla politica, è totalmente confuso ed oscuro l’orizzonte della politica invocata.
Qui scontiamo fino in fondo l’ambivalenza e l’ambiguità dei populismi. E mette qualche brivido ripensare l’esperienza storica che nelle crisi grandi e tumultuose vede prima uno sbandamento a sinistra e poi un assestamento autoritario. Eppure l’elemento positivo interno all’ambiguità non può essere sottaciuto. Questa infatti è una radicalizzazione del voto che pensa che la politica debba dare soluzioni anche nelle occasioni impossibili. La stessa posizione del cardinale Martini e di Max Weber. È la politica che si deve occupare delle situazioni impossibili. Così pensano gli italiani, e questa è dunque una buona notizia.
La sincope dei tempi
Le prime consultazioni di febbraio nella storia della Repubblica hanno prodotto la mimesi elettorale dell’assalto al Palazzo d’Inverno. Le ha vinte il comico Beppe Grillo riempiendo la rete e le piazze con mezzi pacifici e giovanilmente mediatici. Le ha perse Berlusconi, nonostante il tentativo sagace di accreditare una “rimonta” che ha invece lasciato per strada sette milioni di voti. Le ha perse il Partito Democratico (tre milioni e seicentomila voti smarriti) che si è attestato nel guado tra i due populismi, tentando di esorcizzarli entrambi, ma restando ostinatamente in mezzo al guado medesimo. Ne è sortita la ” tempesta perfetta”.
Il PD infatti ha interpretato gli interessi divaricati, talvolta inevitabilmente contraddittori, della middle class, lasciando la gestione di ampie porzioni di popolo insofferente ai due populismi. Più sbracato, plebeo e un po’ padanamente sanfedista quello di destra. Più frescamente speranzoso e ingenuo (“palingenetico” dirà Bersani nella sua dolente esternazione pubblica) quello grillino che, proprio per questo, si sottrae alle classiche definizioni di destra e sinistra e non nasconde manifestazioni dannunziane.
Insomma, andando un attimo per metafore bersaniane, il PD non ha capito che quando la radicalità è nelle cose prima che negli approcci e nelle visioni del mondo, i giaguari (pardon, i gattopardi) non si smacchiano, ma si prendono a calci elettorali. C’era bensì stata, nell’imminenza delle urne, una intuizione montante del malessere diffuso, ma non se ne era intesa l’estensione e soprattutto la profondità.
Nottetempo l’Italia s’è incamminata in una terra di nessuno, imprevista ed inedita, senza mappe, naturalmente “artificiale” (non evito l’ossimoro), come è destino delle costruzioni politiche, così come ci ha insegnato a pensarle Norberto Bobbio.
Resta davanti a tutti il problema di un governo necessario, quantomeno per rispondere alla pressione dei mercati e delle istituzioni europee ed internazionali. Tutto il peso della crisi finanziaria, tutt’altro che alle spalle. Il fantasma dello spread. L’altalena vertiginosa delle Borse. Ma anche tutto il fervore e l’ansia di un ritorno dell’utopia che trova semi ed opportunità nelle crisi epocali e che allude, insieme ai bagni di folla e al coraggio di praticare i luoghi dove mancanza di lavoro e bisogno di futuro si tengono in maniera più esplicita, ai cieli nuovi di un “decrescita felice”, che agli occhi dei cittadini si presenta come decrescita già realizzata e in atto, ma certamente tutt’altro che felice.
Campanelli d’allarme ed esortazioni in una congiuntura che ha reso l’emergenza abituale, producendo un disorientamento politico di massa che trova le sue radici nel disagio sociale. Il problema allora è riorientare l’opinione pubblica, non cavalcarne le paure e le incertezze. Così dobbiamo fare i conti con gli opposti populismi, con i reiterati tentativi di semplificare la crisi mentre la si nega. Un’ansia di cambiamento che si astiene però dal cercare progetti e dal tentare di praticarli, magari a tentoni, magari cantando di notte per farsi coraggio. Non era l’ultimo Dossetti a chiedersi: “Sentinella, quanto resta della notte“?
Quel che ha impedito al Partito Democratico di rendersi sufficientemente credibile e vincente è il mancato coraggio di sbaraccare le lobby interne ed esterne del proprio ceto politico, riguardo alle quali Stefano Rodotà si è spinto a parlare in generale di “una enorme manomorta politica, alimentata da aumenti ingiustificati e insensati delle indennità corrisposte agli eletti a qualsiasi livello, accompagnati da una ulteriore attribuzione di risorse a singoli e gruppi che nulla ha a che vedere con lo svolgimento dell’attività istituzionale” (“laRepubblica”, 1 marzo 2013, p.39). Accadeva così in Argentina prima del default. E la nostra condizione nazionale risulta ulteriormente aggravata da una nomenclatura – non più in grado di apparire classe dirigente – ricresciuta nell’ombra dopo i fasti delle primarie.
La vera sfida è che il cambiamento deve essere praticato, non soltanto proposto, credibilmente perseguito, e non contenuto. Vi sono occasioni in cui è necessario il coraggio di giocarsi tutto, perché la politica è visione e insieme calcolo, ma in ogni accezione non può evitare di correre i rischi che appartengono alla sua natura e alla sua missione.
Dunque, ad appesantirne l’immagine e a ridurne drasticamente la credibilità sono stati il concetto e la corposa presenza della Casta: il suo fantasma, nato come titolo giornalistico delle inchieste condotte sul “Corriere della Sera” da Rizzo e Stella, ma entrato nell’uso corrente e nel cuore delle masse, si è ben presto trasformato in una categoria del politico. Berlusconi non ha cessato di freneticamente rappresentarla nei suoi riti: dall’avidità pecuniaria, alla bulimia mediatica, alla esibita incontinenza tradotta in francese per ragioni d’imbroglio comunicativo con il termine burlesque.
Qualche effetto vistoso la rottamazione lo aveva rapidamente conseguito nel centrosinistra con il ritiro di Veltroni e D’Alema. Ma forse confidando nel successo del blitzkrieg, il vertice del partito deve aver considerato la missione compiuta ed ha proceduto alla salvaguardia di troppa nomenclatura. È a partire da qui che si è aperta la frana last minute dei suffragi nei confronti di Beppe Grillo. Quanto ai ceti medi redimibili dal folle sogno berlusconiano, l’aggravarsi della crisi e la frana del voto dicono di un radicalizzarsi degli elettori per i morsi quotidiani della crisi, al di là e al di fuori di qualsiasi prospettiva di cetimedizzazione.
Un governo verrà cercato, destinato a confrontarsi con tempi né di legislatura né biblici. E non resterà che la paziente attesa degli errori di sicuri avversari e possibili interlocutori. Con il senno di poi il segretario del PD potrà rimproverarsi di non avere impugnato la bandiera della rottamazione dopo averne sconfitto l’alfiere durante le primarie. Ma il Bersani della “ditta”, delle metafore paciose e della bocciofila non è De Gaulle, e le elezioni di febbraio non sono l’Algeria.
Resta l’insopportabilità del porcellum. Avversato coram populo dal Presidente della Repubblica, paladino solitario e inascoltato, ha consegnato al PD un premio di maggioranza alla Camera abnormemente bulgaro e quindi improprio agli occhi della pubblica opinione e inservibile – complice il Senato – nella stessa manovra parlamentare. Ancora una volta inciampiamo in modalità di conservazione di un ceto politico che pur di perpetuarsi ha rinunciato a essere classe dirigente. (Il mio mantra personale.) Modalità che sono risultate incomprensibili a un popolo che ha drasticamente tirato la cinghia senza bruciare le sedi di Equitalia, ma che non riesce più a campare decentemente e, a fronte dei privilegi della Casta, si chiede se sia giusto continuare con sacrifici che paiono piovere dai cieli tedeschi, o meglio da quelli dell’Europa germanizzata dal rigore di Angela Merkel. L’antieuropeismo strisciante ed in crescita non è originario, ma il riflesso di una rabbia greca a caccia di un capro espiatorio.
Infine Monti, austero sacerdote dei mercati, se ne è accorto a sua volta in campagna elettorale e sollecitato, si dice, da qualche spin doctor statunitense che conosce l’antropologia italiana essendosi documentato probabilmente sui film di Sergio Leone, ha vestito i panni improvvisati dell’eroico Pulcinella esibendosi in una sorprendente esternazione cinofila di dubbio gusto gozzaniano. Chi era stato dolorosamente preso sul serio per la sua interpretazione competente della Quaresima (Andrea Riccardi) non può improvvisamente accedere al comune ballo in maschera.
Così l’Italia continua a restare priva di una destra credibile (e ne avrebbe bisogno) e lascia le praterie delle ali della politica alle scorribande storiche di due diversi populismi. Gianfranco Fini ne è addirittura un emblema: ha cercato maldestramente una destra nazionale ed europea, ha perso il partito e il seggio in Parlamento.
Vorrei chiarire almeno una cosa: siccome la Casta è diventata in Italia una categoria del politico, la pedagogia politica non può prescinderne, altrimenti il messaggio politico non “passa” tra la gente. Al punto che i cittadini italiani sono arrivati a pensare che la politica non sia tanto una cosa sporca (ci hanno fatto il callo) quanto una cosa insopportabilmente inutile.
Tutt’altro realistico discorso andrebbe invece fatto sull’efficacia della riduzione – imprescindibile – dei costi della politica e degli emolumenti dei parlamentari. Anche riducendo i rappresentanti del popolo a pane e acqua non si risanerebbero che in misura assai modesta i costi della Nazione. Il fatto è però che senza questa prova di comprensione i politici appaiono destituiti di ogni credibilità. Non si può metter mano ad alleviare le sofferenze del popolo abitando Versailles, dove al posto delle pagnotte circolano brioches. Fatto il passo “pedagogico”, si potrà mettere mano ai provvedimenti economici e ai sacrifici richiesti dalla congiuntura. Perché di politica c’è assoluto bisogno. E gli italiani del resto dimostrano di averlo inteso appieno continuando a frequentare le urne elettorali con percentuali ragguardevoli e dignitose. Avendo chiaro che quando le domande che emergono dalla contingenza sono radicali non è lo sguardo che va moderato.
Ultime considerazioni
Ha ragione Ilvo Diamanti a notare che queste elezioni non rappresentano una scossa isolata e occasionale, ma piuttosto una svolta violenta. Che modifica profondamente i confini fra politica, società e territorio. Non v’è dubbio che il vero vincitore è il M5S, il quale ha canalizzato due crisi: quella che colpisce il territorio e produce sradicamento dei partiti principali nelle loro zone tradizionali, quella che riguarda il legame con i raggruppamenti sociali: operai, impiegati e funzionari, lavoratori autonomi e imprenditori, liberi professionisti, studenti, casalinghe, disoccupati, pensionati. Le vecchie mappe sono tutte da buttare.
Così i partiti tradizionali superstiti si vedono costretti ad aspettare gli errori di Grillo, che non mancheranno. Il comico vincitore appare infatti sorpreso e spaventato dall’entità del voto ottenuto e dalle responsabilità che questo gli carica addosso. Le ambiguità nella sua compagine non mancano e vengono man mano allo scoperto. La riduzione della democrazia agli strumenti elettronici e al sogno palingenetico che ad essi si accompagna. La labilità e la mancanza di chiarezza (si pensi alle posizioni della presidente del gruppo alla Camera) del confine tra fascismo e antifascismo. Si aggiunga l’attacco all’articolo 67 della Costituzione che, intendendo coprire una difficoltà organizzativa e di comunicazione interna al movimento, finisce per colpire al cuore la democrazia rappresentativa. La definizione più azzeccata l’ha trovata Berlusconi: “Mi sembrano una setta del tipo di Scientology”.
Siamo comunque in un’altra Italia e la ricerca di soluzioni è chiamata a muoversi a partire dagli assetti partitici vigenti, ma anche con l’immaginazione sufficiente a prescindere da essi. È cambiata la prospettiva ed è cambiato il baricentro della politica. Le scelte di Bersani per la Camera e per il Senato hanno preso atto della nuova situazione. I due personaggi, la Boldrini e Grasso, possono senza dubbio annoverarsi all’interno della Casta, ma rappresentano una novità se confrontati con la nomenclatura che li ha espressi. In effetti porre problemi a Grillo è un modo per non rimettere in campo Berlusconi e la Lega e cercare di recuperare una parte dell’elettorato ammaliato dalle sirene della protesta. Il problema infatti non sono i rappresentanti, ma i rappresentati, che provengono per un terzo dai lidi berlusconiani e per un terzo da quelli del PD. Il voto al Senato del resto dice che il legame più cogente per i grillini è con la rete stabilita sui rispettivi territori. È questa la fedeltà che può entrare in contrasto con il marchio di fabbrica gestito dal comico e dal suo guru. Non a caso sono stati i siciliani a preferire di esprimersi in termini di antimafia nel confronto tra Grasso e Schifani, dovendo rispondere ai legami di lavoro e di attivismo sul proprio territorio. È una tensione dentro le fedeltà richieste dal M5S destinata a ripetersi nel normale lavoro legislativo in commissione ed in aula. Un punto sul quale il senso e la pratica della democrazia rappresentativa difficilmente possono essere aggirati. Ma il tempo della politica sarà sufficiente per un simile test? La mossa del cavallo di Bersani pare anzitutto attrezzarsi alla logica delle elezioni anticipate.
E il Colle? Tutti gli italiani hanno esternato grande riconoscenza per l’azione fin qui svolta dal Presidente della Repubblica. Verrebbe voglia di affidarsi ancora una volta al suo senso dello Stato e alla capacità di manovra. Anche se un dubbio si affaccia: quelle doti che l’hanno reso decisore, esercitando in maniera esimia la moral suasion, in quello che oramai appare l’antico regime, resteranno tali nella fase nuova che si è aperta? In fondo la proposta dalemiana di grande coalizione risultava un invito a muoversi sul terreno solido dell’antico e del conosciuto, e a lasciar perdere futuribili avventure.
Resta la consolazione dei paradossi della politica, che ha l’abitudine di risolvere i propri problemi aggiungendo ogni volta una nuova incognita in un’equazione già di per sé difficile.
È comunque vero che il risultato elettorale e il successo di Grillo obbligano a prendere in considerazione la natura della politica oggi, il suo senso e il suo costituirsi. In fondo, in una crisi che si dilunga in una transizione infinita, i comici vanno svolgendo – senza dimenticare un’antica e illustre tradizione – una funzione di pedagogia politica. Svolgono un compito di educazione democratica e popolare. Un retaggio dimenticato dopo l’epopea del nostro Risorgimento. E che ha lasciato i cittadini già spaesati privi di punti di riferimento. Qui la politica è dunque chiamata a rifare i conti con se stessa e a chiedersi se possa continuare a svolgere il proprio compito e a tentare di riagguantare il primato perduto a prescindere da una sua ritrovata funzione pedagogica.