L’ultimo saggio di Salvatore Natoli ha tra i molti meriti quello dello sguardo lungo. Di tenersi cioè lontano dal congiunturalismo e dal sondaggismo per privilegiare la storia di lungo periodo, dove si radunano le grandi trasformazioni e quei processi cumulativi in grado di creare le mentalità che sopravvivono ai cicli politici, ed anzi, sempre secondo il Natoli, proprio per questo “li determinano e per questo, seppure sotto altra forma, si ripresentano”.
Gli autori di riferimento sono anzitutto il Guicciardini, il Leopardi, e aggiungerei il Prezzolini e più ancora Guido Dorso – il maggior teorico italiano del trasformismo – del quale sempre Salvatore Natoli si è occupato in altre occasioni.
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1. introduzione di Giovanni Bianchi 35’00” – 2. relazione di Salvatore Natoli 1h08’44” – 3. domande 08’53” – 4. risposte di Salvatore Natoli 16’54” – 5. domande 13’10” – 6. risposte di Salvatore Natoli 22’07” – 7. domande 14’15” – 6. risposte di Salvatore Natoli 05’40”
Testo dell’introduzione di Giovanni Bianchi a Salvatore Natoli
Salvatore Natoli: gli esiti della governabilità
La diagnosi di Natoli
L’ultimo saggio di Salvatore Natoli[1] ha tra i molti meriti quello dello sguardo lungo. Di tenersi cioè lontano dal congiunturalismo e dal sondaggismo per privilegiare la storia di lungo periodo, dove si radunano le grandi trasformazioni e quei processi cumulativi in grado di creare le mentalità che sopravvivono ai cicli politici, ed anzi, sempre secondo il Natoli, proprio per questo “li determinano e per questo, seppure sotto altra forma, si ripresentano”.[2]
Gli autori di riferimento sono anzitutto il Guicciardini, il Leopardi, e aggiungerei il Prezzolini e più ancora Guido Dorso – il maggior teorico italiano del trasformismo – del quale sempre Salvatore Natoli si è occupato in altre occasioni.
Per il maggior filosofo dei comportamenti fin dagli esordi della modernità il carattere degli italiani è stato determinato dall’assenza di senso dello Stato, e quindi da una scarsa fiducia nelle istituzioni, e dalle conseguenze di un decollo tardo e limitato del capitalismo, e con esso della sua etica. Circostanza che ci obbliga a fare i conti con una assenza di Stato laico e con l’inesistenza della cultura liberale conseguente.
Tutti nodi che stanno venendo al pettine con il manifestarsi preoccupante delle conseguenze di una debole efficienza media del sistema, cui si accompagna, senza più riuscire ad essere antidoto, il perpetuarsi di una tradizionale mentalità familistica, tutta interna al modello della famiglia mediterranea.
La svolta è tale che anche il “piccolo è bello”, tipico della filosofia del Censis di Giuseppe De Rita, che per molti anni ha esercitato di fatto l’egemonia sull’intellettualità italiana, risulta oggi inservibile per affrontare i processi di globalizzazione: tutti oramai concordano, e non soltanto per ragioni di ricerca, occorre ben altro!
Nella prospettiva natoliana vengono anche recuperate le grandi sociologie, proprio perché sottratte al tecnicismo congiunturale che le affligge, e quasi costrette a riaprirsi nuovamente ai grandi orizzonti della storia. Gli italiani cioè non solo presentano un deficit di Stato, ma anche un deficit di popolo, dal momento che i popoli sono in qualche maniera frutto di un’invenzione a loro volta politica, capace di stabilizzare i processi di identità.
Ecco perché negli ultimi due decenni sono tornati a vigoreggiare i localismi, nipoti dell’antico Strapaese, e le ideologie perdenti delle piccole patrie. Il tutto ulteriormente complicato dalla presenza ingombrante della Chiesa cattolica, in quanto potere temporale in grado di ingenerare equivoci e scombinare le carte politiche secondo la celebre critica gramsciana.
Una Chiesa comunque in grado di esercitare pesantemente e puntualmente un potere di interferenza e perfino di interdizione. Il cardinalato “tardorinascimentale” di Camillo Ruini appare in questa prospettiva l’ultima tappa di un lungo percorso. E non è fortunatamente casuale che il termine “valori non negoziabili” risultasse poco gradito a Benedetto XVI e pare totalmente espunto dal lessico di papa Bergoglio.
Un’etica di cittadinanza
Secondo Salvatore Natoli “gli altri Paesi non sono certo più o meno onesti di noi, ma a far la differenza è un’etica pubblica che li rende più esigenti e meno concessivi di quanto lo siamo noi”.[3] La critica impietosa e il sarcasmo non sono del resto nuovi. In proposito Natoli cita abbondantemente il Giacomo Leopardi del Discorso sopra lo stato presente dei costumi italiani. Discorso che resta una pietra miliare per l’autocomprensione del carattere – pregi e difetti, più difetti che pregi – della nostra gente. “Il popolaccio italiano è il più cinico dei popolacci. Quelli che credono superiori a tutti per cinismo la nazione francese, s’ingannano”.[4]
Osserva in proposito il Natoli: “Ora, come è noto, sono le condotte comuni e non i grandi principi a rendere forti le democrazie”.[5]
Chi infatti si sia preso la briga di leggere il corposo volume di Henry Kissinger dal titolo L’arte della diplomazia, ricorderà il giudizio sintetico ed acuto che l’ex segretario di Stato offre circa la grande macchina democratica degli States, dicendo grosso modo che è impossibile capire come esattamente funzioni e come riesca a funzionare, ma che alla fine produce decisioni democratiche…
I materiali eterogenei di una nazione
Tornando ai casi nostri, tra i materiali più eterogenei e meritevoli di ascolto di questa democrazia sono gli italiani in quanto popolo in faticosa democratizzazione su una troppo lunga penisola. Popolo costruito e in costruzione: cantiere perennemente aperto dove gli eterogenei materiali dell’antipolitica – dai campanilismi dello strapese alla resistenza sui territori delle organizzazioni della malavita – prendono gradatamente le forme della cittadinanza politica. Venti milioni di abitanti da rendere cittadini nel 1861, al momento della proclamazione dello Stato unitario. E poi 29 milioni di italiani all’estero, in cerca di lavoro in tutto il mondo… Fino all’approdo di una nave nel porto di Brindisi brulicante di ventimila albanesi l’8 marzo del 1991, che s’insedia nella nostra storia come icona del cambio d’epoca.
Questi italiani non sono granché mutati da quando li analizzava Giacomo Leopardi, sottraendosi già allora alla trita retorica del poveri ma belli e ricordandoci che l’italiano è una figura costruita nel tempo e che la sua persistente “anormalità” si raccoglie intorno all’assenza di classe dirigente e all’assenza di vita interiore.
E’ da questo background che discende a sua volta la diffusa attitudine, tutta rassegnata, a pensare la vita senza prospettiva di miglior sorte futura, senza occupazione, senza scopo, ridotta e tutta rattrappita nel solo presente. Questa disperazione, diventata nei secoli congeniale, unita al disprezzo e al contemporaneo venir meno dell’autostima, coltiva un intimo sentimento della vanità della vita che si rivela non soltanto il maggior nemico del bene operare, ma anche lo zoccolo etico più fertile per rendere questa sorta di italiano autore del male e rassegnato protagonista della immoralità. Per cui può apparire saggezza il ridere indistintamente a abitualmente delle cose d’ognuno, incominciando da sé medesimo…
Che le cose non siano sensibilmente cambiate è testimoniato dalla presente situazione politica che vede un ceto politico che, come si è più volte osservato, pur di perpetuarsi, ha rinunciato ad essere classe dirigente. Di questo il “popolaccio” leopardiano s’è accorto e convinto e la reazione è rappresentata dal disinteresse per la cosa pubblica, dal disincanto per le regole etiche e morali, dall’astensionismo elettorale. Siamo cioè in quel che David Bidussa definisce il “canone italiano”, ripercorrendo l’idealtipo tratteggiato da Giuseppe Prezzolini, alla vigilia dell’avventura fascista, sotto il titolo di Codice della vita italiana. I frequentatori abituali del nostro corso lo ricordano senz’altro. Scrive Prezzolini:
“I cittadini italiani si dividono in due categorie:. Non c’è una definizione di fesso. Però: se uno paga il biglietto intero in ferrovia, non entra gratis a teatro; non ha un commendatore zio, amico della moglie e potente nella magistratura, nella Pubblica Istruzione ecc.; non è massone o gesuita; dichiara all’agente delle imposte il suo vero reddito; mantiene la parola data anche a costo di perderci, ecc. questi è un fesso… Non bisogna confondere il furbo con l’intelligente. L’intelligente è spesso un fesso anche lui… Il furbo è sempre in un posto che si è meritato non per le sue capacità, ma per la sua abilità a fingere di averle”.[6]
Viene passata in rassegna una gamma di comportamenti diffusi, polarizzati intorno a due categorie, i furbi e i fessi, che hanno sedimentato un modo comune di pensare nelle generazioni degli italiani. Addirittura un fatto di costume. Prezzolini giunge di conseguenza a fissare l’attenzione su una caratteristica relativa alla furbizia che denuncia un atteggiamento comune a larghe schiere di connazionali. Scrive infatti: “L’italiano ha un tale culto per la furbizia che arriva persino all’ammirazione di chi se ne serve a suo danno… La vittima si lamenta della furbizia che l’ha colpita, ma in cuor suo si ripromette di imparare la lezione per un’altra occasione.”[7] E qui davvero non sai se ammirare l’arguzia o la profondità dell’indagine psicologica.
Un guicciardinismo che cola di generazione in generazione, non smentendo se stesso. Che ci accompagna in un disincanto che di tempo in tempo l’acuirsi delle difficoltà quotidiane si incarica di trasformare in rancore.
La vera anomalia
La vera anomalia è però che gli italiani riescono ugualmente a modificarsi battendo le vie storicamente consolidate del trasformismo, dal momento che il trasformismo si colloca ad un livello più profondo di quanto comunemente non ci accada di pensare, e anziché ritenerlo unicamente un fenomeno degenerato di prassi parlamentare sarà bene provare a intenderlo come una tipologia italiana del mutamento. Infatti la rete dei personalismi e degli interessi particolari regge questo sistema e dal momento che in qualche modo essa risulta “pagante” non solo è difficile da smantellare ma ha ormai plasmato una mentalità diffusa, appunto, “nazionale”.
Esistono invalicabili limiti di cultura che non si possono eliminare per decreto: alcuni dei nostri maggiori sopra passati in rassegna ci hanno ricordato che gli italiani usano lo Stato più di quanto lo servano, ed in compenso ne parlano male.
Osservava Natoli già in uno scritto del 1991 apparso nella rivista “Bailamme”: “Nel contempo essi sono troppo abituati alle delusioni e tendono, ognuno per conto proprio, a prevenirle cercando di trovare soluzioni private o mettendosi alla ricerca dei cosiddetti appoggi giusti al fine di ottenere più celermente e sottobanco quanto non riescono ad acquisire alla luce del sole.”[8]
Da qui discende un’evidente ipertrofia dello Stato come affare e perciò un uso sempre più affaristico dello Stato, che è tanto più incidente quanto più lo Stato è presente nella società. In questo modo in Italia si è venuta a mano a mano costituendo una forma di organizzazione sociopolitica in cui pubblico e privato si mescolano costantemente fino ad una vera e propria riprivatizzazione dello Stato attraverso il sistema pervasivo dei partiti. (Enrico Berlinguer parlò di “occupazione”.)
Così il fenomeno è esplicitato fino al suo dilagare nei giorni nostri, con una cannibalizzazione delle forme del politico che si è fatta tribalizzazione della società civile e quindi delle istituzioni, e addirittura della quotidianità stessa. Ciò spiega come in Italia lo Stato sia pervasivo senza essere altrettanto efficiente ed il privato non riesca mai ad essere così privato come dovrebbe e come soprattutto va proclamando sulle diverse gazzette e nel diluvio dei talkshow. Per questo il trasformismo non può significare soltanto prassi parlamentare, ma assume la consistenza e il peso di una tipologia del mutamento della nazione.
Le riforme sarebbero dunque da fare. Ma come e da parte di chi? Nelle società ad alta complessità i sottosistemi che le costituiscono godono di una relativa indipendenza e proprio per questo possono evolvere in modo differenziato. Quel che è accaduto in Italia è proprio questo: il sistema politico è reso inefficiente da quella stessa rete dei personalismi attraverso cui si riproduce. Nelle società contemporanee infatti è possibile constatare un pullulare di movimenti a diversa motivazione (sovente one issue) che sorgono e dispaiono ma non sboccano in istituzioni. Quel che in questi casi è singolare notare è il fatto che normalmente gli individui sopravvivono ai movimenti cui aderiscono.
Risulta così difficile individuare un responsabile da chiamare in causa, per l’evidente ambiguità della rappresentanza politica. Ed inoltre, in una società in cui vi è un’alta specializzazione delle prestazioni, risulta improbabile che i cittadini abbiano la competenza di decidere sulla funzionalità delle regole.
Nessuna società può essere cambiata per decreto, ma è in base alla sua “andatura ordinaria” che si misurano successi e fallimenti. E bisogna segnalare che il sistema Italia, anche se non riesce mai a correre a pieno regime, non è un sistema totalmente bloccato. In Italia si è praticato sempre poco, ed in modo incerto, il governo del cambiamento, ma ciò non ha impedito che vi fosse una crescita, sia pure non programmata, una mescolanza di spreco e di imprenditorialità.
È in questo quadro che va collocato il discorso sulla casta di Rizzo e Stella, che ha cessato di essere un’inchiesta giornalistica per diventare una categoria del politico italiano. Così pure deve essere affrontato il tema di una diffusa area di sottogoverno, tema proposto da Stefano Rodotà.
Tra rappresentanza e governabilità
Scrive Natoli che “nel tempo gli italiani sono cambiati e cambiano, ma in generale non dirigono i processi di cambiamento, li subiscono”.[9] Diventano cioè diversi senza rendersene (pienamente) conto. Un lungo andazzo, un’indole nazionale, una sorta di Dna e perfino una regolarità della politica italiana. Osserva ancora Natoli che “perché una democrazia sia compiuta, è necessario che le parti politiche si alternino ai governi; il ricambio evita una sclerosi dei partiti e con essa una decomposizione della democrazia”.[10] Problema fondamentale e che ci trasciniamo da sempre.
Ma perché una democrazia sia compiuta, oltre a regole all’altezza dei mutamenti che già si sono verificati, ci vogliono soggetti in grado di organizzare pensiero politico e selezionare la classe dirigente. Questo manca da troppo tempo alla politica italiana. L’interventismo giudiziario susseguente a Tangentopoli nasce in questa anomia e in questa rarefazione del politico: i giudici, nel vuoto e nello scempio delle regole, si erigono impropriamente a soggetto politico. Pare anche, in qualche caso, che ci prendano gusto. Do you remember Ingroia?
Scrive ancora Natoli: “Una vera e propria patologia della rappresentanza”.[11] E infatti non possiamo essere i perenni nipoti della Trilaterale del 1974. Fu allora che si disse: vi è un crisi della democrazia prodotta da un sovraccarico di domanda; si rende quindi necessaria una riduzione della complessita’ per realizzare la governabilita’ del sistema.
Il presupposto teorico venne fornito dalla teoria luhmanniana, meglio nota come teoria della complessita’. La parola chiave della teoria luhmanniana è complessità e vuol rappresentare la crisi di ogni “spiegazione semplice” del mondo e dei processi sociali : “il mondo è complesso e rende sempre più inafferrabile la totalità degli elementi e dei dati”. Perciò, non è più pensabile alcun “soggetto generale” che riesca a conoscere la totalità.
Tutto vero, ma come si attrezza una democrazia, in quali tempi, con quali modalità, con quali soggetti ai compiti che la complessità sembra assegnarle?
Non a caso la governabilità veniva allora proposta all’Italia come antidoto a un “eccesso di partecipazione”. Dove il rischio e il problema non è soltanto la protervia del vecchio, ma anche la concreta praticabilità democratica del nuovo.
Conclude Natoli (che non ha mai nascosto una puntuale attenzione alla sistemica luhmanniana) la propria disamina osservando che Guicciardini ha perfettamente ragione nel dirci che è la forza delle cose a renderci trasformisti. Sociologia dal respiro storico e alta e lucida politologia.
Resta davanti a noi la necessità di ricercare una soluzione politica, o almeno di mettere in campo gli sforzi che accompagnano la sua ricerca. Non a caso le difficoltà e gli interrogativi del renzismo si confrontano con i tempi dichiaratamente stretti della fase, ma hanno radici lunghe che scavalcano, attraversandola, la grave crisi economica e sociale.
Il titolo di quest’anno pone con evidenza la centralità del tema. Usiamo – questa è la prospettiva che propongo – il tempo del corso per costruire insieme un punto di vista che ci trovi meno disorientati e meno impotenti.
Eppure
Ho l’abitudine di definire la fase che viviamo come caratterizzata dalla politica senza fondamenti, quantomeno perché la velocità del tempo e il tempo delle decisioni sopravanzano la riflessione e il parlare (Parlamento viene da parlare) delle decisioni da prendere. Salvatore Natoli ci aiuta – non soltanto con questo testo in esame quanto soprattutto con l’intervista rilasciata a Francesca Nodari[12] – a non spaventarci della difficoltà e ad addentrarci nella transizione.
Come? Anzitutto con l’impostazione di fondo della sua filosofia dove ermeneutica e genealogia sono il luogo dello sguardo e dell’elaborazione. Quindi, proprio con le ultime pagine dell’intervista dal titolo La mia filosofia, dove, dato a Luhmann quel che è di Luhmann – osserva che il passaggio nel quale siamo inseriti non è dal pensiero forte al pensiero debole, ma dal pensiero semplice al pensiero complesso. In secondo luogo perché, essendosi dall’Ottocento sviluppate le tecniche come dinamiche applicative della scienza, siamo passati dalla società del progresso alla società del rischio.
Scrive Natoli: “Stare al mondo è essere, oggi, in una situazione in cui siamo chiamati a governare la contingenza. Da questo punto di vista, la mia riproposizione della virtù viene incontro a questo, perché la virtù è quella modalità di rafforzamento di sé, che è tanto più necessaria in una situazione di improbabilità. La virtù, si badi bene, è il rafforzamento di sé, ma non nella forma dell’onnipotenza, bensì nella forma della capacità di saper costruire relazioni. Perché se noi consideriamo l’elenco di tutte le virtù così come è presente nella storia della filosofia, non ve n’è una che per essere messa in opera, non comporti una forma di relazione. Perché l’uomo virtuoso, da solo, non esiste. Quindi la virtù è il governo di sé, nel senso della capacità di attivare relazioni positive con il mondo”.[13]
Il mondo, che è dimora del nostro transitare, ma anche campo continuo d’azione.
[1] Salvatore Natoli, Antropologia politica degli italiani, La Scuola, Brescia 2014.
[2] Ivi, p. 11.
[3] Ivi, p.16.
[4] Giacomo Leopardi, Discorso sopra lo stato presente dei costumi italiani, Feltrinelli, Milano 1991, p. 58.
[5] Salvatore Natoli, op. cit., p. 18.
[6] A cura di David Bidussa, Siamo italiani, chiare lettere, Milano 2007, p. 31.
[7] Ivi, pp. 32 – 33.
[8] Salvatore Natoli, La trasformazione non governata. Appunti sulla tipologia del mutamento nell’Italia degli anni 80/90, in “Bailamme”, n. 9, giugno 1991, p. 54.
[9] Salvatore Natoli, Antropologia politica degli italiani, op. cit., p. 23.
[10] Ivi, p. 29.
[11] Ivi, p. 30.
[12] Salvatore Natoli, La mia filosofia. Forme del mondo e saggezza del vivere, a cura di Francesca Rodari, Edizioni ETS, Pisa 2008
[13] Ivi, pp. 124-125
Trascrizione della relazione di Salvatore Natoli
Vedo che l’inizio del corso è popolato, e questo è già un buon auspicio.
E la sintesi delle mie posizioni, delle mie idee che ha dato Giovanni Bianchi, direi che non è suscettibile di aggiunte, è completa. Per cui io riprenderò alcuni punti mettendo a fuoco alcune questioni che ci permettano di capire come siamo fatti e, capendo come siamo fatti, capire anche quello che possiamo fare perché l’una cosa non è possibile senza l’altra.
Allora, capite bene già da quello che ha detto Giovanni Bianchi, che uno dei limiti nell’informazione, e anche in taluni processi di formazione, è dato dal fatto di sviluppare un pensiero reattivo e, come dire, modulato sulla congiuntura, sul momento, sul presente, sulla breve fase, per arrivare poi, per un verso a destare consensi, adesioni, per l’altro idiosincrasie e avversioni. E non è possibile costruire un’adesione politica generalizzata fondata su stati d’animo reattivi.
Ora se guardiamo, diciamo, la grande rivoluzione della modernità, il Quarto potere di Orson Welles, la stampa fino a oggi, la rete, ci rendiamo conto che a fronte dei grandi vantaggi che squarciavano le leve del potere, c’è anche la frettolosità dell’ermeneusi. E i cittadini, nel senso più ampio, generale, non dico le élite politiche o culturali, ma i cittadini hanno come base di informazione queste fonti che informano poco e, certamente di raro, dinanzi agli accadimenti politici, presentano questi eventi come delle sfumature di superficie di processi profondi.
Allora, ignorando i processi profondi, è facile che ci si fissi su movimenti particolari prendendo abbagli dove l’elemento dell’eccesso di consenso, o del risentimento fondamentalmente non modifica le strutture profonde della nostra cultura. Volendo usare una parola che viene dalla biologia, il nostro DNA culturale. Allora, il taglio che vi ho dato, e Giovanni Bianchi vi ha mostrato, è che per comprendere le vicende italiane, anche quelle di più breve periodo, è necessario mettere a fuoco una storia di lungo profilo.
Allora, comincio da un punto, il primo punto, che è anche l’inizio della mia antropologia politica degli italiani, dove io parto dal Guicciardini, il quale essendo un sostenitore eccessivo e un celebratore di Lorenzo il Magnifico, inizia la storia d’Italia con la morte di Lorenzo il Magnifico. Il quale, tutto sommato, era riuscito a sviluppare una politica di equilibrio e a severare gli stati italiani e ad avere anche dei rapporti di credibilità e di forza con i nascenti stati europei, con le nascenti monarchie europee. E siamo in un contesto importante questo perché è il momento in cui sta nascendo, si sta formando lo stato moderno. Perché tra il Cinquecento e il Seicento si gioca questa partita in quello che noi chiamiamo l’emisfero occidentale.
Allora, Lorenzo muore. Aveva sviluppato una politica di equilibrio non tanto perché pensasse all’Italia, lui pensava alla Toscana e la voleva collocare in una posizione per cui riuscisse vincente e allora creare un equilibrio a favore, che permettesse, secondo Guicciardini, una possibilità di consenso e di tenuta, quindi limitando in qualche modo i particolarismi e rendendo compatibili gli interessi, potesse sostanzialmente da questo trarre vantaggio. In quel momento, l’idea di unità d’Italia non c’era, perché già era abbastanza simbolica e mitica l’idea stessa di Italia. Non insisto più di tanto su questo momento ma che ci fosse un’idea di Italia, questo era già presente nei ceti colti dell’Italia dell’epoca. Basti pensare Dante, l’Italia, il giardino dell’impero, cioè la pensava nel quadro dell’impero. Rimaneva sullo sfondo, ossia in modo larvale, l’idea di romanità, l’idea imperiale, che era l’idea italiana e che questa cosa abbia attraversato tutta la storia d’Italia è dimostrato dal fatto che non è un caso che la capitale sia diventata Roma, perché c’era questo mito imperiale. Giocata poi, come ben sappiamo, in modo identitario, dall’impero fascista. I littori.
Queste cose non nascono a caso. Quando gli italiani ci pensano, l’idea di unità ha questo archetipo, ma poi quando si va a vedere la geografia concreta, questi non erano per nulla uniti; cioè questo mito. Allora le identità sono sempre in generale strutture di tipo simboliche, legate a elementi fondatori e garantiti da un ceto politico che le plasma e le inventa. Questo non vale solo per l’Italia, tutte le nazioni nella storia del mondo per darsi un’identità hanno inventato le origini, che sono diventate una radice simbolica della loro identità; quindi le identità sono grandi invenzioni politiche, in concreto non esistono, c’è un grande ceto politico che le inventa e su questo unifica.
E quindi la genealogia ebrea, parte dalla Bibbia. Se voi leggete la Bibbia, lì ci sono le genealogie. Perché c’è il mito fondante e garante del mito fondante è chi lo preleva non arbitrariamente: ci sono dei segni, ci sono delle tracce perché altrimenti non ci sarebbe una corrispondenza, la gente non si riconoscerebbe; c’è qualcosa di riconoscibile che però viene gestito, organizzato e diventa la dimensione identitaria.
Quindi, c’era un’idea d’Italia. L’idea della romanità la troviamo in Cola di Rienzo, in Petrarca. A fronte di questo, c’era qualcosa di non italiano già allora, e di più grande dell’italianità che aveva l’Italia; c’era qualcosa di universale che però era in l’Italia e che aveva in Italia il suo riferimento, e che era il papa romano. Non sto qui a raccontare tutte le lotte per le investiture, la lotta tra l’impero e il papato.
Comunque, un’identità c’era, c’era una memoria ma soprattutto questa nei gruppi colti, nelle élite intellettuali e politiche. Con la morte di Lorenzo il Magnifico quindi si rompe questo equilibrio e comincia una competizione tra interessi particolari dei singoli stati italiani. Con un rovesciamento continuo delle alleanze a seconda di vantaggi e opportunità sino a chiedere a Carlo VIII di venire in Italia: alcuni dicevano ben venga, altri no, non venga. Se voi leggete l’attacco, le prime cinquanta pagine della Storia d’Italia, della posizione degli Sforza, e cambiate i nomi e ci mettete Maroni, eccetera, è uguale… È uguale. Solo che i Visconti erano una cosa migliore. Guardate che cosa hanno fatto gli Sforza a Milano e guardate cosa ha fatto Formigoni in Lombardia. I documenti, come dire, urbanistici ci suggeriscono che almeno sotto certi aspetti (questo è anche una boutade), però in ogni caso c’è questa dimensione di frantumazione e di localismo. Questo nello steso momento in cui in Europa sorgevano i grandi stati nazionali e quindi con il passaggio, ma se voi fate una breve riflessione con attenzione, i grandi stati europei nascono dalle grandi monarchie. Prendete la tavola geografica dell’Europa. Ci sono ancora i monarchi, tutta l’Europa del nord ha le monarchie; in Inghilterra è evidente, e un’eredità monarchica c’è in Spagna anche se la struttura è democratica.
Cosa intendo dire? Che la monarchia, il re, così come lo pensavano nel Medioevo, è realizzato come la testa di un corpo, come il corpo mistico, la testa di un corpo, cioè a dire: ci si sentiva cittadini, o se volete sudditi, in quanto membra del corpo reale. Sono stati scritti dei saggi sul corpo del re, membra del corpo del re. E quindi non c’era una identità etnica, ma politica. Quando tagliano la testa ai re, che cosa si eredita? L’unità del corpo, l’unità del corpo politico; non più il corpo del re, ma l’unità del corpo politico. E che cos’è il corpo politico? È lo stato. E da dove trae l’identità lo stato? Dal patto sociale, dall’accordo tra i cittadini.
Quindi, in Europa stanno succedendo queste cose. Detto questo, non è che la Francia, la Spagna, non avessero baronie, potentati. Nella Spagna fin troppi, e infatti anche la Spagna ha avuto una lunga monarchia ma un forte deficit di stato. L’Europa continentale ha avuto, da questo punto di vista, una dinamica statuale molto più riuscita.
Quindi, nel momento in cui nell’Europa gli stati moderni nascono dalla decapitazione dei re, o se non c’è stata la decapitazione (i primi a tagliare la testa al re non sono i francesi, ma gli inglesi), allora ceti oligarchici si accordano per costruire una rappresentanza politica dei loro interessi e quindi una garanzia dei reciproci interessi. E cominciano a svilupparsi in Europa, da un lato le monarchie parlamentari e dall’altro, dove non c’erano le monarchie parlamentari, le grandi monarchie assolute che però presiedevano forme raffinatissime di organizzazione della macchina statale che organizzava il territorio. Pensate alla Francia, alla dimensione a tutt’oggi della Francia, alla grande macchina statale, alla macchina organizzativa della Francia; pensate all’Austria.
Allora, dove c’è un potere assoluto, c’è anche una grande macchina statale, e questa grande macchina statale in qualche modo limitava, stroncava il potere localistico. Maria Teresa faceva il catasto. Diversa la versione inglese dove la monarchia ha avuto un’oligarchia, anzi un’aristocrazia, che ne ha limitato originariamente il potere. Di qui lo svolgimento democratico dell’Inghilterra, e qui Tocqueville ha scritto delle pagine meravigliose: essendo l’aristocrazia abbastanza forte da limitare il potere della democrazia, l’aristocrazia è diventata potere politico e quindi tutti titolari dell’accordo. Erano proprietari terrieri, molto spesso si sono trasformati in industria e impresa, quindi un’aristocrazia che diventa un’aristocrazia produttiva, quindi si incontra con la borghesia e quindi crea una trama di corpi intermedi che impediscono, dice Tocqueville, che in Inghilterra scoppi una rivoluzione come quella francese. Perché, mentre in Francia c’era la macchina dello stato e un’aristocrazia emarginata dallo stato stesso e resa sostanzialmente parassitaria, lì c’era un’aristocrazia che è diventata ceto politico e quindi ha creato dei cuscinetti intermedi per cui era impossibile che l’onda prendesse la testa.
Ecco, tutto questo per dire come si struttura uno stato, non è che fosse tanto semplice. Ma noi non abbiamo avuto un potere monarchico, l’Italia non ha mai avuto il corpo del re e quindi sostanzialmente la diminuzione della frammentazione era più unita dentro l’impero: ecco perché Dante la vedeva nell’impero perché lo schema unitario non era l’Italia il giardino dell’impero. E mentre crescono gli stati nazionali, l’Italia fondamentalmente sviluppa potentati locali.
Potentati locali che non si accordano o, come dire, fanno le guerre, insomma, l’Italia del Cinquecento e del Seicento è fatta di queste cose. Ma questo ha fatto in modo che, almeno in alcune parti dell’Italia, tutta l’Italia meridionale, fosse gestita da poteri non italiani: il Sud è in mano alla Spagna, il re di Napoli poi diventa re di Spagna. Questo è interessante perché, mentre i cittadini non accedono all’idea di cittadinanza, c’è una grande circolazione della intellettualità italiana in Europa. E questo anche oggi, noi abbiamo una intellettualità delle élite circolanti in Europa con grandi contributi, eccetera eccetera, ma che non corrispondono alla struttura della società italiana. Cioè, nascono qui, ma poi si sviluppano e vanno fuori, fino al CERN. Qui in Italia avevamo una grande circolazione intellettuale; noi abbiamo trasportato, trasferito in Europa grande cultura, fino al Seicento, pensate Galilei. Quindi, la circolazione colta c’è stata sempre. L’Italia resta una grande società, una grande cultura, però non c’è la direzione strutturata dello stato, come dicevo prima.
In questi vari principati, non faccio la cosa lunga più di tanto, noi abbiamo avuto, da un lato, principi illuminati che hanno, come dire, ripreso modelli europei, dell’Illuminismo europeo, quello appunto di Toscana; Maria Luigia a Parma e Piacenza, che tra l’altro veniva da una tradizione imperiale soprattutto dall’impero d’Austria. Quindi, ci sono stati principi. I Savoia, se trovate la storia dei Savoia, vanno da una parte all’altra della Francia… Evidentemente, il Regno di Napoli era molto più potente del piccolo Piemonte, però era al soldo della corte spagnola… Questo è il paesaggio italiano.
Quindi, mentre in Europa si assestano gli stati, in Italia ci sono poteri locali che impediscono la fusione e lo sviluppo di uno spirito nazionale, se non questa generica italianità che è fatta di memorie, di simboli.
La Chiesa , che per un verso è stata un ingombro, per l’altro verso è stato un sistema pedagogico unificante. Ha fatto l’unità nazionale a suo modo, perché le liturgie erano le stesse, anche se poi, evidentemente per le caratteristiche diverse, diversa era l’organizzazione della Chiesa. A Milano, con Carlo Borromeo è diversa, e invece la mescolanza con vecchie superstizioni di cristianesimo e di paganesimo, basta leggere De Martino per quanto riguarda il Sud. Il Sud è magia, poi c’è stata una mescolanza, fino a Padre Pio. Perché Padre Pio è nato in Puglia e non a Varese? Antropologicamente, è impossibile che nascesse a Varese.
Questo è. Cos’è successo qui in Italia? Gli italiani non hanno sviluppato un concetto importante che è il concetto di cittadinanza. Perché lo stato era lo stato del principe buono o del principe cattivo e se questo principe si allineava alle grandi monarchie assolute d’Europa, era anche un principe buon amministratore, era il buon governo del principe. Il buon governo del principe lo troviamo anche in Italia. Però si è mantenuto un rapporto di sudditanza e quindi il potere non era espressione di movimenti che si organizzavano nella società, anche di natura aristocratica, perché in Inghilterra è l’aristocrazia che limita il potere del re con la Magna Carta. Ecco, potere buono o potere cattivo a seconda, come dire, delle elargizioni, della generosità, della magnanimità.
Capite bene che allora il potere buono servirà a qualcosa, ma non si crea la mentalità che tu debba avere qualcosa perché è un tuo diritto; tu ricevi qualcosa come beneficio, o come cattivo governo, ma non sei tu il titolare di diritto, perché non c’è stato, perché non c’è rappresentanza. E quindi gli italiani si sono sempre ritenuti o ossequienti nei confronti del potere, o ribelli nei confronti del potere, ma non si sono mai ritenuti detentori del potere, e quindi responsabili del loro destino. Una mentalità di questo genere che attraversa i secoli, come fai tu a trasformarla per legge? Quindi, non è maturato il senso della cittadinanza.
L’altra cosa importante, basta pensare a Marx: chi ha fatto il più grande elogio del capitalismo della storia? Lo ha fatto Carlo Marx. Il capitalismo ha evocato i fantasmi che lo distruggeranno, però ha distrutto l’arcaismo che lo precedeva. Quindi, da questo punto di vista direi che Marx è fin troppo modernista. Ricordate quella famosa frase del Manifesto: “Tutto ciò che sembrava solido, si è dissolto nell’aria”. Il capitalismo ha distrutto tutte le comunità primitive e ha impostato… Perciò il capitalismo è stato una grande concorrenza, cioè l’individualità moderna, l’individualità che cerca la rappresentanza, e vuole garanzia, è il capitalismo. Cioè, è impossibile comprendere la nascita della democrazia senza il capitalismo. Perché il capitalismo sono grandi forze sociali che sfondano e vogliono la rappresentanza. E hanno la forza per chiederlo, perché organizzano lavoro, masse umane, fanno produrre circolazioni di ricchezza.
Allora in Italia non è lo stato, e non è il capitalismo, a imporre lo stato e a imporre il capitalismo e non è che non nasca niente, ma nasce piccolo, e resta piccolo. Perché non è che l’Italia non abbia sviluppato imprese, il tessile di Lorenzo Travaglino, c’erano le strade, ma non hai il grande modello di impresa capitalistica di cui parla Adam Smith. C’è chi dice che il mercantilismo è nato in Italia, le città marinare. Beh, dopo la scoperta dell’America, l’asse della geopolitica si ribalta e da sud-est va a nord-ovest, passaggio a nord-ovest, la mentalità oceanica atlantica, e sono quelli che diventano i grandi carrettieri del mare, i corsari; questa origine corsara del capitalismo e l’Italia è rimasta nel piccolo Mediterraneo, sempre più marginale rispetto all’area atlantica.
Qui non nasce il capitalismo e quindi resta questa dimensione, come dire, piccola e divisa, con delle somiglianze, degli attraversamenti, in fondo poi i ceti colti parlano una lingua che è quella italiana, scrivono in italiano, i ceti colti quando hanno smesso di scrivere in latino già esiste a livello di cultura una lingua, quindi c’è una intellettualità. Ma la società non è unificata. Tra l’altro questi ceti intellettuali, questi gruppi intellettuali non sempre riescono a organizzare la società. Perché la società, come dice Leopardi, è una società di piazza, è una società di chiacchiere, è una società pubblica, non hanno i grandi club anglosassoni. Ora, quando Leopardi dice questo, la sua filosofia generale dice è una catastrofe lo stesso, però nella catastrofe quelli hanno, va beh, è catastrofe il mondo, c’è una metafisica del nulla, ma non entriamo in questo, anche se non è solo questo; però gli italiani se la cantano e se la ridono ma non sono capaci di avere questi club che poi diventano i gruppi dirigenti della società.
C’erano i salotti dei ministri anche in Italia, però il popolo era assolutamente discontinuo rispetto a questi ceti. E questo è molto importante perché in Italia, pur nella dimensione difficile, si è formata una società nazionale che ha sviluppato un grande senso civico. Tutta la grande cultura di natura illuministica o, in generale, la cultura ha prodotto una fascia di cittadinanza che aveva il senso dello stato, che aveva il senso delle istituzioni, anzi, si è fatta carico di costruire le stesse istituzioni, sia sul piano dell’illuminismo laico, sia sul piano di tradizioni anche religiose, qindi cattoliche. Anche se lì la religione di stato non c’era, però c’era l’intellettualità prodotta.
Quindi, una società che si struttura in tre dimensioni. Vado in soldoni, capite quello che ho detto ha una stratificazione molto più… molto più… Va beh. Tre dimensioni di fondo. Quelli che nei confronti dello stato hanno un atteggiamento direi quasi servile, diciamo clientelare, diventano clienti. Dall’altro, quelli che sono esclusi, o non sono sufficientemente ben amministrati, o ritengono di essere marginali, e diventano ribelli. E poi un’Italia vasta, ma minoritaria che è quella dei ceti colti, intellettuali che hanno il senso dello stato e lo vogliono costruire. E si trovano in difficoltà perché si trovano tra il potere assoluto da una parte che non glielo permette e la cittadinanza, il basso popolo, che non li capisce. Per usare un emblema, l’illusione di Pisacane che vuol fare la rivoluzione.
Infatti, se un merito ha avuto il mazzinianesimo è stato quello di cercare di permeare la società, di arrivare alla società. A volte è stato presentato come un terrorista, ma la Giovane Italia è stata un tentativo pedagogico. Ecco, adesso viene da ridere, ci sono due persone che adesso fanno ridere perché si dimentica la loro grandezza. Parlando di Napoleone, oggi viene in mente Rascel e si dimentica chi è Napoleone. E si dimentica chi è Garibaldi. Non dimenticate l’uso che Craxi, quando voleva lanciare il PSI, ha fatto di Garibaldi, e nella costruzione del mito italiano l’antagonismo Garibaldi-Vittorio Emanuele. Questo è restato nella storia, e neanche il leghismo è riuscito a distruggere questo mito che si era creato, questo mito risorgimentale. E quando lo stato si è costruito ha lavorato su questi padri fondatori, era necessario dare un’origine.
Allora, tre parti, una partizione tripla, ma per semplificare, perché la situazione è molto più articolata, abbiamo i sudditi, i ribelli e i cittadini. Una costante è che il suddito onora il potere fin quando è beneficato dal potere; se il potere non lo benefica diventa ribelle. Cappotto di Berlusconi in Sicilia, primo partito Grillo dieci anni dopo. La cittadinanza, questo sempre e soprattutto nei territori dove più alta è la dipendenza e più ridotta l’autosufficienza. Quello che è uscito al sud, perché i cittadini sono molto più presenti al sud che al nord. Perché al nord c’è un’autonomia non tanto di cittadinanza, ma di ricchezza, per cui, pur essendoci flussi, sono molto più stabili, mentre i picchi sono noi dobbiamo registrarli al sud. Perché il nord è una società che è capace di autoriprodursi e quindi in qualche modo ha relativi margini di autonomia, quella del sud è una società dipendente.
Bene. Procedo velocemente perché è bene che le cose poi siano riprese nel dibattito. Finalmente arriva l’unità d’Italia, cioè l’Italia si unisce, diventa stato quando già le grandi nazioni europee sono imperi; noi diventiamo stato e quelli hanno già le colonie nel mondo, Capite che è un gap incolmabile. Però, avendo l’Italia una grande tradizione di cultura, di cittadinanza poi ce la fa; cioè non è fuori, ha antenne, contatti, per cui riesce non ad andare a pieno regime, ma a mettersi a pedalare e ce la fa, ce la fa l’Italia, resta una grande società. Aggancia i processi, però li aggancia così, secondo curve mobili: cioè alcuni ceti ci arrivano, altri no, non va a regime in modo completo.
Si fa questo stato unitario, e ci sono delle élite che lo fanno, élite di destra, la grande destra storica soprattutto, ed élite, diciamo, radicali, sociali. Però quando l’Italia si forma come stato, la storia dei parlamenti è modesta in Italia. Non è come l’Inghilterra che ha una storia parlamentare, non è come la Francia che durante la Rivoluzione francese ha fatto un sacco di costituzioni, continuavano a cambiare la costituzione. C’è quindi sostanzialmente un notabilato che non si sa fino a che punto è una rappresentanza delegata o un padronato locale trasferito al parlamento nazionale. E il padronato locale, il bravo padrone, il bravo padrone del potere della tenuta che ha egemonia nel contesto e ha un giro dei suoi simili che lo mandano lì. È un padronato locale che ha rappresentanza nazionale. Per documentare la cosa basta leggere il Gattopardo. Un potere aristocratico che si aggiorna e manda …
Quindi, queste erano persone serie, cioè volevano davvero far decollare l’Italia, non poteva essere diversa la loro provenienza perché ancora non esisteva un’articolazione matura della rappresentanza, però questi erano convinti, almeno nella maggior parte, che l’Italia si dovesse fare. C’era la frase di D’Azeglio: “Abbiamo fatto l’Italia, ora dobbiamo fare gli italiani”, era per molti di questi. Però l’elemento modesto era la democrazia, cioè non c’era una grande tradizione parlamentare.
Verso la fine dell’Ottocento, anche qui la situazione cresce, si sviluppa, nascono i grandi movimenti operai, l’Umanitaria… Non sto qui a raccontare, l’industrializzazione arriva anche in Italia, non è nata capitalista ma il capitalismo arriva anche in Italia, le grandi lotte agrarie e contadine, le leghe di origine cattolica, la sanità… Allora questi crescendo di forza cercano rappresentanza, cercano di sfondare. Però a quel notabilato fanno paura: i socialisti fin quando possono si tengono fuori, dall’altro lato i cattolici si tenevano fuori per i fatti propri, e si tenevano fuori per i fatti propri per il semplice fatto che c’era il non expedit. Quindi, c’è una situazione in cui la rappresentanza cresce, c’è un’implementazione della rappresentanza, ma non tale da creare dei dispositivi di alternanza, per cui il vecchio notabilato incrementato di alcune nuove figure anche popolari, si ricompone in se stesso, si riassetta. E allora abbiamo il trasformismo di De Pretis, vecchio campione della sinistra diretto a destra. Ecco, perché in qualche modo le dinamiche sociali hanno modificato la rappresentanza, ma non hanno creato blocchi che fossero davvero alternativi.
Però la partita era iniziata e stava andando bene. Tra la fine del secolo e gli inizi noi abbiamo già la costruzione di un grande partito liberale, abbiamo i cattolici liberali, il tentativo della chiesa di entrare come partito politico, pensate a Murri, quindi avere una rappresentanza politica come chiesa, la grande rivoluzione di Sturzo, e i cattolici organizzano un partito per la società. La funzione di Murri è ancora contraria.
Bene. Pare che le cose funzionino. Non è colpa dell’Italia, l’Italia si trova dentro alla guerra mondiale, nascono i fascismi. Dove nascono? Nascono in contesti dove le democrazie erano deboli. Ed erano deboli o perché non erano sufficientemente cresciute, come in Italia, o per veti incrociati, per meccanismi di rappresentanza bloccati che non hanno generato, ma certamente hanno favorito, l’ascesa di politiche identitarie e fondate soprattutto sul vittimismo: noi siamo stati umiliati dagli avversari. Questo Hitler diceva ai tedeschi e Weimar non riusciva a fare i governi per eccesso di frammentazione di rappresentanza. Quindi, da un lato c’era un vettore popolare molto forte e dall’altro c’era un’impotenza governativa. Non parlo di questo.
Comunque, la democrazia viene bloccata in questi paesi perché un partito diventa stato. Non voglio qui discutere sui totalitarismi, voglio soltanto dire che la guerra mondiale interrompe i processi democratici soprattutto in quelle tradizioni politiche in cui erano più deboli. Non accade in Francia, non accade in Inghilterra; anche lì c’erano stati fenomeni identitari para-nazisti, para-nazionali, anche l’Inghilterra li ha avuti, però c’era un assetto che teneva di più.
Bene, passiamo il fascismo. Finalmente, vado veloce, sembra che in Italia ci sia una grande alleanza di tutte le parti, di tutte le tradizioni per costruire finalmente, una volta per tutte, un’idea di stato e di cittadinanza, che è il grande patto costituente. Le élite politiche e le rappresentanze anche di grandi fasce popolari, perché ormai i partiti hanno preso la società, uniamoci insieme e costruiamo finalmente lo stato. Avevamo solo lo statuto albertino, facciamo una Costituzione: tutti d’accordo, facciamo una Costituzione. In base alla Costituzione, come modello giuridico politico, era possibile l’alternanza, la Costituzione lo prevede. Dove avviene il blocco? Avviene sul piano istituzionale? costituzionale? No, avviene sul piano storico, cioè sull’antropologia e soprattutto su qualcosa che dall’esterno si ribalta all’interno ed è la convention ad escludendum dei comunisti. Cioè a dire, l’alternanza teoricamente è possibile, la Costituzione la consente, però non è possibile nel fatto perché i comunisti se vincono distruggono quella stessa Costituzione che hanno contribuito a istituire. Questa è la campagna elettorale del ’48. Abbiamo fatto la Costituzione? Si! ma quelli non possono vincere perché sarebbero i primi a farla saltare. Quindi, il clima di guerra civile si perpetua. Allora è inevitabile che se quelli non hanno diritto a governare, noi abbiamo una situazione in cui si sviluppa un monocolore permanente con addendi secondari, che è la DC: la cui storia non è una storia negativa perché accanto a cose terribili, ha costruito l’Italia. Ha fatto welfare.
Perché è chiaro che se i comunisti non potevano andare al governo, gli operai esistevano, e quindi gli accordi sotto banco si potevano fare, quindi i comunisti non vanno al governo ma si assiste e si finanzia la Fiat, anche se in perdita, perché non si possono licenziare gli operai. La patologia del doppio binario, partito di lotta, partito di governo, che per dieci anni poteva funzionare, ma a un certo momento questa cosa non poteva funzionare più.
Allora, questo ha permesso un’elefantiasi del blocco consolidato e accordi sotto banco con il blocco avversario. Questo sul piano concreto ha prodotto un miglioramento della società italiana in termini di benessere, cioè, socialmente, l’Italia è cresciuta come condizioni di vita, molte povertà sono state eliminate, questo è un fatto. Non è cresciuta politicamente. Allora le forze, i rappresentanti, dovevano in qualche modo soddisfare gli interessi di un sistema, in una sistematica dove non potevano realizzarsi mai radicali ricambi.
A questo punto, già l’Italia era familista di suo, l’unico modo per sanare, per tenere buone le tensioni sociali è che ognuno desse un po’ a tutti a seconda del grado di potere che c’era nella società. C’erano poteri che tendevano a conservare se stessi, ma la Democrazia Cristiana, in quanto di origine decisamente popolare, doveva tenere conto anche degli altri poteri e doveva tenere conto anche delle altre esigenze. Allora vi fu una grande patologia, discussa molte volte, che il modello welfarista italiano si altera e dal modello di welfare che doveva incentivare lo sviluppo si trasforma in assistenza e quindi sostanzialmente in spreco.
E andando avanti, in assistenza a debito che è il debito pubblico che abbiamo noi, dove si è distribuita più ricchezza di quanta non se ne producesse. Questo ha tenuto buona la società, non ha fatto scoppiare la rivoluzione. Qualche grande manifestazione sindacale, ma nulla di più. Insomma, che Agnelli e Lama si parlassero lo sanno tutti, lo sapevano gli extra parlamentari, i quali da extra parlamentari non è che avessero un modello diverso dal parlarsi di Lama con Agnelli. Perché il minirelativismo minoritario a sinistra in Italia c’è stato sempre. E lo stesso Gramsci si è pentito della scissione di Livorno.
Verrà il momento in cui gli storici si chiederanno se è stata solo una questione di forza maggiore o una miopia politica se Nenni ha fatto il blocco del popolo nel ’48, se non potesse nascere una tradizione socialista non sovietica. Perché noi non abbiamo avuto un Mitterand? E abbiamo avuto Bertinotti? È la democrazia bloccata che da un lato, per ragioni o per necessità si accordava e produceva bene pubblico, dall’altro lato una minoranza non integrata, non integrabile che faceva scissioni, e alla fine scissioni di scissioni. Perché Garavini si scinde dal PdS appena nato e manco passano pochi mesi o un anno che Bertinotti si divide da Garavini?
E intanto la società, a fronte di queste scissioni di scissioni, diventa sempre meno politica, cioè non ci crede. Esemplare è l’abbaglio degli interpreti del referendum Segni, perché il referendum Segni prepara tangentopoli.. Perché i partiti, eccetera eccetera, Parisi, hanno interpretato quel voto: gli italiani vogliono una multplicazione della rappresentanza, non è vero. Quella è stata un’occasione per dare un colpo ai partiti che venivano odiati. Cioè la votazione del referendum Segni non è un atto istituzionale, ma è l’anticipazione di tangentopoli. Allora, Parisi e gli altri si sono ringalluzziti, gli italiani sono diventati maturi… Ma quando mai!
In questa situazione l’elefantiasi del blocco dominante, della DC ecc. ecc., non ha prodotto un ricambio per alternanza, ma ha prodotto un ricambio per generazione, ma tutti della stessa razza. E quindi non c’era un ricambio di mentalità, c’era un ricambio di età. Per cui è arrivato Goria, ricordate il giovane Goria, una specie di Renzi dell’epoca, con la differenza che Goria era stato promosso dalla DC, ma era stato promosso dalla DC anche in quel momento perche la DC era in una fase di impasse, altrimenti Goria non avrebbe fatto il presidente del consiglio. I governi monocolore, Leone…: i più vecchi qui queste cose le sanno. Cioè, era un elemento di accordi continui e se il vento che avvolgeva un dirigente cambiava, era perché cambiavano le generazioni.
Non solo, ma non essendoci una mutazione per alternativa, i vecchi non se ne andavano, perché il problema non è vecchi o giovani, il problema è alternanza di posizioni. Cioè, se va via un leader di sessant’anni e vince un capo partito di sessant’ anni della parte diversa, questa è giovinezza, perché la giovinezza è data dal ricambio, non dall’età del leader. Questa celebrazione del giovanilismo è un segno di patologia, perché la giovinezza è data dal rinnovamento dei programmi di governo e delle forze che prima non c’erano ed entrano. Questo è il ringiovanimento dal punto di vista della dinamica sociale. Perché fare governi di soli giovani di per sé non è un ringiovanimento. Può essere anche una meschinità, anche se poi nella sostanza un ringiovanimento anche di età fa sempre bene, ma per avere informazioni sul caso, basta rivolgersi a un geriatra che ci da buoni consigli.
Quindi, il sistema tangentopoli era inevitabile in un sistema bloccato, perché è come quando l’esofago si gonfia, si gonfia e poi esplode. Era inevitabile in un sistema bloccato. Parlavo con Michele Salvati e con altri, con Onida, e si diceva: “Non è vero che è un problema della rappresentanza, perché la rappresentanza dopo tangentopoli c’era la possibilità di cambiarla”. Anche qui, formalismo giuridico, c’era certo la possibilità di cambiare, ma c’era anche prima. Bisognava vedere se socialmente c’era la possibilità di cambiare. E come fai a cambiare se dopo tangentopoli, anziché svilupparsi una cultura della cittadinanza, viene fuori l’onda lunga dell’antipolitica? I giuristi e i costituzionalisti possono essere molto bravi nella formulazione delle regole, ma molto poco nella comprensione dei processi sociali.
E la fine che ha fatto Zagrebelsky e il suo gruppo è la conseguenza evidente che non hanno capito quello che stava succedendo nella società. Cioè uno che prende sul serio Paolo Flores come fa a capire i processi politici? Uno che legge Micromega come fa a capire i processi politici? Si gratificano perché c’è un articolo su Darwin, come sono bravo… Perché è una matrice nutrita da risentimento. Come si fa a fare una politica di cittadinanza sul risentimento? Come crei cittadinanza sul risentimento?
La grande tradizione comunista, quando ha cercato di entrare nello stato, ha cercato di sviluppare una cittadinanza matura per la legittimità democratica, la grande intuizione (?) nella testa di Berlinguer è questa, cioè rendere il partito maturo per il governo. Poi ha avuto paura, anche perché aveva paura che gli facessero una scissione: dopo il Cile non basta il 51%. Nelle democrazie normali basta il 51% per vincere. Ma, evidentemente, aveva la percezione che nella società non si poteva fare, e in Italia eravamo più Cile che in Europa se dice quell’espressione lì. Non si riesce a fare un’alleanza a sinistra, lasciamo stare che ci sono delle responsabilità, ma era quello che doveva accadere per bloccare il sistema; quello doveva accadere. E non è accaduto. È colpa dei leader? Sì, anche, ma di una società italiana dove la dimensione della cittadinanza era minoritaria rispetto a quella della clientela e della ribellione.
Vado a concludere, o per lo meno non a concludere, ma ad aprire la discussione. Quando finalmente, dopo tangentopoli si è aperto il campo, siccome si è sviluppata l’antipolitica, si è sviluppato nella cittadinanza un altro spirito che è stato quello giustizialista. Lo spirito giustizialista ha impedito il costruirsi di una mentalità alternativa, che ha significato antipolitica e dentro tutti. E la sinistra che non è capace di fare la sinistra nella società, cioè di costruire un’alternativa vera, fa da supporto alla politica giudiziaria, dove il tema fondamentale era ed è Berlusconi, un interlocutore illegittimo. Per molti versi anch’io. Però avrebbero dovuto impedire che si candidasse prima, non dire che è illegittimo dopo che ha preso venti milioni di voti. Ma perché prima non lo hanno impedito? Perché ritenevano che la grande macchina da guerra potesse vincere per i fatti suoi, sottovalutando l’avversario. Ma questo vuol dire operare sulla cresta, non capire i processi profondi del DNA degli italiani. Quindi, un ceto politico che, rispetto a Togliatti, Chiaromonte, De Gasperi, Fanfani, era totalmente inadatto a capire i processi. Erano più intelligenti quelli e cretini questi, oppure quelli si trovarono a operare in una società ancora a bassa complessità e questi si trovano a operare in una società ad alta complessità che non controllano e che ha dinamiche cibernetiche che sfuggono al loro punto di vista? È un’inadeguatezza dei singoli o è un’inadeguatezza dei sistemi democratici moderni rispetto a una dinamica dei processi reali? Se è così, il discorso deve essere proseguito a questo livello di profondità.
Ora, se anziché proseguire sul discorso a questo livello di profondità, noi abbiamo Renzi sì, Renzi no, abbiamo gli insopportabili articoli di Scalfari ogni domenica che una volta parla del papa, una volta parla contro Renzi, una volta parla del papa contro Renzi, e ha vissuto di rendita parlando male di Craxi, e poi di Berlusconi… E mentre l’Unità, organo del grande partito di formazione della sinistra e dei quadri dirigenti della sinistra muore, l’organo della sinistra è diventata La Repubblica?
Concludo dicendo: il problema è Renzi? Ma Renzi è lì perché tutti i partiti di questa storia repubblicana erano arrivati alla frutta, erano tutti con l’acqua alla gola, sono con l’acqua alla gola. Cioè, Renzi emerge nel vuoto totale perché nessuno è capace di fermarlo. Anzi, alcuni non possono che aggrapparsi a lui perché quanto meno l’alluvione è pubblica. E contrariamente a quello che si dice, Renzi prende tutto, ecc. ecc., Renzi allo stato è debolissimo. Se dal 40% il consenso di Renzi scendesse al 30%, come faine lo distruggono in una settimana.
Qui non si tratta di appoggiare Renzi, teniamolo là. Però nel frattempo, finalmente cerchiamo di capire come siamo fatti e di individuare e costruire processi nella società che finalmente sblocchino la democrazia italiana. Probabilmente, siccome l’Italia è cambiata sempre per rinculo, cioè quello che succede fuori, ecc. ecc., la globalizzazione e la situazione drammatica in cui si trova l’Europa, forse queste sono le dimensioni che cambieranno lo schema, perché così come stanno adesso le cose non è l’Italia che deve cambiare, ma deve cambiare l’Europa. E probabilmente se cambia l’Europa, cambia anche l’Italia. Ma qui la partita si fa molto alta, perché l’Europa gioca la sua partita sullo scacchiere mondo. E nello scacchiere mondo se noi consideriamo quello che sta succedendo nel mondo, il peso dell’Europa è molto, molto modesto.
Su questo il lavoro da fare, noi, quanto meno, ne dobbiamo fare uno che possiamo fare noi, poi chi vivrà vedrà… Qual è quello che possiamo fare noi? Cercare di capire e per capire bisogna guardare gli strati profondi dei mutamenti sociali e leggere il giornale tra un cappuccio e un caffè e basta.