La presentazione segue uno schema molto semplice. Si divide in due parti: nella prima espongo il contenuto del libro, servendomi di ampie citazioni, nella seconda, molto più breve, problematizzo alcuni passaggi e pongo alcune domande, a Natoli e a noi tutti, in modo da stimolare subito la sua reazione e aprire il dibattito.
Certamente Progresso e catastrofe è innanzitutto un libro di filosofia che discute con molta finezza soprattutto il pensiero di importanti autori dell’epoca moderna, quali per es. Hobbes, Locke, Pascal, Leibniz, Rousseau, Kant e altri (che io nella mia presentazione lascerò sullo sfondo).
Progresso e catastrofe però è anche un libro funzionale al nostro seminario di formazione politica, e forse proprio perché non si occupa direttamente di questioni di attualità politica. Il libro ci dà infatti un quadro epocale in cui inserire tali questioni, ci dice quale fase storica stiamo attraversando, come si configura l’essere dell’uomo in questa fase e quale possono essere il suo progetto e la sua speranza. E siccome la politica non è tutto sommato altro dall’elaborazione sociale della “speranza umana” o se volete del “progetto umano”, allora non sarà difficile trarre, partendo dalla proposta di Natoli, strumenti efficaci per intervenire nella concretezza della situazione attuale. Ed è quello che cercherò di fare nella seconda parte della relazione.
Prima parte
Progresso e catastrofe è composto da cinque capitoli. Il primo si intitola Del tempo e della storia e segna l’argomento profondo del libro, che è una meditazione sul tempo e, a partire dal senso del tempo, sul significato della storia. Si tratta precisamente di comprendere il significato globale della storia del nostro secolo per arrivare a comprendere e identificare la nostra contemporaneità, l’essere quello che siamo noi (collettivamente) qui (nell’occidente industrializzato) oggi. Ma comprendere il significato globale della storia del nostro secolo sarà possibile soltanto, come vedremo, se riusciremo a cogliere il movimento del pensiero che sta oll’origine della storia del novecento.
Natoli prende avvio da alcune note definizioni. Perché, si chiede Natoli, il novecento è stato definito “secolo breve”? «Breve rispetto a che cosa?… E’ evidente che questa sensazione non ha niente a che fare col numero degli anni, ma può avere almeno due ragioni: una relativa alla quantità degli eventi, l’altra alla velocità dei processi»(p.13).
E’ quasi come se il novecento fosse un secolo “compresso”, in cui il tempo si è velocizzato e ha contenuto molto di più di prima, ha in qualche modo compresso gli eventi. Pensate a una persona che sia nata all’inizio del secolo e morta alla sua fine, quanti cambiamenti ha vissuto, quale ricchezza straordinaria di mutazioni ha potuto percepire. Ma questa fortissima accelerazione che è avvenuta nel novecento sembra essere, scrive Natoli, “una corsa verso la fine”: per esempio verso la fine di un certo senso del sacro, verso la fine delle ideologie, verso la fine della dimensione etica, verso la fine della politica. E se questo è vero allora dobbiamo cercarne le cause, cercare di capire che cosa, quale processo di base, veramente il nostro secolo porta a compimento.
Natoli ricorda che «vi è un’altro termine per identificare la nostra contemporaneità…: postmoderno»(15), e il termine “postmoderno” intende significare che la nostra attualità, la fine del novecento, si caratterizza per «la fine delle grandi narrazioni: cristianità, progresso, finalità della storia. In breve – scrive Natoli – il postmoderno è caratterizzato dal declino del mito dell’uno. Il disfacimento dell’intero lascia spazio alla pluralità, al frammento, alla contaminazione, alla deriva». Direi insomma che il postmoderno è caratterizzato dalla “mancanza di orientamento”, siamo un po’ come naviganti che hanno perso la bussola, che non sanno dove vanno e quindi si lasciano inevitabilmente trascinare dalla corrente, o dalle correnti più forti. Ma prima di analizzare i sintomi di questa crisi (che è crisi di identità per noi tutti), vediamone le radici.
Innanzitutto «la “voce” post-moderno dice che il moderno in qualche modo è finito». Ma che cosa caratterizzava la modernità, l’età moderna? E quando e come è cominciato il suo declino? Scrive Natoli:
«per affermare con cognizione di causa che il moderno giunge alla fine, deve pur esserci stato qualcosa che è stato, appunto, “il moderno”. Devono esserci dei contrassegni che lo significano. Nel consumarsi di un’epoca non è affatto chiaro dove si va, si ha, però, la percezione di uno sfilacciarsi, d’un venir meno. E allora, quando il moderno è nato, e come? Lungo quale traiettoria si è svolto? E come, ammesso che finisca, viene finendo? Per esaurimento, consunzione, vecchiaia? O perché viene scatenando entro di sé terribili controfinalità?»(20)
Cosa è stata dunque la modernità, quali valori l’hanno caratterizzata, perché è finita, cosa l’ha sostituita? E questo per capire da un lato perché il novecento sia stato un secolo così strano, un secolo caratterizzato sia da orrori disumani (il secolo di Auschwitz e di Hiroshima), sia, almeno in alcune regioni del mondo, dall’ampliamento dei diritti e dall’innalzamento abbastanza generalizzato dello standard di vita, e dall’altro lato per capire cosa possiamo fare noi ora che stiamo uscendo da queso secolo (che ci lascia comunque in eredità grandi povertà materiali e morali), e che senso abbia e se abbia senso costruire un nuovo progetto di cambiamento sociale.
Allora vediamo cosa caratterizzi la modernità, lo spirito moderno, e la risposta è chiara: «se si vuole identificare in modo semplice e preliminare che cosa è moderno, lo si può riconoscere sotto la voce ‘progresso’, dato che il moderno si annuncia proprio come ‘età del progresso»(23), infatti «La modernità si annuncia, nel suo inizio, come possibilità di un illimitato progredire»(25)
Ora il progresso rende il moderno riconoscibile rispetto alla tradizione che lo precede e contro cui nasce: il cristianesimo, per il quale la pienezza dei tempi coincide con la fine del mondo, non col suo illimitato progredire. Per spiegare la relazione tra spirito progressivo del moderno e spirito cristiano come antagonista Natoli prende posizione nel dibattito sull’idea di secolarizzazione: «La parola saeculum – ricorda Natoli – equivale a ‘vita mondana’» e il saeculum è dunque il tempo del mondo. Dire allora che la modernità si inscrive o equivale al processo di secolarizzazione vuol dire che il progetto moderno presume una sfruttabilità illimitata del mondo, nel senso che ha la volontà di prolungare illimitatamente il tempo del mondo in forza della sola iniziativa umana.
Ma proprio in ciò fondamentalmente il moderno porta in sé la propria crisi, perché nel “moderno” convivono due tensioni che si contraddicono: da un lato appunto la realizzazione dell’uomo non viene pensata più come una liberazione dal tempo (come avveniva per il cristianesimo, che prometteva un tempo nuovo privo di dolore e di morte), ma come una conquista del tempo, cioè come progresso illimitato del benessere e della felicità, ma dall’altro lato e insieme al priimo, la modernità ha a suo modo preteso di portare a compimento la storia, di dare davvero la felicità agli uomini, di non differirla nel tempo (e questo perché in fin dei conti il moderno è pur sempre figlio del cristianesimo e porta con sé l’ansia di salvezza e di redenzione propria del cristianesimo), come è evidente nel giacobinismo rivoluzionario e nel marxismo.
Ed è proprio tenendo conto di questa irrisolta tensione interna alla modernità tra progresso illimitato e compimento della storia che si spiega una vicenda essenziale del novecento: scrive Natoli: «nel novecento – ‘secolo breve’ – il moderno perviene al massimo della sua accelerazione e ritiene di poter conquistare il futuro… Ma nel momento stesso in cui con un colpo di mano s’intende chiudere la storia, il futuro si mostra irraggiungibile, la pretesa di una sintesi totale si svela impossibile… L’istanza di chiusura è l’ambizione teologica che sopravvive nel moderno e che rende traumatica e convulsa la sua fine. In ciò il moderno brucia una delle sue anime…L’impresa di dare una direzione compiuta alla storia si mostra vana. Ma è proprio nel vanificarsi di questa pretesa che il moderno dà libero corso all’altra sua anima: il progredire come apertura infinita e perciò “senza fine” e “senza meta”» (45-46)
Ecco dunque la nostra situazione attuale: dopo i totalitarismi, che sono stati per certi aspetti l’eccesso della pretesa di dare compimento definitivo alla storia, ecco lo smarrimento «e in questo ambito – scrive Natoli – si verifica la nascita dell’uomo contemporaneo. L’uomo di oggi chiamato a tenere testa all’improbabile, a dominare, per quel che può, la contingenza»(48).
Nel secondo capitolo, I secoli cristiani, Natoli compie un approfondimento di carattere teoretico che ha per tema “l’esperienza del tempo” e il senso, o non-senso, del male. Se questo fosse un seminario di filosofia mi fermerei soprattutto su questo capitolo e su quello seguente, che si intitolaGiocare la natura contro se stessa e mette a tema il concetto di “infinito”. Ma a noi ora interessa vedere cosa emerge, da questa analisi raffinata, relativamente al problema politico, della forma attualmente possibile della politica.
E rispetto a ciò Natoli mostra come l’idea di progresso, che come abbiamo visto definisce lo spirito della modernità, sia più profondamente legata al cristianesimo di quanto possa sembrare a una prima analisi, perché è il cristianesimo che pensa il tempo non più come un ciclo ritornante su se stesso, bensì come una direzione di senso che procede verso un compimento, e mostra anche come, con la crisi dell’idea moderna di progresso, cambi l’idea che noi contemporanei abbiamo del tempo. Scrive Natoli: «Le ideologie del progresso, oggi dileguate e le rivoluzioni, che hanno caratterizzato la tarda modernità, avevano come loro obiettivo la redenzione del tempo: il loro programma era muovere alla conquista del futuro. Progresso e rivoluzioni volevano inaugurare un avvenire inteso come tutto il tempo a venire, volevano inaugurare una durata illimitata, abitata da un’umanità liberata e felice. Gli uomini contemporanei, nell’evanescenza dell’idea di progresso, non intendono minimamente redimere il tempo. Per essi l’avvenire non è termine di una conquista… Gli uomini d’oggi non tendono a redimere il tempo, meno che mai a dare un destino alla storia. Talvolta cercano di redimersi dal tempo. Di qui la fuga dalla concretezza del presente – inteso come l’ambito ove si prepara il futuro – per l’esaltazione dell’attimo assoluto (ma se è così allora è ancora possibile la politica? recuperare la solidarietà tra generazioni, il senso dell’oltre se stessi) In fondo di ‘momenti’ senza il giorno dopo» (79-80).
Inoltre l’epoca moderna lascia in eredità a noi contemporanei la forma secolarizzata di un’altra idea tipicamente cristiana, quella di infinito. Nell’epoca moderna, scrive Natoli, «L’infinità di Dio si muta nell’aperto innanzi a noi… L’infinito dei moderni è impresa. E tuttavia non è solo lo spazio aperto di un illimitato andare, è anche il luogo di un perpetuo spaesamento» (137-138). Da questo senso dell’infinito deriva la nostra eredità, che è fatta da un insieme di delirio di onnipotenza (per cui, per esempio, pensiamo che attraverso la scienza e tecnologia davvero tutto sarà possibile, compresa magari la nostra immortalità attraverso la clonazione di noi stessi), e di insoddisfazione per un sentimento di ineliminabile incompletezza: l’uomo contemporaneo sa che non riuscirà a realizzare la perfezione nel mondo, e che l’evoluzione tecnologica è anche pericolosa e incontrollabile, e non produce soltanto maggiore eguaglianza, ma anche maggiore diseguaglianza sociale.
Il quarto capitolo di Progresso e catastrofe si intitola L’ideologia del progresso, e mostra come il progresso divenga una categoria storica, e precisamente come divenga un “orizzonte d’aspettativa” in particolare durante il settecento, l’età dell’illuminismo. Ora il progetto illuminista, che è uno dei culmini della tensione politica della modernità, «rivendica – scrive Natoli – un’autonomia incondizionata della ragione che gli consenta di reperire i mezzi più idonei (scienze, tecniche, arti) al perseguimento del benessere privato (felicità personale) e dell’interesse pubblico (società e istituzioni)» (175). Quale sarà allora l’azione dell’intellettuale illuminista, dell’uomo politico illuminista, del “sovrano illuminato” dal consiglio del filosofo? sarà quello, innanzitutto, di cercare per mezzo della luce della ragione di eliminare i pregiudizi «dove il clero, le scuole, i governi e le antiche corporazioni li avevano raccolti» (come scrive Condorcet). Ma perché questo progetto non è più attuale? Perché è fallito? I motivi sono complessi, ma soprattutto il progetto fallisce perché la “ragione” da elemento di critica si trasforma in elemento di dominio, «e domina – scrive Natoli – perché ritiene di averne titolo. A differenza di altre visioni del mondo, si presenta come un “progetto razionale”, perché costruito su princìpi certi… Una “ragione” siffatta non può essere giudicata che da se stessa…. Essa, pertanto, ribadisce il proprio potere anche di fronte all’errore. E non può mai uscire fuori di sé» (184): delirio di onnipotenza della ragione, insomma. E questo delirio di onnipotenza fa perdere di vista il fatto che ci sono molte cose che non sono riconducibili all’imperio della ragione, e che tra queste c’è innanzitutto il potere, e in particolare l’intreccio tra sapere e potere. «Non si tratta tanto – scrive Natoli riferendosi a Kant e a Foucault – di disporre di un puro sapere che critica il potere, quanto di una critica che porta ad evidenza l’intreccio fitto e per molti versi inestricabile tra potere e sapere» (188). Infatti anche il potere non coincide con il potere politico, anzi non esiste “il” potere, esistono “i” poteri, che durante l’età moderna si differenziano progressivamente e si assestano in rispettivi domini e con un rispettivo sapere: il sapere-potere dell’economia, il sapere-potere della scienza, il sapere-potere dell’ideologia ecc. Ed è questa la nostra situazione attuale: numerosi saperi-poteri che si sono specificati, specializzati e che sono in concorrenza l’uno con l’altro (oggi sembrerebbe prevalere il sapere-potere dell’economia) nell’assenza di un disegno comune che li comprenda. E tra questi anche il sapere-potere della politica, che nella modernità, da Machiavelli in poi, è via via diventata sapere-potere autonomo, slegato dalla morale. (quale è allora oggi la funzione del pensiero, e del pensiero politico in particolare, di quello insomma che noi cerchiamo qui insieme, di fronte a questi saperi-poteri ormai tanto più persuasivi quanto più occulti? Si tratta solo del compito importante, ma residuale, di demistificare costantemente l’intreccio tra sapere e potere, oppure è ancora possibile un pensiero politico che tenti di costruire un quadro comune di riferimento per i vari saperi-poteri, per finalizzarli al bene comune? Ed è ancora possibile parlare di bene comune? e se sì, in che senso?).
Il quinto e ultimo capitolo di Progresso e catastrofe si intitola allo stesso modo del libro e mette a tema il confronto tra l’idea di progresso, che abbiamo vista analizzata in profondità, e l’idea di catastrofe. Ma cosa vuol dire catastrofe? «La “catastrofe” – spiega Natoli – può essere intesa in due modi. Nell’accezione corrente, di senso comune, catastrofe è sinonimo di rovina. Dopo la catastrofe non resta più niente o, quanto meno, niente di utilizzabile… Ma il termine catastrofe possiede un altro e più preciso significato: vuol dire, sì, rivolgimento, ma nel senso di “cambiamento di direzione”, svolta. La catastrofe, così intesa, non significa passaggio al niente, bensì è sinonimo di trasformazione» (196). Allora, in questo secondo senso, catastrofe significa anche novità, avvento del nuovo: un certo ordine, un certo equilibrio, non tiene più, e perciò ad esso segue una mutazione di forma, la comparsa di una novità: «Quando un’epoca raggiunge un punto elevato di instabilità, esce da sé. Ma non precipita nel vuoto. La fine del moderno – ad esempio – non consente più di interpretare la storia in termini di progresso, ma non abolisce affatto il tempo. E neppure la stessa storia. Essa pone le condizioni per una diversa esperienza della temporalità». Ma quale può essere questa forma nuova di esperienza della storia e di pensiero della politica? Come dobbiamo interpretare la catastrofe? Si tratta ancora una volta di chiedersi: come possiamo oggi conciliare l’autoaffermazione del singolo individuo con l’autoaffermazione dell’uomo in generale, dell’umanità nel suo complesso? E’ questa forse la domanda fondamentale. Ma che senso ha oggi, dopo la fine della modernità, porsi questa domanda? «L’individuo – scrive Natoli – che sta a fondamento della concezione politica dei moderni … è una casella vuota, una funzione di cittadinanza. Nel moderno, in linea di principio, ogni individuo è titolare di diritto. Nei fatti non tutti godono dei diritti. Uno dei motivi dominanti del moderno è dato dalla lotta infaticabile per estenderli…Una lotta senza quartiere per l’inclusione sociale. E’ qui la verità del marxismo: la rivendicazione dell’uguaglianza come condizione previa per l’estensione del diritto. La libertà si scontra con l’uguaglianza. Dilemma a tutt’oggi irrisolto» (204-205) E’ questo il quesito che ora più che mai ci interroga: come conciliare la libertà del singolo con l’estensione dell’uguaglianza? Nel quadro della dialettica tra l’emancipazione di tutti, e il successo dei pochi si può leggere la storia delle politiche sociali del secondo novecento, con il decisivo intervento “politico” dello Stato: «A fronte della pressione delle masse – scrive Natoli – i modelli liberali classici non hanno retto. Oggi si parla tanto di trionfo postumo del liberalismo. Se ne parla con una certa leggerezza. Il neoliberalismo contemporaneo ha un significato molto diverso dall’assetto liberale classico. Viene dopo il welfare – lo Stato del benessere – , dopo la grande egemonia laburista e socialdemocratica che ha caratterizzato la seconda metà del secolo… I modelli neoliberali avanzati, ad inclusione avvenuta (ma davvero è avvenuta?), sono ben diversi da quelli ove era altissimo il tasso di esclusione. E fino a che punto sarebbe stata possibile l’inclusione sociale senza l’intervento dello Stato? D’altra parte i grandi successi e la lunga durata del welfare sono stati possibili poiché questo modello di sviluppo ha realizzato l’inclusione sociale senza infrangere il quadro giuridico-istituzionale (libertà e rappresentanza) d’impianto liberale. Socialdemocrazie, liberalsocialismo e cattolicesimo sociale sono state le varianti di questo assetto» (208).
Ma oggi anche il welfare e le sue politiche sono in crisi, e anche la forma-partito, che per queste politiche ha costituito la forma di rappresentanza, non pare più essere un mezzo efficace di inclusione sociale, non pare più capace di dare voce alle esigenze profonde dei contemporanei. Stiamo di fatto vivendo un transito in cui i valori tipici della modernità (eguaglianza e libertà) non riescono più a unirsi, si incontrano senza sintetizzarsi: «Non v’è dubbio – scrive Natoli – la modernità ha ampliato gli spazi di cittadinanza, ha permesso a organizzazioni – e perfino a gruppi e singoli – di patteggiare le proprie posizione nella società. Ha davvero reso gli uomini più liberi. Ma la libertà è anche un rischio. L’uomo del novecento oscilla tra istanze forti di libertà e bisogno di protezione. Quest’oscillare è rilevabile, ad esempio, nelle richieste, spesse volte contraddittorie, di meno Stato e di maggiori aiuti dallo Stato. E’ presente in ambiti diversi della vita sociale. Tutto ciò accade perfino nei legami affettivi e nelle relazioni personali. Si sente bisogno di avventura, i partners si cambiano come i vestiti. O almeno lo si vorrebbe… A fronte di questo si sente però il bisogno di legami familiari, si teme la solitudine… Si esige che le famiglie vengano tutelate, mentre la società, in ogni momento, le scompagina» (226-227).
E nemmeno ci sono più finalità chiaramente condivisibili, in quanto non esiste più un tempo unico in cui la storia scorre, e tanto meno una direzione di tale scorrere, bensì tempi diversi per le diverse realtà, strutture, occupazioni, desideri. Il mondo, insomma, non è più sintetizzabile, è irrimediabilmente plurale: «Il contemporaneo pende sull’abisso…L’uomo non tocca mai terra; si trova sempre sulla frontiera» (232-233). L’unica prospettiva che sembra rimanere all’uomo contemporaneo è quella di «ottimizzare il proprio presente», per sfruttare per quanto possibile le risorse di felicità offerte da un sistema la cui complessità non è più dominabile. Ricorda Natoli al proposito che un sistema è complesso quando non è più possibile collegare ogni suo elemento con ogni altro, e ciò significa che il sistema complesso non è trasparente, non è comprensibile nei suoi intrecci e nelle sue modalità di funzionamento perché non se ne può avere una visione globale. E nella società contemporanea occidentale ciò comporta esclusione sociale: tanto meno accedi alle informazioni minimali necessarie per comprendere il sistema, tanto più sei escluso dalla sua gestione. Scrive infatti giustamente Natoli che «nella società contemporanea l’esclusione non è tale in termini di diritto, ma d’informazione. E la differenza d’informazione dipende da un impedimento non all’accesso alle fonti – gli uomini nella loro storia non sono mai stati così liberi – ma alla capacità del loro uso» (239-240). Forse questo sarà il problema politico per eccellenza del nostro futuro: la gestione, o se vogliamo il “buon uso”, di una mole di informazioni non più dominabile: «Quanto più ampia è la ‘massa di informazioni’ scrive Natoli, tanto più si fa esperienza dell’incompiutezza del sapere e dell’opacità del mondo» (240). Di fronte alle possibilità ideali sterminate che i mezzi di comunicazione di massa ci offrono, come facciamo a trovare una sintesi, come facciamo a convincerci che “una” strada è quella migliore, e a sceglierla con determinazione? E’ su queste considerazioni che si innestano le proposte finali di Natoli.
Per la gestione politica della complessità contemporanea Natoli propone un’etica del finito , che è insieme inevitabilmente un’etica che accetta consapevolmente il rischio dell’errore: «Il compito degli uomini – scrive Natoli – non è più quello di dirigere la storia, ma di dominare il contingente. Non si tratta più di assecondare il criptofinalismo delle tendenze, ma di eleggere, a partire dalla situazione in cui si è, fini perseguibili», in quanto «anche ammesso che il mondo non abbia senso, l’uomo è quell’ente che è apparso per conferirglielo» (247-248). E la logica adatta per dominare la contingenza è quella della congettura, bisogna allenarsi a ragionare così: «come cambia la mia condizione, se introduco una variabile “x” in quella data?»
Questioni
Pongo ora alcune domande molto semplici, per aprire e stimolare il dibattito.
1) Natoli ci insegna che politica oggi è gestione della contingenza. Domando: la parola “contingenza” cosa indica innanzitutto? Perché a un certo punto Natoli scrive: «Ciò di cui gli uomini sono competenti sono i propri desideri. La cosa accade da sempre, ma nella società contemporanea è divenuta una questione decisiva e prepotente in forza dell’accresciuta libertà … Gli uomini amano “chi” e “ciò che” li soddisfa…In tale frangente un sistema politico funziona quando è nelle condizioni di soddisfare i desideri dei più» (240-241). Ora se è così vedo per la politica, se la politica è progetto di trasformazione della realtà, solo uno spazio residuale, perché quasi sempre il desiderio è indotto (spesso da una politica-spettacolo), e la libertà non si accresce bensì diminuisce. Non è possibile invece, chiedo, che la contingenza si configuri innanzitutto come insieme di bisogni sociali? Forse solo partendo dai bisogni di chi ho di fronte, e rispetto ai quali devo provare a costruire un progetto di soluzione, che posso comunicare un’idea, farla diventare senso comune, progetto, organizzazione, militanza. Un progetto che non c’è già prima della “fase”, della contingenza, ma che ad essa si adegua.
2) Ora forse se si parte dai bisogni si possono individuare forme nuove di antagonismo sociale, e quindi sfuggire all’omologazione delle coscienze, cioè sfuggire da quella libertà soltanto esteriore che domina l’interiorità. Ma non tutti i bisogni vanno soddisfatti dal progetto politico, perché allora verrebbero equiparati i bisogni ai desideri, e la politica diventerebbe soddisfazione del desiderio, qualsiasi esso sia. Ecco allora la seconda domanda a Natoli: come individuare i bisogni essenziali, che richiedono una risposta “politica”? E per compiere questa operazione non è forse necessario “parlare ancora” di bene comune, cioè del “concetto” politico per eccellenza?
(e da qui vengono alcune domande: quali sono le nuove forme di esclusione sociale, di esclusione reale dai diritti di cittadinanza? ritieni possibile una politica dell’inclusione nel diritto di cittadinanza che salvaguardi le differenze senza omogeneizzarle, ma mettendole in dialogo e in competizione? ecc)
3) Infine: quale può essere oggi la funzione del pensiero politico di fronte ai saperi-poteri ormai tanto più persuasivi quanto più occulti? Si può secondo te cercare di cogliere e denunciare le dinamiche della aggregazione dei poteri, più che la loro scomposizione? Per esempio quali sono oggi le forme di intreccio tra potere economico e potere politico? E in contrapposizione a tali poteri il rischio da correre oggi non è forse quello di proporre, certamente andando controcorrente, una dimensione ideale forte, oserei dire “etica”, della politica? Si fa politica con l’esistente, come in fin dei conti sosteneva Cacciari, o si costruisce l’esistente con la politica?
creare un sistema delle responsabilità: non chi non è “efficiente” ma chi non è “professionale” deve perderci, e viceversa
la politica-spettacolo ha sostituito la riflessione politica
desiderio di politica e politiche del desiderio
quali sono le nuove forme di esclusione sociale? come conciliare realpolitik e utopia?
cittadini-consumatori (non demonizzare il consumo e il denaro) politiche del consumo e non del consumismo, dell’uso e dell’utile e non dello sfruttamento
politica delle energie e delle responsabilità e non delle garanzie e dei privilegi di posizione
quale politica dello stato: politica come authority
quali progetti per la politica da questa analisi
rilancio etica-politica
Cacciari: realismo e utopia
Berlusconi comizio alla fiera di Verona il 19 febbraio con Bossi: sull’alleanza con i radicali “So che queste forze sono lontane da noi per la difesa della vita, la concezione della famiglia, il divorzio, l’aborto e la droga. Tuttavia se uno è tifoso del Milan e l’altro dell’Inter non è possibile comunque realizzare insieme grandi cose?” (Rep. 20-2)
altro che etica del finito e navigare nel transito, ci vogliono ideali e grandi idee
per fronteggiare il caso ci vuole un ideale
I modelli neoliberali avanzati, ad inclusione avvenuta (ma davvero è avvenuta?)
per l’esaltazione dell’attimo assoluto (ma se è così allora è ancora possibile la politica? recuperare la solidarietà tra generazioni, il senso dell’oltre se stessi)