Roberto Diodato presenta: Salvatore Natoli. La felicità di questa vita.

Lo scorso anno ho presentato un altro libro di Salvatore Natoli, Progresso e catastrofe, il quale si concludeva con la proposta di un’etica del finito ancora da pensare. Con questo suo nuovo libro Natoli ci dà proprio quell’etica del finito a cui aveva accennato. Ma non solo: La felicità di questa vita è anche quasi un manuale per la felicità, ci esorta a praticare la costruzione della felicità, a farla emergere nelle condizioni limitate e finite della nostra vita. La costruzione della vita felice prende la forma di un’arte, di una perizia, di una attività sapiente che affronta virtuosamente ostacoli e difficoltà, nello stesso senso in cui diciamo che Tizio è un virtuoso del pianoforte in quanto affronta con perizia le difficoltà, spesso davvero terribili, della partitura.

Per far ciò Natoli dipana davanti a noi la linea della vita: nascita, maturità, vecchiaia, morte. Il libro percorre le tappe della vita dal nascere al morire, consapevole con Montaigne – scrive Natoli – che “come la nostra nascita ci ha portato la nascita di tutte le cose, così la nostra morte produrrà la morte di tutte le cose”. Siamo quindi di fronte al progetto di un’etica che non sia appoggia alla fede in un Dio, né alla speranza di una vita eterna. Tratta della felicità di questa vita, e basta.

Non farò altro che ripercorrere servendomi di ampie citazioni le tappe della vita segnate dal libro, iniziando ovviamente dalla nascita (“Nascere” è infatti il titolo del primo capitolo), e insistendo, poché siamo in un seminario di formazione politica, su quelle parti che si avvicinano di più a tematiche in senso lato “politiche”

Ora la dimensione etica appare come aspetto radicale della vita, fin dalla nascita perché noi non siamo puro inizio: il venire al mondo equivale infatti a un “essere posti”, perciò nascere è l’origine di una relazione (figlio-genitore, bimbo-ambiente, in generale è l’aprirsi della relazione uomo-mondo. La nascita dice dunque l’originarietà di un legame, un legame che esprime innanzitutto la nostra originaria finitezza, poiché esprime subito che noi non siamo autosufficienti a esistere, ma esistiamo solo in quanto siamo nella relazione, siamo mantenuti in essa. «La relazione uomo-mondo – scrive Natoli – non è mai una relazione astratta soggetto-oggetto: è, fin dall’inizio, essere con altri. Il mondo si dà agli uomini in comune. L’altro è dapprima il seno e poi la madre, e infine tutti gli sguardi che si volgono verso il bambino. Nell’orizzonte aperto del mondo appaiono gli altri. Il mondo è popolato di volti che, a differenza delle cose, non si afferrano ma vengono verso di noi. O si sottraggono, e spesso ci sottraggono una parte di mondo, qualcosa che ritenevamo per noi disponibile: sono volti nemici»

Dunque, possiamo dire, alla nostra origine noi troviamo la “comunità”, La comunità è anzi originaria, si dispiega come ambiente umano imprescindibile che segna la nostra appartenenza e con essa la nostra identità, la nostra individualità. Questo è il nostro “mondo”.

Ma a questo punto Natoli fa intervenire un altro potente luogo teorico, che vedremo sarà un cardine del suo discorso; scrive infatti: «Nel venire al mondo, noi siamo per il mondo ed esso si dispiega come spazio del possibile, perché entra nell’ordine delle nostre possibilità. Quand’anche irraggiungibile, è tuttavia desiderabile, ed è tale perché noi siamo desiderio. Diceva Spinoza: tutto ciò che esiste ha potenza a esistere, è quantità di forza, energia. Questa potenza nell’uomo si manifesta come desiderio, e il mondo è per noi perché noi siamo desiderio di mondo, siamo appunto vita. Dal momento in cui nasce, ogni individuo ha potenza a esistere per sé: è conatus, energia, spinta, e perciò tende a espandersi.»

I riferimenti di Natoli non sono solo a Spinoza, sono anche a Freud, a Schopenhauer, a Nietzsche, che ha interpretato ogni singola determinazione come una puntuazione di forza, ogni esistenza come una quantità finita di potenza.

«ogni cosa che esiste – prosegue Natoli – ha potenza a esistere e, se così non fosse, nulla esisterebbe. La dinamica della relazione rischia dunque di non essere compresa o d’essere fraintesa se non la si interpreta come una dinamica di potenza. Le relazioni tra uomini e cose e degli uomini tra loro non sono mai relazioni fredde. Il mondo, infatti, si configura come apertura della possibilità in quanto si presenta come desiderabile. Ciò non accadrebbe se uomini e cose risultassero indifferenti. Noi siamo un segmento di vita nella vita, perciò originariamente desideranti, e il mondo libera e attiva la nostra potenza. …E gli uomini, nel corso della vita e sotto la spinta del desiderio, s’illudono perfino d’onnipotenza: la voglia è tale da autorizzarli a pretendere tutto. Solo che onnipotenti non siamo. La tendenza espansiva del desiderio incontra il suo limite in se stessa, nella quantità finita di forza che ci costituisce. Ma noi ignoriamo la nostra quantità di potenza e verosimilmente, finché vivremo, non ne avremo mai la precisa misura.»

Questo è propriamente il “finito” e il suo senso: siamo potenza di desiderio, siamo macchine desideranti, ma la nostra potenza è finita, limitata, anche se il nostro desiderio è infinito. E il primo indice del limite della nostra potenza è il nostro corpo, ricorda Natoli attraverso una serie di fini richiami alla fenomenologia, in particolare alla Fenomenologia della percezione di Merleau-Ponty

(tra parentesi qui Natoli accenna alla difficile questione del rapporto corpo-mente, dove finisce il corpo e dove inizia la mente? cfr.p.17)

Dunque il mondo, il mondo delle nostre relazioni e il mondo-ambiente che ci circonda, è lo spazio di sperimentazione della nostra potenza, uno spazio in cui trascorriamo e sperimentiamo, un divenire in cui scopriamo i limiti delle nostre possibilità. E’, come vedremo, lo spazio della meraviglia, dello stupore, ma anche lo spazio del negativo, del dolore, della morte. Comunque è lo spazio della possibilità che dobbiamo attraversare.

Subito Natoli caratterizza in generale il significato del negativo, poi, attraverso un movimento di approfondimento, ci porterà nel cuore del negativo; per ora il negativo si dà come “limite”: «La prima forma della negazione è data dal fatto che non possiamo avere tutto né tutto insieme. L’essere al mondo si presenta subito come selezione tra possibilità, come scelta.» Dunque la pretesa incondizionata non libera la possibilità della vita, piuttosto “avvia alla follia”. Noi avvertiamo continue “resistenze” del mondo, ostacoli, limiti, siamo costantemente costretti a scegliere, e scegliere consente spesso di superare le resistenze del mondo. Dobbiamo quindi allenarci a gestire i nostri limiti, il nostro essere finiti. Il mondo non è per l’uomo soltanto accogliente e ospitale, e tuttavia – scrive Natoli – «la resistenza del mondo non è incondizionata, può, in qualche modo, essere vinta. L’uomo nella storia è riuscito in questa impresa attraverso l’invenzione e la cooperazione»: attraverso la tecnica e attraverso la comunicazione, la socializzazione delle sue capacità inventive, insomma attraverso la sua intelligenza ma insieme agli altri, all’intelligenza degli altri, l’uomo compie l’impresa di vivere, compie cioè il suo destino.

Vediamo quindi come si stia progressivamente disegnando la prospettiva che Natoli intende proporre; non una visione edulcorata dell’esistenza: il nostro esistere è vivere nel limite e nell’insidia (Natoli dedica pagine molto intense e dotte all’idea di negazione come “avversità”, alla natura “matrigna” di leopardiana memoria) ma nemmeno una visione tragica dell’esistere: abbiamo la forza per vivere, in quanto e soprattutto la nostra forza è socializzabile.

E’ però in noi stessi che dobbiamo trovare la capacità per socializzare i nostri limiti, cioè le nostre forze.

E questo riferimento a “noi stessi”, che come vedremo vuol dire trovare in noi stessi il nostro “stile” di esistere, il nostro modo di rispettare la vita accettando la morte, che consente a Natoli di far emergere il senso dell’etica che intende proporci, e che costituisce la proposta del libro.

Ma prima di affrontare direttamente la proposta “etica” Natoli prepara con cura il terreno, nel secondo capitolo intitolato “Abitare la terra: le radici della morale”, in cui ci spiega cosa vuol dire “morale”, “etica”.

Natoli ricostruisce in modo raffinato l’etimologia della parola “etica” per mostrarne una complessità che si indirizza a segnalare “l’appartenere e insieme il sentirsi parte”, l’appartenersi e l’appartenere: «l’etica – scrive Natoli – è insieme sovraindividuale e personale… L’etica corrisponde al modo di abitare degli uomini sulla terra e si configura, quindi, come un insieme di riti, tradizioni, abitudini: è qualcosa che riguarda prioritariamente la comunità che, senza di essa, non esisterebbe» e tuttavia ogni uomo che abita sulla terra “appartiene a modo proprio” alla sua comunità, ai suoi riti e alle tradizioni: «ogni uomo entra in una rete di relazioni, ma vi entra in modo originale e irripetibile». Ecco allora che l’etica si configura come una continua tensione, come un tentativo continuo di elevazione all’altezza della legge, all’altezza dell’universale, è una “istanza di universalità” che percorre la vita di ciascuno di noi. E’ insomma insieme la nostra partecipazione alla comunità e la costruzione della nostra personalità. A questo proposito, spiega Natoli «Costruzione di sé vuol dire: che cosa io sono, che cosa posso essere, che cosa voglio essere. Ora, per appartenersiogni uomo deve costituirsi come polo di resistenza nei confronti delle perturbazioni esterne e come forma rispetto alle agitazioni interne. L’uomo non diventa signore di sé se si lascia incalzare e scalzare dagli eventi che gli giungono da fuori, dolorosi o favorevoli che siano»

Qui sta il senso dell’etica e in fin dei conti, il senso della proposta di Natoli: l’uomo è forza, è potenza, è, per usare un termine del grande Spinoza, conatus, e la forza vuole espandersi, però la forza dell’uomo è infinita solo come possibilità e non come realtà, è infinita come desiderio, e non come possibilità di realizzazione del desiderio: dunque, scrive Natoli incisivamente, “è necessario mutare la forza in forma”. Direi che questo insegnamento “mutare la forza in forma”, è la filosofia stessa, è una buona definizione del lavoro filosofico.

Il senso in cui Natoli assume questo insegnamento è quello “etico”: «Per trovare soddisfazione non bisogna abbandonarsi al desiderio, ma governarlo: bisogna saperlo differire, amministrarlo senza disperdere l’energia che noi siamo… La forza raccolta, trattenuta entro un suo perimetro, guadagna perfezione: diventa corpo, opera, figura, forma”. Il messaggio è dunque questo: dobbiamo pervenire alla signoria di noi stessi. Ma la cosa non è facile, come Natoli stesso ammette.

Diventare signori di se stessi è in effetti un bel sogno non solo filosofico. E’ anche un sogno delle religioni che ha portato generazioni di credenti di varie religioni verso pratiche ascetiche di rinuncia e di mortificazione del desiderio che, per quanto abbiano certamente approfondito la conoscenza del sé, avevano spesso il torto di conculcare eccessivamente una parte determinante del sé, soprattutto quella legata alla corporeità; in ogni caso oggi un discorso puramente o rigidamente ascetico, e Natoli se ne rende ben conto, non è proponibile. Natoli si volge piuttosto a quell’idea di “cura del sé” che è stata tipica della tarda antichità; si tratta dell’idea, dice Natoli con Foucault, “che ci si debba dedicare a se stessi, occupare di se stessi” in modo tale da sapersi costruire un “abito”, dove per abito si intende quell’abitudine che non è passiva, ma che corrisponde a una abilità, a una perizia, a una specie di suprema agilità, in cui convergono le capacità del mio corpo e della mia mente, che consente di affrontare con spontaneità situazioni complesse.

Si tratta insomma di costruire lo “stile” della propria vita. E ciò è importante anche per una ragione che Natoli esprime chiaramente: «Bisogna divenire legge a se stessi. Chi non è capace di governare se stesso è condannato a subire la legge degli altri. In ciò consiste la “vera” differenza tra deboli e forti».

Ora, in quanto pervenire alla signoria di sé implica guadagnare il distacco dai propri impulsi immediati, una lotta contro la passione, una razionalizzazione degli istinti (e Natoli sa bene, con Nietzsche, che l’uomo “è un cumulo di passioni che attraverso i sensi e la mente dilagano nel mondo: un groviglio di serpenti che rararmente sono stanchi di lottare: e in questo caso guardano al mondo per cercarvi la loro preda”, lo sa bene ma forse non lo vuole ammettere fino in fondo, ma su questo vedremo dopo), allora addestrarsi alla cura di sé vuole dire fondamentalmente sapersi moderare, deve sapersi saldamente mantenere nel “giusto mezzo”, quel luogo che per gli antichi era lo spazio della saggezza. Al proposito Natoli scrive: «Assecondare il desiderio senza moderarlo equivale a contrarre una servitù senza soddisfazione, un’illusione di libertà a fonte di un’effettiva dipendenza. Considerata in questa prospettiva, la dottrina classica della moderazione – né troppo, né poco – non coincide affatto con la rinuncia, ma con la capacità del buon uso delle cose senza con ciò doverne dipendere. L’uomo non può avere tutto: lungi dall’enfatizzare quel che gli manca, deve orientarsi verso quel che può. Il moderato non rinuncia al futuro, ma sa aderire al presente: è intimo con ciò che è prossimo, non ha smania per ciò che è distante. Smania che scaturisce spesso dall’incapacità di apprezzare, custodire, amare, quel che ci circonda. In questo caso la passione dell’oltre, l’eccesso, non è che un modo per sfuggire al peso della realtà. Non è che irresponsabilità».

Ecco qui posso accennare a una questione da porre all’attenzione di Natoli: c’è chi pensa che l’utopia sia il motore della politica, e chi invece crede che essa sia fondamentalmente dannosa, e che la politica sia mediazione di interessi dati; ma questa idea della moderazione non può rischiare di tradursi in conservazione, in realpolitik, in distruzione dell’utopia, la quale si dà sempre nel segno dell’eccesso di passione e di speranza?

A questo punto possiamo entrare nel terzo capitolo del libro, che è anche il capitolo che contiene il messaggio più esplicitamente “politico”, e che mostra come lo “stile” della vita si possa davvero edificare. E’ intitolato: “Il grande stile: per un’estetica dell’esistenza”, e innanzitutto approfondisce il tema della “cura di sé” «Prendersi a cuore significa – scrive Natoli – adoprarsi per la realizzazione di sé nel tempo». Emerge quindi la questione del tempo della nostra vita: dobbiamo vivere nel tempo, anche se speriamo nell’eternità, e la questione del tempo è legata a quella della responsabilità: governare la propria potenza, infatti, scrive Natoli “significa essere nelle condizioni di valutare le conseguenze di quello che si fa”, e ciò significa essere responsabili. A questo punto Natoli avvia una ricca fenomenologia della “cura di sé” per mostrarci come essa non sia autorepressione, bensì “competenza del proprio desiderio”, come essa sia sperimentazione del proprio limite, e soprattutto come essa si intrecci con quella dimensione relazionale che abbiamo visto essere intriseca alla nostra vita, interna al nostro stesso “venire al mondo”. Natoli mette ad esempio in risalto come il nostro desiderio trovi una resistenza e un limite non oltrepassabile nello sguardo dell’altro: «Di un altro si può forse possedere il corpo, mai lo sguardo. Lo sguardo dice felicità, paura, bisogno d’amore, capacità di dono, terrore, pietà, tristezza. Lo sguardo annuncia l’altro come mistero»; e come la dinamica del desiderio possa perfezionarsi attraverso l’amore: «Il desiderio eccede l’oggetto. Per rinvenire su di sé senza doversi trasformare in “languore” o in “nausea” ha bisogno di crescere nell’altro. Questa esperienza si chiama “amore”. Nell’amore si cede all’altro un diritto sul proprio desiderio… Qui il desiderio si perfeziona e cambia di segno: la passione si trasforma in responsabilità, l’eros in amicizia, la delectatio in dilectio. Nel suo punto più alto, in caritas».

La strategia generale è dunque quella di sfruttare la positività del limite: la nostra forza, se prende forma grazie al limite che sappiamo dargli, si perfeziona, altrimenti rischia di pervertirsi, e di diventare potenza distruttiva. La limitazione permette alle pulsioni di creare utilità per il singolo e per la società. E non a caso Natoli cita il maestro dell’utilitarismo, Adam Smith, che lega insieme autodominio e fondamentale relazionalità: «L’uomo dalla virtù perfetta – scrive Smith – è quello che al perfetto controllo delle proprie originarie e d egoistiche emozioni unisce la più viva sensibilità per le originarie e simpatetiche emozioni degli altri».

Ma al di là della modernità, l’epoca di Smith così efficacemente riassunta e disegnata nella Favola delle api di Mandeville ripresa da Natoli, epoca in cui lo sviluppo sembrava poter essere illimitato, e la ricchezza e il lusso individuale riprodurre senza fine utilità collettiva, ora, nella nostra epoca contemporanea «occorre ricominciare a discernere tra il necessario e il superfluo», e Natoli indica indica con estrema chiarezza quale possa essere il criterio del discernimento: la sofferenza degli altri: «Chi ampiamente è cresciuto e ha trasformato la sua incontinenza in civiltà – dico l’Occidente moderno – è oggi nell’impossibilità di estendere a tutto il mondo il suo livello di benessere, pena la fine del mondo stesso. C’è anche chi tale benessere vorrebbe estenderlo, ma non si può. Perciò non lo si vuole. Chi gode del benes sere, infatti, non è per nulla intenzionato a perderlo, anzi tende ad accrescerlo. Di qui un’inevitabile inimicizia tra chi vorrebbe sedersi alla mensa di chi ha, e ne viene esclu so, e chi magari vorrebbe non escludere, ma non riesce a rinunciare a quello che ha. Di qui un intreccio terribile tra abbondanza e penuria, tentativi di accordo e guerra. C’è chi, con le unghie e con i denti, difende quello che possiede e chi aggredisce per ottenere ciò di cui è privo.»

Una prospettiva etica per uscire da questa situazione è dunque concentrata da Natoli nell’idea di una “cura di sé” che, per essere e rafforzare davvero se stessa, diventa “cura degli altri”: «Nell’essere per gli altri l’uomo apprende a liberarsi da sé. La “cura di sé” meglio riesce se è sinergica con un generale prendersi cura, se ha a cuore quel che è comune. Una cura di sé che non sia anche attenzione per gli altri si stravolge irl pretesa autosufficienza, in celebrazione narci sistica della propria virtù. Che è spesso un escamotage per travestire la propria miseria. Al contrario, il rapportarsi con gli altri favorisce il “distacco” e trasforma l’illusione del “non aver bisogno” nella “disponibilità al dono”. Il distacco favorisce la reciprocità, la reciprocità tramuta il di stacco in offerta. Questo concetto, già presente nella pietas degli antichi, trova nel cristianesimo un’estrema radicalizzazione. Non si può essere felici da soli. La cura di sé non è una questione soltanto individuale, ma anche sociale».

Sull’idea di cura di sé socializzata Natoli innesta un richiamo alle più classiche delle virtù: la fortezza e la temperanza. E’ soprattutto la coltivazione della virtù della fortezza che emerge come necessaria in questa nostra contemporaneità priva di centro e di finalità, della fortezza come virtù attiva che è insieme forza e consapevolezza, e secondo Spinoza che Natoli cita, fermezza e generosità: «La natura propria della forza, in quanto forza attiva – spiega Natoli – è quella di conservare e non di distruggere. Proprio per questo la fortezza, nella sua realizzazione più piena e completa, non può che volgersi in generosità. “Per generosità” dice Spinoza “intendo la cupidità (cioè l’energia del desiderio) con cui ciascuno si sforza, per il solo dettame della ragione, di aiutare gli altri uomini e di unirli in amicizia” …In breve la fortezza non può non contrastare e reprimere tutte quelle manifestazioni di forza che tendono a disgregare. … Da questo punto di vista la fortezza si formula come virtù politica».

E’ quindi dalla virtù della fortezza così intesa, in quanto “non riguarda solo la condotta degli uomini singolarmente presi, ma diviene strumento per la salvaguardia di tutti”, che Natoli trova il transito per aprire il discorso sulla politica.

Lo Stato per Natoli, se ho capito bene, è o dovrebbe essere esercizio della forza secondo virtù: Lo Stato deve essere sufficientemente forte per provvedere e difendere, ma deve moderarsi nella forza che possiede perché essa non degeneri in arbitrio. La sua ragione d’essere è quella di temperare il conflitto. Per fare questo, lo Stato deve essere temperante in se stesso, deve limitare la sua forza perché la società cresca». Natoli accenta a più riprese questo concetto di temperamento o moderazione di una forza necessaria, e ne trae anche il senso della politica, e correlativamente della “fortezza” come virtù” politica: La politica è conflitto, ma è anche partecipazione. Tuttavia, senza conflitto non vi è politica. Anzi è compito precipuo della politica mediare il conflitto, rendere congruenti e concordi forze che , se radicalmente antagoniste, non solo distruggerebbero la società, ma lascerebbero sul campo schiere di conflitti senza nessun vincitore. La fortezza è dunque una virtù propria della cittadinanza per evitare che gli uomini si lascino trascinare dall’indisciplina degli interessi».

Certo, come rileva Natoli, questa immagine dello Stato e quindi della politica come garanzia e mediazione del conflitto è un’immagine squisitamente moderna , troppo semplice, in quanto corrispondeva a una società più semplice, e non più spendibile oggi. Oggi «La complessificazione sociale ha disarticolato il potere e ne ha cambiato il volto… La mobilità del lavoro, il progresso tecnico, la circolazione più allargata delle ricchezze hanno fatto sorgere poteri diffusi e non più riconducibili a unità. Ma c’è di più. Come Foucault ha chiaramente mostrato, il potere si è parcellizzato nelle sue funzioni. Dire “potere” oggi significa dire poco: c’è un potere di fabbrica, di azienda, di amministrazione; c’è un potere medico, giornalistico e così avanti dei vari corpi sociali». Abbiamo dunque una “perdita del centro” anche per quanto riguarda il potere, e dobbiamo perciò confrontarci con una diversa strategia dei poteri, che non si esercitano più attraverso meccanismi repressivi, bensì attraverso l’invito a agire, fare, produrre: oggi il potere attiva, stimola e controlla. Da qui una nuova immagine della nostra “virtù della cittadinanza”: Oggi «l’indice d’equilibrio della forza è dato dall’equilibrio sociale generale. La giustizia non è un bene astratto, ma risulta dal ripatteggiamento costante delle posizioni sociali. In questo caso la fortezza si esplica come abile governo della contingenza… Resta fermo il criterio: se gli uomini non hanno il dominio su di sé, difficilmente avranno la forza per governare gli altri e meno che mai quella per governare le istituzioni», e ciò implica tutto sommato, se non capisco male, un primato dell’etica sulla politica. (Sono d’accordo su questo primato anche se, come già ho accennato, l’idea della politica come “mediazione del conflitto” non mi convince: io credo piuttosto che la politica sia invenzione di valori e costruzione di novità.)

Ma proseguendo nel percorso del libro devo dire che la strategia di Natoli, che è molto raffinata, passa o trascorre, per dir così, per la politica, perché il suo scopo in questo libro, è l’etica. E la costruzione di una abitazione condivisibile passa per la rilevazione di ciò che è davvero comune alla nostra vita, di ciò che chiamerei il trascendentale dell’esperienza. E forse le condizioni che ci legano, che tutti proviamo, sono due: la felicità che talvolta inaspettatamente ci coglie, e il dolore che spesso altrettanto inaspettatamente ci stordisce e tramortisce; sono cioè le tonalità affettive che corrispondono al senso e al non-senso, e che sono sempre connesse e prossime, nei vari stati in cui accadono, alla meraviglia per l’essere e all’angoscia del nulla. Natoli descrive in modo davvero limpido e intenso questi due stati affettivi fondamentali nel quarto e nel quinto capitolo del suo libro, intitolati “Felicità: realizzarsi nell’attimo o portare a compimento la vita?” e “Experimentum crucis: la prova del dolore”.

Sul tema della felicità Natoli dice alcune cose molto interessanti: abbiamo una memoria, una “sorta di memoria immemorabile” di felicità, anzi “siamo” tale memoria, e ciò significa che in noi il piacere di esistere, quella felicità che facciamo sprizzare da tutti i pori dell’essere, è talmente connaturato da coincidere col nostro stesso essere. In certi momenti questa felicità che noi siamo si esibisce perentoriamente, cambiando il ritmo del tempo, spezzando e riformulando il ritmo della temporalità ordinaria. Sono momenti in cui facciamo esperienza dell’illimitata espansione del nostro essere, un sentimento dell’illimitato che si configura non precisamente come termine o pienezza, ma come dinamismo, come incremento, come inesauribile. Al proposito Natoli scrive: «quel che amiamo ci dà felicità se, in qualche modo, è sempre da conquistare, senza tuttavia che esista il timore di perderlo. Se così fosse, verrebbe meno proprio lo “stare accanto”» Ma in realtà, poiché nulla di finito può sottrarsi al timore della perdita, la felicità è sempre abitata dallo struggimento per una possibile mancanza, ed è perciò necessario che essa sia sempre ripresa e ricostruita, che essa sia costantemente progettata e perseguita. Certo, ci sono attimi di felicità che rischiarano in modo potente l’esistenza «eppure non è lì – scrive Natoli – che l’uomo può ritrovare la sua realizzazione più piena… Felice, in senso stretto, si dice infatti di una vita intera», è una “forma di vita” e si risolve nel modularsi armonico della vita stessa, nel valorizzare ciò che la vita offre, e quindi nel valorizzare la vita stessa: «Non vi è dunque alcun bene – scrive Natoli – che può dare all’uomo felicità, ma si è felici se si è capaci di valorizzare la vita in tutti i suoi aspetti: ricercare i piaceri senza divenirne schiavi, trarre gioia dall’amore non dimenticando che il donarsi arricchisce più che il possedere, usare l’intelligenza per creare, la prudenza per decidere bene nelle azioni onde evitare conseguenze nefaste, imputabili a superficialità e inesperienza, sapere apprendere perfino dal dolore, trovando nella sofferenza stessa uno stimolo per crescere e non unicamente un impedimento».

E a questo punto siamo arrivati al tema del dolore, e ai capitoli che seguono quello del dolore, il capitolo sulla vecchiaia (“Della vecchiaia) e quello sulla morte (Ars moriendi o della bella morte), che concludono il libro. Si tratta di capitoli molto intensi che non si possono semplicemente riassumere e di cui ho anzi pudore a parlare, perché riassumerli vuol dire far torto alla loro delicatezza. In essi Natoli conclude il suo percorso di alaborazione di un’etica del finito, affrontando ciò che appare a tutti noi come il non senso, l’irrimediabile, l’irrazionale, l’ostacolo definitivo alla possibilità della felicità. Ora la “felicità di questa vita” non può non essere felicità “finita”, e quindi non può non comprendere il dolore e la morte nel proprio orizzonte. Dolore e morte non possono essere trascesi dalla speranza di una vita senza fine, della beatitudine, di una vita eterna: vanno vissuti come parte della vita. E ciò vuol dire affrontarli con “fortezza”, per esempio eliminando dal dolore naturale che inevitabilmente subiamo qualsiasi riferimento a una colpa rispetto a cui il dolore possa configurarsi come castigo, per mettere piuttosto a tema la differenza tra il male inevitabile, che appunto si colloca al di là dell’innocenza e della colpa, e il male evitabile, quello che discende dalle colpe intenzionali e dalle omissioni degli uomini: «Nel mondo – scrive Natoli – a fronte del dolore inevitabile vi è tanta sofferenza eliminabile. E’ in vista di questo che si può e si deve lavorare».

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