Ricordare Moro attraverso Dossetti

Pagina dell'Avvenire

In questi giorni, che precedono il Quarantesimo dell’ assassinio di Aldo Moro, la sua figura e la sua esperienza politica sono state da tante parti esplorate e rievocate, sotto diverse luci: opportunamente, poiché l’alto spessore umano, accademico, politico e spirituale dello statista pugliese ci conduce necessariamente alla necessità di studiarlo e ripercorrerlo sotto molteplici aspetti.

Noi, prendendo le mosse dall’ articolo a firma di Gianni Festa, comparso su Avvenire di ieri, 8 maggio, abbiamo scelto di fare nostra la lettura che don Giuseppe Dossetti, suo amico e che con lui e La Pira aveva condiviso molto più che l’esperienza alla Costituente, fece della tragica vicenda del rapimento e dell’ assassinio di Moro. Quei fatti spensero, con Moro, la più vivida luce di cui l’ Italia disponeva, sul versante politico, in quegli anni tragici, e che proprio per questo è certamente molto significativa: il rapimento e l’ uccisione di Moro sono, senza dubbio, l’ evento apicale e simbolicamente più profondo di una stagione, politica e istituzionale, così difficile da mettere in discussione la stessa tenuta democratica del nostro Paese.

Il riferimento di Dossetti è alla “santità” di Moro.

Nell’ accezione in cui Dossetti, leggendo quella vicenda alla luce della Parola, ne descrive la santità, essa è affine a quella dei c.d. strastoterpzi, ossia i portatori di Passione: come i principi russi Boris e Gleb, essi non sono martiri, ma sono piuttosto coloro che hanno patito una morte assolutamente ingiusta; o per dirla con Dossetti, una morte “non in connessione con una particolare formalità della professione di fede, ma ricevuta e a un certo momento, in Cristo, accettata”.

Moro, La Pira e Dossetti, dice Festa, erano accomunati dalla “comune aspirazione a vivere integralmente, senza compromessi, la vocazione cristiana laddove la Provvidenza li avrebbe guidati e collocati.”

E’ per questo che ci appare grande la forza della visione di Dossetti, che vede nella vicenda che pose fine alla vita di Moro, iniziata a ridosso della Settimana di Passione e terminata in quella dell’Ascensione di Gesù, quella propria della morte degli innocenti, subita come una ingiustizia e rimessa nelle mani di Dio (“fiat voluntas tua”); innocenti senza macchia che non resistono ai loro uccisori e perdonano coloro che li perseguitano e li colpiscono.

Peraltro, anche le indagini successive, gettando luce sui momenti immediatamente precedenti al suo assassinio, diranno che andò proprio così.

Questo, dice Dossetti alla sua comunità monastica nell’ omelia di Pentecoste, il 14 maggio 1978, è Pentecoste.
Restano in noi, nel ricordo del sacrificio di Moro, visto con la profondità di Dossetti, l’ ammirazione e la gratitudine per aver ricevuto un così alto esempio di passione politica e servizio al proprio Paese, vissuti all’interno di una “vocazione cristiana integrale.”

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