La necessità di uno sguardo sui temi dell’immigrazione all’interno di questo corso nasce da una esigenza precisa: quella di pensare per un momento – e analizzare senza timori – almeno due temi fondamentali che in questo tempo sono – secondo svariate declinazioni – al centro dell’agenda politica: la crisi demografica – l’invecchiamento del nostro mondo, antico certo, e impaurito dal suo declino, come ogni vecchio – e i corpi migranti.
Le registrazioni audio e video della lezione di Stefano Allievi non sono disponibili per la mancata concessione dei diritti di pubblicazione
Introduzione di Marica Mereghetti a Stefano Allievi
La scelta di definire i migranti come corpi nasce da una personale sensibilità: sono quei corpi sballottati, temuti, pianti perché abbandonati su una spiaggia o in fondo al mare, semplici corpi o sono anche coscienze, vite, speranze, esperienze? O quei corpi sono solo carne – forse volti – di bambini, adolescenti, giovani uomini e giovani donne alla ricerca di un progetto di vita? Ma non è forse vero che prima di ogni filosofia o di ogni politica esiste un corpo?
Ciascuno di noi, qui oggi, si è lasciato interpellare dalle immagini quotidiane degli sbarchi, dei morti in mare; molti cercano di comprendere e di affrontare, tematizzando i problemi e le soluzioni possibili; qualcuno ha accolto nei propri tempi, nelle proprie reti, nelle proprie case quei corpi migranti.
Altri, intimoriti dalla prospettiva dell’impoverimento, dall’assedio dei barbari, dallo scontro di civiltà, dall’angoscia della perdita della propria identità, sono facilmente preda di chi sbandiera la forza imperativa, e anche brutale, del rigetto, di una legalità cruenta che in realtà peggiora le situazioni.
Ed evidentemente non basta cercare di fare affidamento sulla memoria storica (scarsa) di quando i migranti eravamo noi. La percezione è quella dell’assedio, e quanto più si scende nelle fasce di istruzione e di reddito tanto più aumenta il timore di perdere diritti a causa dei nuovi arrivati (percepiti come molto più numerosi e più costosi di quanto siano in realtà). A ciò si aggiunga il dato di fatto di una governance europea ancora una volta incapace di governare il processo inarrestabile delle migrazioni in ottica condivisa. I confini sono ancora semplici confini nazionali: ma non è forse vero che il Mediterraneo, i Balcani, sono confine europeo e come tale sono interesse di tutti? Il trattato di Dublino in questo senso è la dichiarazione di una patente sconfitta della definizione di policies comunitarie anche in ambito di migrazione. Ma tutto ciò evidentemente non risparmia il nostro Paese dalle sue responsabilità.
Le merci si muovono velocissime, il denaro dematerializzato e le notizie corrono ancora più velocemente, il mondo si è fatto piccolo, piccolissimo per chi ha il passaporto giusto, per tutti gli altri la condizione dello spostamento, della migrazione, dello sradicamento sono sostanzialmente immutate: chi fugge una guerra, una persecuzione, una carestia, o semplicemente desidera progettare speranze di vita migliore, attraversa i confini naturali ancora a rischio della vita, senza certezza di futuro, subisce violenza e spesso viene rigettato (come i Goti dei quali narra Ammiano Marcellino).
Il testo di Allievi, che ha il merito della chiarezza sulle tematiche della migrazione, è a tratti duro, ma richiede la necessità di modificare sostanzialmente la prospettiva di interpretazione, non solo disponendo davanti a noi i numeri reali dei fenomeni demografici e migratori, ma anche proponendo modelli di regolamentazione e di integrazione, e sostanzialmente sfidandoci sulla insostenibilità delle mancate decisioni, degli irrigidimenti di posizione, ponendo anche il tema duro dei tempi di queste decisioni.
Occorre che comprendiamo – anche dal punto di vista della crescita economica e della decrescita demografica – di quanta immigrazione abbiamo bisogno, e di quanta ne possiamo sopportare senza che i costi superino i vantaggi o che i rischi di implosione e di conflitto aperto non diventino troppo alti.
Certo quando masse di disperati in mare rischiano la vita non è possibile stare a guardare o impedire lo sbarco: ne va del nostro stesso restare umani, in un certo senso delle nostre stesse radici culturali ed etiche (cristiane, illuministe, socialiste, liberali, europee…): ma dobbiamo anche porci il problema oggettivo del nostro investimento nei paesi di origine dei migranti. Sino a quando l’Africa viene frenata, sino a quando non avremo il coraggio di predisporre politiche economiche di autentico aiuto allo sviluppo nei paesi di provenienza di chi cerca progetti di miglioramento di vita , difficilmente saremo in grado di diminuire i flussi. Ma promuovere sviluppo non è solo una direttrice economica-produttiva-finanziaria, è sviluppo di condizioni di vita decenti, di istruzione, di investimento sulle politiche di emancipazione femminile.
Ed è nello specifico anche la decisione dell’apertura di corridoi umanitari per chi fugge da situazioni di guerra e di persecuzione, ed insieme la costruzione di rapporti di sponsorizzazione e progettualità e di ingresso regolamentato dei migranti economici: stabilire le quote di ingresso che diano garanzia di lavori tutelati e di abitazioni decenti.
Si pone poi il tema della ridefinizione complessiva del sistema dell’accoglienza diffusa sul territorio e non concentrata in luoghi di emergenza come i CAS, che non hanno spesso nessun tipo di progettualità e che quindi diventano dei luoghi di tempo perso, di sofferenza psichica, di senso di inutilità: sostanzialmente luoghi da dove fuggire nell’attesa della definizione di uno status. Situazione che diventa ancora più terribile quando ad essere tenuti in questa condizione sono degli adolescenti.
E insieme la tematizzazione necessaria della definizione dei diritti di cittadinanza per tutti quei ragazzi e ragazze di seconda generazione, che sono spesso nati qui, che qui hanno sicuramente studiato, e che qui hanno le loro reti di relazioni: rigettare i loro progetti di continuità di vita non è solo una questione di crudeltà morale, è anche una questione di cecità politica sul lungo periodo, perchè alimenta la rabbia e genera inevitabilmente conflitti dolorosi per tutti.
Secondo una ricerca di Cambridge Globalism apparsa sul Guardian una settimana fa, il 50 % degli italiani è convinto che il costo economico dei migranti per il paese sia superiore ai benefici attesi ( lo stesso accade al 49% degli svedesi, al 42% dei francesi, al 40% dei tedeschi, e straordinariamente solo al 37% dei britannici): qualcosa evidentemente non funziona se i numeri reali (quelli ufficiali e disponibili) e quelli di prospettiva di medio e lungo periodo ci dicono in realtà altro come ben rilevato nel testo di Allievi, e ci chiediamo allora come rendere evidenti questi dati perchè la percezione della paura diminuisca? Sostanzialmente perché l’Europa non si chiuda?
Europa, la fanciulla di Tiro dagli occhi grandi, è stata una viaggiatrice, che non ha avuto timore ad abbandonare tutto per spostarsi da Oriente ad Occidente, per scoprire un mondo nuovo e portare la novità della sua appartenenza e delle sue radici, ed è diventata madre di popoli, regina di Creta. Il mito di Europa dovrebbe ricordarci che le persone, a volte i popoli, trasmigrano, e che spostandosi nutrono la novità. Il mondo allora nuovo di Europa è diventato il luogo in cui popoli si sono scontrati, intrecciati e infine hanno cercato di armonizzarsi. Se il nome e il mito di Europa può essere un destino forse questo è il momento di scommettere.