Il problema del rapporto tra politica e virtù è un argomento classico, non ancora risolto nella pratica: difficilmente questi termini riescono a coniugarsi con simpatia, anzi stanno in tensione. Già non è del tutto facile essere virtuosi, su questo possiamo anche riflettere, ma è particolarmente difficile essere virtuosi in politica. È difficile essere virtuosi in politica, perché la politica ha una singolare intimità con il male. Io svilupperò il mio ragionamento in due parti, prima mostrando una combinatoria tra questi due concetti, che si possono combinare in vari modi; poi volgerò l’attenzione a questa particolare intimità che la politica ha con il male. Andiamo a una definizione preliminare della virtù.
La virtù nel mondo antico.
La virtù, o meglio, le virtù sono abilità. La virtù è un’abilità, una buona abitudine. Aristotele dice questo: la virtù non è una qualità, è un abito, una buona abitudine, in vista del conseguimento del bene. Il bene – definizione provvisoria – è la realizzazione di qualsiasi determinazione secondo la sua propria natura. Questo è il modello di bene che va da Platone sino ad oggi. Con una singolare inflessione che diventa potente a partire dalla modernità, e è che la problematizzazione della frase “secondo la sua propria natura”. Da un certo punto in avanti non si saprà più che cosa si intende per “propria natura”. Comincia quindi ad indebolirsi l’oggettività del bene. Indebolendosi l’oggettività del bene comincia a diventare discutibile quell’insieme di abilità, le virtù, che erano quelle attraverso cui questo bene doveva o poteva essere conseguito. La combinatoria può essere pensata in molti modi: se alla politica sia necessaria la virtù, intendendo la virtù come qualcosa di esterno alla politica e un suo fondamento; se la politica essa stessa sia una virtù; se vi siano virtù o una costellazione di virtù legate alla politica come a una tecnica. Già questa triangolazione mostra come sia problematica la relazione. Ma la combinatoria potrebbe più ampiamente svilupparsi. C’era una tradizione, soprattutto la tradizione classica e cristiana – anche se tra le due c’è una differenza molto potente, c’è una fortissima discontinuità fra loro – secondo cui la politica è virtuosa in quanto mediante essa si realizza il bene. Nel modo classico la politica è l’ambito della realizzazione complessiva del bene. Perché soltanto in una città buona sono possibili buoni cittadini. Pensare una vita fuori della città è improbabile, è inconcepibile. Una delle ragioni fondamentali per cui Socrate si lascia uccidere, non sfugge, è quella di dire: se io vado fuori dalla mia città io non vivo più, divento apolide. Un esilio perpetuo. Quindi io sto nella città, pungolo i miei cittadini, sono come un tafano, per persuadere le leggi, per cambiarle, ma non posso vivere senza leggi. Quindi la città è il luogo del bene. In quel mondo quando si diceva “bene” si capiva che cosa si volesse dire: bisogna cioè che ogni determinazione si sviluppi secondo la sua propria natura. La natura della politica è quella di permettere che i cittadini divengano filosofi. Dove per il greco la filosofia non era una disciplina, ma era una vita: bios philosophikòs, una condotta, una forma di esistenza. Essere filosofi era una forma di esistenza. Si sapeva che cos’era il bene. La politica doveva sviluppare questo. La politica era buona e virtuosa se e solo se faceva questo. Tanto è vero che Aristotele, fatto importante rispetto alla modernità, non si pose mai il problema della legittimità della politica. È un problema tutto moderno questo della legittimità, della rappresentanza. Sono questioni molto moderne, gli antichi non le avevano. La politica doveva essere buona o cattiva. Se era cattiva, cioè se non si svolgeva in funzione del bene della città avrebbe prodotto sedizione, guerra e quindi sarebbe perita. Usando il modello classico del generatione et corrutione la legge della legittimità della politica era irrilevante, perché la politica era buona – e allora durava – o era cattiva – e allora periva. C’era una nozione biologico-naturalistica della politica, specie in Aristotele. Allora il politico nella sua stessa condotta trovava la sua nemesi. E se non fosse stato virtuoso ci avrebbe pensato la stessa natura a farlo saltare. Questa posizione aristotelica è in parte superata, ma nella sostanza mantiene la sua verità.
Nel cristianesimo la situazione cambia: permane ancora questa nozione di bene, ma fondamentalmente la politica è funzionale a un bene più alto. Ha un suo ambito di operatività ma è funzionale a un bene più alto. La politica deve essere trascesa, appartiene alla scena preparatoria del mondo. Questo appare in modo assolutamente evidente in Agostino, che è fondatore della nozione politica dell’Occidente. La politica è in vista di un bene ed è dunque subalterna a un’idea di bene che la trascende. La politica è buona in quanto inserita entro l’unità del bene, ma l’unità del bene è gerarchica: il bene è uno ma ci sono degli scalini verso questa unità.. In un certo senso la politica per un verso trae ragioni da sé – il buon ordine della città; e in questo si ripete il modello classico. Questa città tuttavia è transitoria. La città di Dio è la civitas peregrina. Nel presente la città di Dio appare essa stessa come transitoria, mentre ontologicamente è la città del mondo che è transitoria. La civitas peregrina invece è quella che prepara qui la definitività di Dio. C’è quindi un ordine superiore che definisce la politica. C’è una subalternità, senza ancora che si invochi – Agostino lo invoca – la tematica del male. C’è una subalternità nel senso che nella politica si deve sviluppare un’intenzione di bene che è più radicale e più universale della politica stessa. È l’idea della politica come servizio e come tale appartiene alla dottrina dei mandati. Dio cioè dà ad ogni uomo il suo mandato e al politico il suo mandato, che è il mandato di rendere buona la città. La dimensione del potere non è in questo caso demoniaca, anzi, è buona, il potere è inteso come servizio. Questo potere è fondato su un bene trascendente, di cui il mandato è una flessione o una inflessione. Già senza invocare il male la politica è istituita come una funzione particolare dentro un’idea del bene unitaria e gerarchica. Allora qui si impone un interrogativo: la politica è virtuosa in quanto è a servizio del bene o fondata entro una dimensione di bene più originaria di essa? O la politica è virtù in quanto capacità specifica di perseguire un bene specifico? Questa è la rottura dei moderni, avvenuta con Machiavelli.
La virtù nel mondo moderno.
Machiavelli non è il teorizzatore della politica come mondo in cui si può fare tutto e il contrario di tutto. Machiavelli è colui che dice che la politica si definisce in base a un bene specifico, cioè si emancipa dall’etica in quanto non si fonda su un’idea di bene che la precede, ma deve perseguire un suo particolare bene, uno specifico bene. In questo caso la politica a) non ha come oggetto tutto il bene b) non è subalterna a un bene che la precede e la trascende c) persegue un solo, determinato, particolare bene. Quale? Il bene della pace. Allora la politica si emancipa dall’etica ma non può tutto, perché i limiti che ad essa vengono, vengono dall’oggetto che essa persegue, che è la pace. La politica quindi non è virtuosa se non mantiene stabile la città, cioè se non produce la pace. Ecco allora perché un’interpretazione di Machiavelli come colui che permette tutto alla politica è infondata. È una lettura sbagliata: perché non si può fare tutto, in quanto il vincolo viene dalla pace. Il vincolo è la ragione stessa per cui la politica esiste. La politica è in questo senso sia nel senso morale antico della parola che in quello moderno di capacità e quindi di tecnica. Nella modernità diventa più esplicito qualcosa che già Aristotele aveva capito e che cioè la politica è anche una tecnica o arte del governo. La politica come funzione distinta entro l’unità del bene era già stata identificata: già i Greci, già Aristotele, già Platone, aveva identificato la politica come funzione distinta dentro l’unità del bene. Tuttavia, nonostante fosse una nozione distinta, inclusa nel bene pensato come totalità. Tanto è vero che la città doveva educare alla virtù.. Ci si domandava presso i Greci se la virtù fosse più o meno insegnabile. C’era appunto l’oggettività del bene. La politica, da funzione distinta, si trasforma in sfera autonoma quando si dissolve l’oggettività del bene e si complessifica la società. Quando, nella modernità, la società si complessifica si elaborano, si sviluppano sfere autonome, non componibili; entro l’unità del bene la politica si specifica entro una sua sfera e allora diventa autonoma, non subalterna al bene. Nella società complessificata inizia un processo di secolarizzazione, di sgretolamento dell’unità medievale e quindi il bene comincia a diventare prospettico. La politica si autonomizza e da sfera distinta diventa autonoma. Il bene infatti si scinde dentro di sé: ci sono i beni, i diversi oggetti, che diverse istituzioni devono perseguire. Viene meno l’oggettività del bene. Venendo meno l’oggettività del bene in forza della complessificazione delle prestazioni sociali il mondo si articola in sfere, ognuna delle quali persegue un determinato bene. La modernità nasce appunto in questa forma, nasce come la problematizzazione dell’unità del bene. Quello già accade con Machiavelli ma si formalizza in modo evidente in Hobbes, dove il tema della politica non è più quello di realizzare il bene, di aiutare gli uomini a realizzare il loro bene, ma è quello di metterli al riparo dal male.
Nella modernità la politica non è più un progetto teso realizzare il bene, ma anzi, la modalità politica diventa uno strumento per limitare il male. Ci sono almeno due ragioni che conducono a questo:
a) la perdita dell’oggettività del bene: cioè non si sa più che cosa vuol dire la formula “secondo la sua propria natura”; di conseguenza dire che c’è una proposta di bene universale diventa problematico. Allora ognuno persegua il suo bene. Qual è il bene che la politica può salvaguardare?
b) L’unico bene che può salvaguardare è che non dilaghi il male, cioè che non si realizzi un potere di distruzione tra gli uomini. Questo diventa chiaro in Hobbes. In Hobbes la politica non deve proporre forme di vita, non deve indicare condotte, ma deve solo evitare che ogni uomo, perseguendo la sua propria idea di bene non la imponga ad altri. Le guerre di religione di conseguenza sono lo spettacolo in cui questo si realizza. Nelle guerre di religione si rinuncia alla verità per la pace. In questo contesto emerge l’altro punto che è antico nella politica, ma che nella modernità si formalizza in modo particolare, cioè l’intimità della politica con il male. La politica nasce sostanzialmente – e nella modernità si specifica – come quella virtù che deve mantenere la pace. Perché ci deve essere una virtù che deve mantenere la pace? Perché originaria è la guerra. Non parlo tanto della guerra come guerra totale (il modello hobbesiano ci porterà a questo: la guerra totale teorizzata da Hobbes ha come intento quello di moralizzare la politica, vedremo poi perché). Intanto la situazione di fatto è che c’è il conflitto, c’è guerra. La guerra è un fatto. Lasciamo da parte se sia totale o no, ma è un fatto che gli uomini entrino in conflitto. Paradigmatico è in questo senso Tucidide. Allora è chiaro che la politica deve necessariamente sedare questo conflitto. La politica ha dunque un aspetto positivo, non solo, ma anche inevitabile: in funzione di disinnescare il potenziale di guerra. La virtù fondamentale della politica è pertanto la giustizia, perché si può disinnescare il conflitto soltanto se in un certo modo si mantengono le proporzioni tra le parti.
La prospettiva di Machiavelli.
Il realismo politico di Machiavelli, più realista di Hobbes, è quello di dire che i conflitti nascono come nascono, non sono programmati prima, non sono preordinati. L’idea della politica nella forma della rappresentanza, della legittimità dal punto di vista di Machiavelli è incomprensibile. Per lui non è importante il modo in cui si prende il potere, bensì il modo in cui lo si gestisce. La politica non sorge da una giustizia originaria, non sorge da un bene esterno che la motiva. Nasce anche dal delitto. In questo senso Machiavelli è agostiniano, sino in fondo e radicalmente, senza il pessimismo di Agostino. Perché in questo caso è neoclassico: l’uomo che cerca la sua gloria, se cerca davvero la sua gloria, rende buona la politica. È interessante. Qualcosa che può essere un vizio – la vanagloria – che anche per Machiavelli diventa poi un vizio, perché l’eccesso di ricerca della propria gloria lo fa perdere, diventa una virtù. La dimensione dell’onore della politica, dell’eroicità della politica, del titanismo politico nasce con Machiavelli. Determinante non è il modo con cui lo si prende il potere, ma il modo in cui lo si gestisce. Nel momento in cui il politico lo vuole gestire deve necessariamente diventare buono. Ci sono dei passaggi da citare: a “quelli che arrivano al principato attraverso il delitto” egli dice: “le crudeltà male usate falliscono”. Qui si introduce la nozione di “buon uso delle crudeltà”. Non a caso poi Machiavelli parlerà del corredo, delle costellazioni delle virtù del principe: libertà, parsimonia, fino al dilemma se al principe sia più utile essere temuto o amato, e poi misericordia, pietà.
Nasce con Machiavelli il titanismo politico, perché, come il conflitto è occasionale (il tema della fortuna) colui che emerge dal conflitto, anche attraverso il delitto, è l’uomo capace. Ecco il titanismo politico: quest’uomo, che emerge dal conflitto e lo placa, governa la città solo se diventa buono. Ci sono degli esempi in Machiavelli interessanti, in cui egli mostra come alcuni come Agatocle pervengono al potere ma poi diventano buoni; altri (personaggi contemporanei alla sua epoca) non sanno usare bene le crudeltà e, diventando arbitrari, distruggono quello che hanno costruito. “Le ingiurie – scrive Machiavelli – si debbono fare tutte insieme acciò che assaporandosi meno offendano meno e benefizi si debbono fare a poco a poco, che si assaporino meglio”.. La politica quando diventa attiva deve essere ridondante di bene e il male deve essere bruciante e fatto sparire. È un esempio di grande realismo politico, perché toglie alla politica l’innocenza e ne mostra l’eterogenesi dei fini. Per la buona politica non è necessaria la virtù privata. Questo splenderà in Mandeville. A condizione però che la virtù pubblica sia buona. Detto in termini molto recenti: Machiavelli non si porrebbe il problema se il peculato sia giusto o no. Ci sono dei passaggi molto importanti sulla fiscalità del principe. Egli dice soltanto che non deve produrre la spoliazione dei cittadini. Si può fare cioè la cresta su un aeroporto, a patto che l’aeroporto si faccia presto e funzioni bene, e i cittadini nemmeno si accorgeranno che è stata fatta la cresta. Non è giusto che la si faccia, ma l’importante è che il delitto non sia incompatibile con il bene pubblico. Nasce il titanismo politico e il titanismo politico è realistico, appunto perché il conflitto si svolge così come si svolge e da lì si esce in un modo piuttosto che in un altro.
Noi nella nostra società non siamo più machiavellici almeno in un punto, nel senso che il titanismo politico è finito negli anni Trenta. La complessificazione della società impedisce che nella politica emergano titani. Noi abbiamo avuto titani tragici: Stalin, Hitler. Ma lì è la fine del titanismo politico. Per fortuna non abbiamo più bisogno di grandi politici. È già molto se abbiamo buoni amministratori. L’unico che ha il respiro del titanismo nel nostro mondo è il papa. Perché parla in nome di un altro. L’altra politica, se voi la controllate con gli uomini degli anni Trenta, è veramente pallida. Questo non è un male, perché è cresciuta la capacità di autorganizzazione della società. La teoria dei sistemi ha mostrato l’irrilevanza del lieder politico, perché la macchina cibernetica della società ormai si governa da sé. Questo problematizza molto la virtù: oggi la società può vivere – convivere con un nanismo politico.
La prospettiva di Hobbes.
Veniamo al passaggio formulato da Hobbes. Egli è un antimacchiavellico: anche se non sembra vuole moralizzare la guerra. La guerra è per definizione diseguale: il fatto di vincitori e di vinti è crudele. Omero è l’archetipo della cultura occidentale della crudeltà, della guerra senza fine, della violenza più brutale. Questa è la guerra, anche oggi, basta guardarci nel mondo. Quando Hobbes inventa quella simulazione, che è la guerra di tutti contro tutti, vuole moralizzare la guerra. Contro la celebrazione della gloria che risolve (modello eroico – machiavellico) c’è la morte che pareggia. Anche colui che è glorioso non si sottrae alla morte. Tutta la trattatistica dei monarcomachi, tra ‘500 e ‘600 mostra che anche chi vince non si sottrae alla morte. Allora c’è il bisogno di una autorità come consapevole abdicazione del diritto di resistenza. C’è un punto nella differenza delle forze in cui gli uomini si eguagliano, ed è la comune esposizione alla morte. La politica quindi amministra la morte per salvaguardare la vita. Il potere allora assume la forma di essere insieme legittimo, neutrale e rappresentativo. Questa è la politica dei moderni. Con Hobbes il potere nasce come neutrale, legittimo e rappresentativo. Perché nascendo dalla cessione del diritto di resistenza deve essere legittimo, problema questo che Aristotele non si poneva. Cambia allora tutta la struttura della virtuosità e in modo completo. Nel modello antico infatti la virtuosità si formulava così: se tu non agisci bene si dissolve lo stato. Si trattava di una nemesi naturale. Nel cristianesimo la virtuosità diventava: il principe deve essere buono e deve rispondere della sua bontà non ai cittadini ma a Dio. Dio lo punirà se il principe non eseguirà come deve il suo mandato: sarà Dio a giudicare l’opera del principe, non il cittadino. Con il modello hobbesiano Dio diventa il cittadino: è il cittadino che giudica della legittimità della virtù del principe, ritraendo il mandato. Nella modernità attraverso la legittimità e la neutralità la dimensione virtuosa della politica trova il suo termine di giudizio nella cittadinanza. Il potere hobbesiano, da modello assolutista diventa e si trasforma in modello democratico. Lo schema è questo: si risponde della propria virtù politica non a Dio ma al popolo. A questo punto la divaricazione tra virtù privata e virtù politica diventa incondizionata, perché non è necessario essere intimamente virtuosi o buoni perché vi sia buona politica. C’è quindi una combinatoria del modello machiavellico con il modello hobbesiano. In fondo Hobbes riduce l’elemento di soggettività politica, di personalismo politico, perché istituzionalizza la rappresentanza. Nel fare questo però produce una differenza strutturale tra la virtù privata e la virtù pubblica. Quale è allora la virtù per eccellenza che rimane alla politica? È la legalità. Non più la conformità alla natura, perché non si sa cos’è.. Non si sa che cos’è il bene. Virtù è invece la conformità al patto: la legalità. L’unica virtù che la nostra società richiede al politico è la legalità. Il politico è subalterno egli stesso alla legge, cioè al patto. Questa è diventata la virtù politica per eccellenza.
Nel moderno essere virtuosi non vuol dire più essere buoni (o sempre meno essere buoni), vuol dire soltanto essere legali. Quali conseguenze ne derivano? Che tutto ciò che è individuale si sottrae al giudizio. È allora irrilevante alla politica l’individuale, il privato? Non è giudicabile dalla politica, essendo rimasta come unica virtù la legalità. Possiamo dire che è irrilevante. Possiamo tuttavia immaginare che senza il controllo delle proprie passioni si possa fare buona politica? Che cioè senza la continenza degli interessi e dei desideri si possa fare buona politica?
Se formalmente la richiesta della buona politica è la legalità, se non c’è una formazione degli uomini alla bontà, come richiesto dal modello aristotelico, la legalità è sempre sotto scacco. Senza l’educazione del proprio desiderio la legge tende sempre ad essere aggirata e violata. Il formalismo giuridico quindi non salvaguarda la bontà della politica. È vero che ciascuno deve essere buono per suo conto, deve essere ben formato per suo conto e la legalità, quale cerniera e frontiera tra ciò che è giusto e ciò che non è giusto, aiuta la buona formazione. La legalità aiuta gli uomini ad apprendere le tecniche per diventare buoni, però si potrebbe arrivare anche alla situazione per cui si è legali senza essere buoni. È importante che si sia buoni, anche essendo legali. A questo punto lo spazio della virtù è più grande di quello della politica. Bisogna quindi essere riduttivi rispetto alla politica, l’iperpoliticismo è sbagliato. Alla politica dobbiamo chiedere la sua virtù. Non dobbiamo chiedergli di più, perché quando la politica ha voluto essere virtuosa e ha voluto insegnare agli uomini ad essere virtuosi è diventata tracotante e terribile. In nome della virtù si sono commessi i più grandi delitti. Alla politica è necessaria la virtù nel senso che l’uomo rende migliore la politica, ma bisogna togliersi dalla testa l’idea che la politica possa rendere l’uomo buono. In questo modo, questa capacità di essere legali come funzionale al poter diventare buoni e quindi al dominio delle proprie passioni può sviluppare una dimensione che chiamerei chiaramente impolitica: è la pratica del dono, che può influire anche sulla politica ma non è immediatamente politica. La legalità è quell’elemento pedagogico per la costruzione di una amicizia universale. La politica oggi è il regolatore delle opportunità e delle mobilità sociali, lo spazio che deve rendere possibile l’incontro tra gli uomini. Non sarà tuttavia in nome della politica che gli uomini incontrandosi si chiameranno amici. Paradossalmente allora abbiamo la rivincita di Aristotele sul cammino dei moderni.