Pierluigi Castagnetti, Antonio Pizzinato, Fabio Milana e Gianbattista Armelloni ricordano Giovanni Bianchi presentando il suo ultimo libro “Resistenza senza fucile”

Giovanni Bianchi, Resistenza senza fucile

“Credo che riandare a vedere i fatti della Resistenza in questo modo ti arricchisce, non è soltanto fare memoria. La memoria è essenziale, ma è un modo per creare un punto di vista, per guardare la vicenda nella quale, a qualche titolo, siamo dentro, ma per andare avanti.” –  Giovanni Bianchi, Avvenire “La resistenza dei senza odio” 24 agosto 2017

14 ottobre 2017, Sala Clerici ACLI Milano: Castagnetti, Pizzinato, Gaiani, Milana e Armelloni ricordano Giovanni Bianchi

14 ottobre 2017, Sala Clerici ACLI Milano: Castagnetti, Pizzinato, Gaiani, Milana e Armelloni ricordano Giovanni Bianchi


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Apertura di Lorenzo Gaiani

Intervento di Fabio Milana

Intervento di Antonio Pizzinato (dal minuto 5:08)

Intervento di Pierluigi Castagnetti (dal minuto 4:00)

Intervento di Fabio Milana (dal minuto 0:18)

Intervento di Gianbattista Armelloni (dal minuto 1:45)

Interventi del pubblico e chiusura di Lorenzo Gaiani

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Castagnetti, Pizzinato, Milana e Armelloni ricordano Giovanni Bianchi

Testo dell’intervento di Fabio Milana

per Giovanni

Non per caso vogliamo parlare di un “profilo intellettuale” di Giovanni Bianchi. Non intendiamo dire che aveva una sua cultura (o, tanto meno, tracciarne la mappa): questa attribuzione la condividerebbe con qualsiasi altro uomo pubblico, e a dire il vero anche non pubblico. Neppure vogliamo dire che ha esercitato delle competenze tecniche specifiche, o ha dato un contributo a un ramo particolare del sapere o del fare tecnico appunto: non questa è stata la sua storia. Evochiamo piuttosto quella dimensione intellettuale che è sottesa al ruolo del dirigente politico, sindacale o associativo, per come questo tipo di ruolo, e la figura umana corrispondente, si sono disegnati nel Novecento – cioè come esponenti di una “cultura politica” precisa, e non di rado come intellettuali prestati all’azione sociale o alla contesa civile in genere. Tutto ciò ci suona familiare, penso; ma per lo stesso motivo ci è familiare anche la rovina recente di questa tradizione, e perciò anche l’eccezionalità umana dell’esperimento politico-intellettuale che abbiamo alle spalle.

Parliamo perciò anzitutto di come Giovanni abbia interpretato, nella sua eccezionalità, questo ruolo di intellettuale-politico. E per prima cosa richiamerei l’attenzione proprio su quel trattino di congiunzione, e sottolineerei, di Giovanni, l’apertura della mente e la generosità di “comunicatore”. Mi pare che sia stato un recettore e un moltiplicatore di intelligenza, di informazione, di pensiero, o anche solo di suggestione intellettuale, per come egli ne riceveva da altri e immediatamente comunicava ad altri. Chi ha sentito i suoi discorsi o letto le sue cose, sa di cosa parlo: c’è una ricchezza, una nobiltà del suo dire, che trascende o almeno integra l’intento pratico-politico immediato, e sempre solleva i destinatari al livello del privilegio – il privilegio del sapere e del pensare. Non si tratta di abbellimenti retorici, per quanto anche lui possa aver ceduto talvolta al manierismo: è, credo, proprio un’idea della bellezza e della nobiltà della politica che si esprime in questo suo comunicare. Anche per questo motivo, forse, Giovanni non è stato, nemmeno all’apice della sua carriera politica, un personaggio “mediatico”.

Ma in questo modo è stato certamente un punto di riferimento per tanti, soprattutto giovani, che gli sono stati poi vicini, hanno lavorato con lui, ne sono stati valorizzati. Ancora prima di tutto ciò, Giovanni era curioso dell’intelligenza altrui, vorace del sapere di altri, pronto a raccogliere ogni sfida intellettuale che gli sembrasse pertinente ai terreni che lui praticava – e non erano poi pochi. Sarebbe sufficiente ricordare l’attività dei Circoli Dossetti in quest’ultimo decennio o poco più, che si articolava sulla presentazione di libri e autori, piste di ricerca e proposte di pensiero, uniti direi dall’apertura alla novità: la novità contingente della storia come la novità senza tempo dell’intelligenza. – Ma si potrebbe anche consultare il catalogo della sua produzione scrittoria che, a un veloce sondaggio tra i meandri del Servizio bibliotecario nazionale, supera le cento entrate: vi si troverebbe un gran numero di collaborazioni, e non solo a volumi collettanei, o in margine a libri di altri autori. Giovanni ha scritto moltissimo insieme ad altri, e anche grazie e attraverso altri, spesso giovani, i cui nomi sono nella mente di tutti.

Io ho conosciuto bene solo uno di loro, e solo attraverso di lui ho potuto avvicinare Giovanni. Il mio è stato dunque un rapporto a Giovanni sostanzialmente mediato da altri. Se penso al suo rapporto con Pino Trotta, mi sembra di vedere non solo un esempio evidente di quanto ho detto, ma quasi, come in un negativo fotografico, il profilo della personalità intellettuale di Giovanni. La loro collaborazione, che è durata vent’anni ed è stata almeno per certi periodi strettissima, ha del sorprendente, se si considera l’opposta qualità delle due anime. Di questa loro alchimia fatta di opposizione polare e di complementarietà funzionale, non voglio qui parlare in dettaglio; mi limito però a un carattere che secondo me ci aiuta a capire e a procedere. Direi che, tra i due, tra tutto l’altro, Pino rappresentava il momento della radicalità, Giovanni quello della mediazione – che è poi un altro modo di dire la teoria e la pratica, o la strategia e la tattica, la teologia e la politica. Non che l’intellettuale-politico si distribuisse tra loro in due mansioni separate, quasi in due specializzazioni inerti. No, piuttosto in due traiettorie che compivano lo stesso percorso, ma in direzioni contrarie.

Quel che interessa qui è questo tratto di quella che chiamerei la “psicologia intellettuale” di Giovanni. Essa amava la provocazione, l’estremizzazione del pensiero, lo spiazzamento delle posizioni: le andava ricercando, ne sentiva il bisogno per mettersi in moto. Subiva il fascino della negazione: nelle figure estreme della spiritualità soprattutto novecentesca così come nel paradosso teologico, nell’invenzione sociologica inedita come nel teorema politico-pratico ardito. Aveva bisogno di tutto ciò per poterlo mediare: nel duplice senso di trasmetterlo ad altri, come elemento dinamizzante del discorso comune – e al contempo di “ridurlo”, il che significa nel suo caso: ammetterlo a coabitare con altro, di altro segno. Potrei fare molti esempi, ma l’esempio degli esempi è in fondo la redazione della rivista «Bailamme» (1987-2002), che Giovanni ha reso possibile e ha generosamente presieduto.

Mi sono chiesto, ci si può chiedere, quale sia la matrice remota di questa “psicologia intellettuale”. Io ho l’impressione che affondi in un passaggio di storia religiosa: un passaggio collettivo evidentemente, ma che assume poi nei singoli accenti singolari. Lo ridirei così: l’incontro di un cattolicesimo tridentino (“preconciliare”) con la modernità, e specificamente con la modernità italiana. Giovanni ha avuto 25 anni nel 1964. 25 anni, secondo l’indicazione del suo (e nostro comune) maestro Dossetti , è il periodo di tempo in cui si plasma e si manifesta “l’oro delle origini” – traduco: una luce, o una lucentezza che niente, poi, nella vita, potrà più modificare. 1964: il “boom” economico appena alle spalle, un Concilio ecumenico che sta per chiudersi, un centro-sinistra che ha già dato tutto il meglio di sé. Questa cronologia ci suggerisce alcune cose. E anzitutto: che una fede forte ha avuto il tempo di insediarsi, nel profondo, lungo un’epoca in cui a veicolarla sono per eccellenza l’oratorio e l’Azione cattolica, le “vitelle dei santi” e l’insegna “primi in tutto” – su cui Giovanni è ritornato più volte nei suoi scritti -, cioè contenuti e contenitori tradizionali, che guardano il “secolo” dall’alto o da lontano, ma in ogni caso da posizione di forza. E a un dato momento di questa giovinezza, l’irrompere tumultuoso del “secolo” nella vita quotidiana, nel costume, nella coscienza pubblica e privata, negli equilibri politici e nella stessa riflessione ecclesiale. Una contingenza straordinaria, abbracciata, è da credere, con giovanile entusiasmo e generosità – ma nondimeno un trauma, che andava a scuotere delle fondamenta per altro verso inescutibili. So poco della biografia di Giovanni, e nulla del suo tempo giovanile; non posso perciò escludere che il suo ambiente sestese, la sua estrazione operaia, la stessa educazione religiosa lo abbiano predisposto a quell’incontro; né è difficile credere che il decennio ’65-’75 abbia aggiunto ad esso altre ragioni e persuasioni. Ma la “modernità italiana” cui mi sono richiamato non va in fondo al di là di quei due decenni – e due papati – 1958-1978: troppo poco per stabilire una sintesi di contrari, quale può forse essersi data “naturalmente” per generazioni successive. Intendo dire che il rapporto al moderno si è fissato in Giovanni – da subito, per sempre, o per riapparire così in età adulta – in una forma agonistica: tutt’altro che naturale, ovvia estensione dell’Incarnazione alla storia, o della Rivelazione ai moderni – ma come un confronto drammatico, continuamente accettato e continuamente sofferto; ricercato per un verso, come la sfida, la negazione necessaria di cui parlavo; esorcizzato per altro verso, o quanto meno risarcito attraverso il sacrificio di sé nella militanza quotidiana e itinerante, la pratica personale della preghiera e della purificazione, la prospettiva ultima di una liberazione collettiva.

Penso che noi non avremmo avuto Giovanni come l’abbiamo avuto, col fascino della sua parola, i retropalchi del suo pensiero e azione, le molte valenze della sua personalità, senza questa sua interna ferita. “Mistica e metropoli” è il tema di ricerca su cui per la prima volta – insieme con altri – ho incontrato Giovanni, alla fine degli anni Settanta; “eremo e metropoli” è ancora oggi l’insegna dei suoi “Circoli Dossetti”; nel mezzo, negli anni ’90 della sua Presidenza alle Acli, i convegni di Urbino con p. Pio Parisi: quando il “secolo” diventa “norma”, senso comune della vita, lì la fede torna a dare scandalo, e proprio per ciò occorre “convertirsi al Vangelo” (i segni algebrici si presentano qui invertiti, ma identico è il dinamismo). Queste che ho citato non sono certo le evidenze maggiori dell’attività pubblica di Giovanni, ma sono, credo, gli aspetti di essa più singolari, meno traducibili in altri curricoli di politici cristiani.

Certo in questo tipo di percorso Giovanni non è stato solo e non è stato il primo. Per questo ha potuto avere dei maestri che lo hanno preceduto e ispirato. Penso naturalmente a Maritain e soprattutto Mounier, due personalità risolutamente antimoderne (addirittura il primo, come si sa, autore di un paradigmatico Anti-moderne) ma che, davanti al fascismo e al fordismo, hanno ritenuto doversi scommettere intellettualmente ed esistenzialmente sul terreno comune della storia, con l’idea di riscattarla dal suo interno o per mezzo di forze ad essa interne. Mantenendo peraltro una distinzione dei piani, e un primato dello spirituale, o aggiungendo l’aggettivo “tragico” a un ottimismo che si sa provvisorio, anzi votato al fallimento.

Dove invece Giovanni è solo, e la sua voce non può essere confusa col coro di maestri, compagni e amici di che è attraversata la sua scrittura – è nella sua poesia; nella sua poesia più che nella sua narrativa, ovviamente, dove non è di scena l’io. Ed è in questa regione dell’io, non per nulla praticata costantemente lungo i decenni e fino agli ultimi giorni, che andranno cercati i riscontri decisivi. (Ma è una mossa retorica, quella a cui sto qui ricorrendo. In realtà è proprio dalla poesia di Giovanni che sono partito per ripensarlo, non disponendo io di altra via a lui più diretta di questa.) Ora, si tratta di una poesia del lacerto e del collage, del prelievo dal linguaggio quotidiano, anche infimo, da quello della comunicazione pubblica e magari pubblicitaria (la “lingua di plastica” già parodiata dai neoavanguardisti), o ancora dai linguaggi tecnici, compreso quello della tradizione letteraria alta. Questo gusto del pastiche linguistico ha una solida tradizione lombarda, com’è noto, soprattutto prosastica, secondo una vocazione espressionista che accoglie, accosta, aggiunge, porta all’eccessivo e perfino al mostruoso la sua mimesi del reale. In Giovanni costituisce una stilizzazione dello choc, della provocazione continua che sale verso l’anima dal disordine del reale, dallo scialo di vita cui è condannato l’attivista, dalla condizione di esilio di chi abbia detto di sì al mondo com’è, o meglio al mondo com’è diventato. In verità, lo choc è attenuato dal suo stesso riproporsi, e dal movimento dell’ironia che sorge dagli stessi accostamenti incongrui, stranianti. Dico ironia, e non intendo quel fondo di bonarietà lombarda, anzi lombardo-cattolica, che pure può avvertirsi a tratti nel tono di voce. Ma ironia in senso tecnico, come il reciproco relativizzarsi dei diversi codici linguistici, nessuno dei quali si mostra portatore di un senso pieno, di un valore assoluto di verità. La verità sta altrove, umiliata e offesa, in una patria che potrà essere forse ritrovata alla fine dei giorni, ma che all’io non è disponibile, qui ed ora, se non come silenzio, come attesa – o come nostalgia.

Non ho fatto nomi, e i nomi non sono pertinenti in questa sede. Però se dovessi farne uno solo, farei quello che non ti aspetti, il nome di Pasolini. I temi e i tempi sono diversi, e l’analogia è solo “tipologica”, benché a volte, in superficie, sia dato anche di risentire la particolare inflessione di voce che è dei poemetti pasoliniani anni ’50. Giovanni ha però avuto la grazia di compiere la sua vita senza doversi ricredere, senza mai cedere alla disperazione, neanche quando i segni dei tempi hanno assunto un indice stabilmente negativo, e vittoriosamente ostile.


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