Credo nessuno possa sottovalutare il significato della grande riforma del sistema sanitario nazionale che il presidente degli Stati Uniti Barack Obama ha portato a compimento nel marzo 2010: oggettivamente parlando si tratta di un atto rivoluzionario che, correttamente, è stato interpretato come tale anche da parte dei più accaniti avversari della riforma e del Presidente stesso, i quali non a caso hanno risposto con un’opposizione feroce e a tratti isterica.
E’ come se sull’argomento fossero cadute tutte le maschere che nel periodo della cosiddetta “luna di miele” avevano trattenuto il Partito Repubblicano ed i suoi supporter dallo scagliarsi contro il primo Presidente di colore della storia della superpotenza globale. Il dato di fatto è che, se è vero, come afferma il Premio Nobel per l’economia Paul Krugman , che la vera grande questione nazionale degli USA è quella razziale, e che i repubblicani da Nixon in poi l’’hanno affrontata facendosi sempre più interpreti –loro, il partito di Lincoln e di Grant- del risentimento degli Stati del Sud contro i neri e più in generale i sostenitori dell’integrazione e della società multirazziale, diventa allora comprensibile l’astio razzista ormai dichiarato delle televisioni e delle radio di destra nei confronti del “negro” che oltre ad occupare una posizione che dovrebbe essere per sempre preclusa agli uomini della sua razza si permette anche di compiere atti politici che ledono gli interessi concreti di cui i repubblicani sono i tutori.
E in effetti, alla base delle feroci discriminazioni di classe che regolano la società statunitense, le differenze rispetto alla possibilità di essere decentemente curati se ci si ammala sono una delle maggiori e delle più drammaticamente ingiuste e incomprensibili agli occhi degli europei. Di fatto, salvo frange marginali, possono essere curati in ospedale solo coloro che sono titolari di assicurazioni sanitarie, tutte rigorosamente private, che sono generalmente collegate alla posizione lavorativa ed al reddito del titolare, e che evidentemente cessano di aver valore non appena il titolare, magari perché ha perso il posto di lavoro, non è più in condizione di pagare le quote. Inoltre gli ospedali si riservano spesso l’insindacabile diritto di selezionare fra le varie assicurazioni quelle più appetibili, quelle in grado di essere remunerative per l’ospedale stesso, che deve provvedere alla remunerazione del personale e al rinnovamento delle attrezzature senza poter contare su di un sistema sanitario nazionale di fatto inesistente.
L’obbligo della copertura pressoché universale delle assicurazioni mediante il loro finanziamento indiretto da parte federale costituisce il cuore della riforma: esso è stato variamente criticato, non solo da destra (perché la destra, tutte le destre, bisogna sempre tenerlo a mente, anche quando si ammantano di populismo e di difesa a buon mercato della “piccola gente” contro l’elitismo vero o presunto della sinistra, operano sempre, solo ed esclusivamente a vantaggio degli interessi del big business) ma anche da chi a sinistra lo ha accusato di non andare abbastanza verso il modello europeo, soprattutto perché non implica una vera e propria costituzione di un sistema pubblico di tutela della salute sul modello europeo. Per non parlare dell’atteggiamento della Chiesa cattolica, la quale ha mostrato una sostanziale indifferenza nei confronti della tematica della copertura sanitaria universale concentrando la propria attenzione sulla questione dell’aborto, che sta diventando una sorta di ossessione monomaniacale in cui si esauriscono le considerevoli tradizioni del cattolicesimo sociale statunitense.
E tuttavia qui interessa il metodo riformatore di Obama, che si è articolato in fasi diverse: in primo luogo la dichiarazione della proprietà della riforma, poi la sua enucleazione, poi la capacità negoziale anche a prezzo di sacrificare alcuni elementi dell’architettura complessiva del progetto, la capacità di tenerlo comunque vivo attraverso una propaganda martellante per controbattere quella altrettanto martellante degli avversari (che potevano attingere alle ricche riserve messe a disposizione dalle impaurite compagnie di assicurazione) , la contrattazione allo spasimo, la mobilitazione della pubblica opinione democratica e degli incerti, fino al contrastato voto finale.
E’ bene ricordare che negli USA il controllo del Presidente sui parlamentari del suo stesso partito è più teorico che reale, e lo stesso Obama non ha potuto contare alla Camera bassa su tutti i voti democratici, riuscendo a convincere solo una frazione di antiabortisti del suo partito con alcune concessioni alla loro linea, e non ricevendo comunque alcun voto dall’altro partito.
Ecco, riformare significa tenere gli occhi fissi sull’obiettivo dall’inizio alla fine e non deflettere, pur facendo concessioni, dalla volontà di portare a termine la propria missione spiegando passo a passo a tutti quanti hanno un interesse diretto o indiretto nella questione che cosa esattamente si intende fare. Il paragone con gli autoproclamati riformisti europei o, peggio ancora, italiani è impietoso, soprattutto a fronte della loro tendenza a sbracare di fronte all’avversario per mancanza di fiducia in se stessi e nelle proprie idee ( o, più esattamente, per la carenza delle idee stesse).
E in definitiva, chi, fra tanti sicofanti e mediocri attaccati ai loro miserabili scampoli di potere più che ad una dignità e ad una coerenza che non hanno, sottoscriverebbe la frase di Obama “preferisco quattro anni di mandato significativi a otto senza infamia e senza lode”?