Le recenti vicende della più nota azienda meccanica del nostro Paese, la FIAT, e del suo indotto, possono configurarsi come opportunità se se ne traggono le opportune lezioni. Innanzitutto è evidente che a Mirafiori, come già l’anno scorso a Pomigliano d’Arco, non vi è stata alcuna trattativa: la proprietà ed il management, nella persona di Sergio Marchionne, hanno portato una proposta al tavolo sindacale e l’hanno dichiarata non trattabile. Prendere o lasciare, insomma, e quasi tutte le sigle sindacali ivi presenti, con l’eccezione della FIOM e dei Cobas, hanno preso.
Eppure, anche questo scenario desolante può aprire, come si diceva prima, delle opportunità.
Occorre infatti accettare pienamente la sfida che sarebbe sottesa al modello aziendale imposto da Marchionne. Prescindendo dal fatto che il piano industriale proposto dal manager svizzero-canadese – e che dovrebbe essere parte integrante dell’accordo aziendale- rimane ancora largamente fumoso, al di là delle pur apprezzabili garanzie di continuità occupazionale nell’area torinese, il problema è di capire se ciò prefiguri un diverso modello di rapporti sindacali e sociali, che punterebbe alla responsabilizzazione dei lavoratori e delle loro rappresentanze nel contesto di una partecipazione alla gestione e agli utili aziendali secondo l’esperienza tedesca. Solo che qui non c’è traccia alcuna di tale modello, ed anzi il dato evidente è quello che si smantellano di fatto alcuni dei capisaldi del modello tradizionale dei rapporti aziendali in Italia senza che alcun meccanismo di corresponsabilizzazione dei lavoratori venga effettivamente posto in essere. E’ovvio che qui si apre uno spazio enorme per chi voglia portare avanti modelli diversi, puntando da un lato su di una regolamentazione della rappresentanza aziendale che tuteli le minoranze senza dar loro un potere di veto sugli accordi confermati dal voto dei lavoratori, e dall’altro dia peso e sostanza alle rappresentanze dei lavoratori sulle scelte aziendali e sulla partecipazione agli utili.
“Il nostro Paese – rilevano gli economisti Giuseppe Ciccarone ed Enrico Saltari, che provengono dalla scuola del “riformista solitario” Federico Caffè – non può pensare di curare la malattia della bassa produttività soltanto riducendo il peso del contratto di lavoro nazionale in favore della contrattazione decentrata e aumentando la quota del salario legata alla produttività realizzata. E’ invece necessario ripensare la contrattazione, legando la crescita dei salari non alla crescita della produttività effettivamente realizzata ma a quella programmata o contrattata dalle parti sociali. Inoltre, se la rilevanza attribuita alla flessibilità interna deve essere aumentata, quella della flessibilità esterna deve essere al contempo ridotta attraverso la semplificazione delle forme contrattuali” .
Quel che si chiede è uno sforzo di creatività della politica per inserire le nuove sfide del mercato in un quadro di garanzie più ampio e meno occasionale, visto che fra l’altro le possibilità di finanziamento degli ammortizzatori sociali tradizionali si stanno sempre più riducendo.
Questo vale ovviamente per tutti gli attori del dialogo sociale: vale per i sindacati, a cui rinnoviamo l’appello per l’unità d’azione: a tutti loro chiediamo di riflettere se le derive solipsistiche da un lato, e l’eccesso di disponibilità alle logiche governative ed imprenditoriali dall’altro, siano la strada migliore per rispondere alle inquietudini di quanti, dentro e fuori del mondo del lavoro, chiedono un movimento sindacale coeso, forte, attento alle istanze dei lavoratori e soprattutto autonomo non dalla politica – cosa in sé impossibile- ma dalle logiche politicistiche.
Vale anche per la Confindustria, la quale di recente ha scoperto che l’Italia è bloccata, che il Governo non ha fatto nulla per lo sviluppo e l’occupazione, che la politica è ridotta a litigio permanente. Nello stesso tempo però certi umori ancora aleggiano al suo interno, ed infatti, nelle interviste televisive ai partecipanti alla recente “marcia di Treviso” promossa dall’ organizzazione datoriale si è udito un attempato signore (probabilmente un Commendatore) dire che “l’Italia è tutta un pagliacciaio (sic!)”, e un signore un po’ più giovane (probabilmente un Cavaliere del lavoro) dire che “il 90% dei politici non ha mai lavorato in vita sua”: è da immaginare che tutti gli altri Commendatori e Cavalieri del lavoro che partecipavano alla scampagnata condividano questi punti di vista, per la verità non particolarmente originali né anticonformisti. Il problema è che queste frasi potrebbero ripeterle pari pari gli attuali governanti, e in effetti lo hanno fatto, e più di una volta, alimentando con le loro parole ed i loro atteggiamenti il mito dell’ “uomo del fare” che è uno dei connotati più vistosi dell’antipolitica di questi anni.
L’accordo raggiunto fra CGIL-CISL-UIL da un lato e i vertici confindustriali dall’altro alla fine di giugno va probabilmente in questo senso, ed è spiacevole che, per riflesso condizionato o per cinico calcolo, settori della sinistra sindacale e politica vi si oppongano aprioristicamente, magari sull’onda del becero protagonismo di Giorgio Cremaschi e di altri figuri rappresentativi di un certo sindacalismo parassitario che specula sulle difficoltà e spesso sulla disperazione dei lavoratori per affermare il loro professionismo del no ad ogni costo.
Ogni passo verso il recupero di un intento unitario fra le forze sociali e del lavoro deve essere preservato ed incoraggiato con estrema cura.