Un anno fa l’ombra di Celestino V, se proprio Dante si riferiva a lui in quel breve inciso dell’ Inferno, tornò ad aggirarsi per le stanze del Palazzo apostolico quando Benedetto XVI si dimise dal Soglio di Pietro fra lo stupore generale.
Papa Ratzinger che si accomiata con il botto inatteso delle dimissioni segna anche la fine dell’egemonia del Vecchio Continente. Nuovi popoli urgono nella storia e contro la storia, e sollecitano la Chiesa madre e maestra. Non è piaggeria quella di Beppe Vacca, storico presidente della Fondazione Gramsci, con Mario Tronti, Piero Barcellona e Paolino Sorbi della squadra definita dalla stampa dei “marxisti ratzingeriani”, quando rendendo omaggio alla statura del papa tedesco lo definisce il maggior intellettuale europeo vivente.
Basta aver letto un pezzo dell’enciclica “Caritas in Veritate” per restare incantati dallo stile di Ratzinger, che fa pensare alla prosa d’arte dei primi secoli del cristianesimo e può essere addirittura mozartianamente solfeggiato. Se poi si risale al menzionato colloquio tra il filosofo francofortese Jürgen Habermas e l’allora cardinale Joseph Ratzinger, svoltosi a Monaco di Baviera nel gennaio del 2004 per rispondere alla domanda: “La democrazia liberale ha bisogno di premesse religiose?”, non si può che restare impressionati dalla superiorità dialettica del futuro pontefice, al punto che, chi è abituato fin da ragazzo a parteggiare per Ettore contro Achille, si trova a prendere le parti del filosofo piuttosto che quelle del futuro papa…
Nella grande assise ecumenica vinsero i pensatori cristiani e le ideologie che erano avversati dalla curia romana. Emblematica la consegna fatta da papa Paolo VI alla fine del concilio del messaggio a tutti gli intellettuali del mondo nelle mani del filosofo francese Jacques Maritain, fin lì messo all’indice. Ma già l’immediato dopo concilio e i gruppi di lavoro esterni all’assise avevano spostato l’asse verso le chiese lontane dal Vecchio Continente. Non si trattava di misurare i livelli e le compatibilità dell’ortodossia, quanto di mettere alla prova nella vita concreta la rinnovata fecondità del messaggio cristiano. Si addicevano di più al Vangelo le posizioni che testimoniavano correttamente, piuttosto che quelle che misuravano i confini delle compatibilità culturali. Detto in termini dannatamente tecnici: non tanto l’ortodossia, quanto piuttosto l’ortoprassi. Non chi dice Signore Signore, ma chi mette in pratica la parola evangelica.
Su queste posizioni si attestavano in particolare le chiese del nuovo mondo, allenate alla ricerca di nuovi sentieri di testimonianza, e non tanto per le posizioni che vanno in mazzo sotto l’etichetta di “teologia della liberazione”. Non tanto le grandi conferenze di Medellin e Puebla, ma le testimonianze molteplici e anonime sul campo.
Le avvisaglie della svolta si erano già avute durante i lavori conciliari dove avevano campeggiato in particolare due interventi di grande respiro programmatico. Il primo era stato svolto dal cardinale Frings, ormai cieco, e che aveva fatto tesoro dei suggerimenti di un giovane teologo bavarese di nome Joseph Ratzinger. Il secondo fu quello svolto dal cardinale di Bologna Lercaro, scrittogli nottetempo dall’esperto che si era portato al seguito, don Giuseppe Dossetti. E l’intervento di Lercaro è passato alla storia per la sua insistenza sulla Chiesa dei poveri e la Chiesa povera. Il programma ripreso con semplicità e vigore dal Papa argentino e che subito dopo la chiusura del concilio era stato fatto proprio da un gran numero di vescovi raccolti intorno a un documento suggestivamente definito “il patto delle catacombe”.
Una Chiesa che accompagna gli uomini di fronte alle nuove difficoltà con mezzi poveri e con quella che venne definita “l’opzione preferenziale per i poveri”.
L’aggiornamento conciliare voluto da papa Giovanni XXIII implica tutto ciò e legittima l’amarezza dell’ultima intervista rilasciata prima della morte dal cardinale Carlo Maria Martini, e per questo considerata il suo testamento spirituale: “La Chiesa è stanca, nell’Europa del benessere e in America. La nostra cultura è invecchiata, le nostre chiese sono grandi, le nostre case religiose sono vuote e l’apparato burocratico della Chiesa lievita, i nostri riti e i nostri abiti sono pomposi”. Per concludere: “La Chiesa è rimasta indietro di duecento anni. Come mai non si scuote? Abbiamo paura? Paura invece di coraggio?” .
Ecco, quasi a rispondere all’ illustre confratello a pochi mesi di distanza Benedetto XVI compiva il gesto più coraggioso che un uomo possa compiere in questo frangente storico dominato dall’ipertrofia dell’ego: mettersi da parte, riconoscere di non poter andare al di là delle proprie forze, riconsegnare al Signore il mandato ricevuto in ossequio ad un disegno superiore.
Con questo gesto Joseph Ratzinger ci insegna che umiltà non è una parola vana, e questo ci è di ineffabile conforto.