Miguel Gotor. Il memoriale della Repubblica.

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Corso di formazione alla politicaQuesto libro non è una storia, o meglio non è la semplice narrazione del destino di un testo, non è neppure uno tra i tanti libri della sterminata bibliografia sul caso Moro. Gotor opera una scelta più complessa, interpreta il proprio mestiere di storico attraverso un’ermeneutica degli avvenimenti che fanno la storia del memoriale Moro, e pone subito le domande di una ricerca: quale è stata la sorte degli originali e insieme quale è il livello di completezza del memoriale? Perchè i brigatisti non distribuirono i testi di Moro come avevano promesso di fare? Come funzionò il doppio ritrovamento in via Montenevoso nel 1978 e poi nel 1990?

Miguel Gotor. Il memoriale della Repubblica.

1. leggi il testo dell’introduzione di Marica Mereghetti

2. leggi la trascrizione della relazione di Miguel Gotor

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1 premessa di Giovanni Bianchi 05’03” 2 Salvatore Natoli presenta il corso 11’45”3 introduzione di Marica Mereghetti a Miguel Gotor 12’10”4 relazione di Miguel Gotor 1h.09’40”5 prima serie di domande 06’03”6 risposte di Miguel Gotor 22’53”7 seconda serie di domande 13’30”8 risposte di Miguel Gotor 26’07”9 terza serie di domande 07’29”10 risposte di Miguel Gotor 24’13” – Salvatore Natoli chiude l’incontro 09’17”

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Testo dell’introduzione di Marica Mereghetti a Miguel Gotor

Questo libro non è una storia, o meglio non è la semplice narrazione del destino di un testo, non è neppure uno tra i tanti libri della sterminata bibliografia sul caso Moro.
Gotor opera una scelta più complessa, interpreta il proprio mestiere di storico attraverso un’ermeneutica degli avvenimenti che fanno la storia del memoriale Moro, e pone subito le domande di una ricerca: quale è stata la sorte degli originali e insieme quale è il livello di completezza del memoriale? Perchè i brigatisti non distribuirono i testi di Moro come avevano promesso di fare? Come funzionò il doppio ritrovamento in via Montenevoso nel 1978 e poi nel 1990?1

Gotor ricostruisce la vicenda del memoriale, della sua scrittura, della sua pubblicizzazione e del suo nascondimento da parte dei brigatisti, del suo primo ritrovamento imperfetto e delle censure operate da qualche apparato dello stato (con Dalla Chiesa da una parte a preservare prove e dall’altra il resto della caserma Pastrengo di Milano ben rappresentata nella P2), del suo secondo “fortunoso” recupero, delle sue parti mancanti, delle interpretazioni, delle riduzioni interessate, del disconoscimento denigratorio.
Insieme alla storia di un testo, Gotor ricostruisce il contesto di quei cinquantacinque giorni e dei tempi a seguire: il contesto politico, la piazza e il movimento, le segrete stanze dei palazzi romani, gli interessi stranieri su questa povera terra di frontiera, le trame oscure dei servizi, quell’appartamento.

La storia di quel testo non può prescindere dai testimoni – e, sia detto per inciso, Gotor svolge una accurata disamina dell’ambiguità di un discorso storico che sia una mera glorificazione del ruolo del testimone, che in questa vicenda parlano, tacciono, ambiguamente cambiano versione e ricordi, muoiono. Né può prescidere dai suoi primi lettori, da coloro che per primi hanno posto domande e cercato risposte in quelle pagine. I morti che più non possono dire (Pecorelli e Dalla Chiesa), e i sopravviventi, coloro che non vogliono parlare o ancora rimestano nell’ambiguità.

E se quelle parole sono le parole di una scrittura prigioniera non possono mancare i carcerieri, coloro che per primi costruirono il “canone” di questo testo; che decisero di non divulgare e pubblicizzare; che fecero domande precise, forse troppo precise; che operarono la prima censura sui testi, la prima manipolazione. Carcerieri: chi nella propria inadeguatezza intellettuale, chi nel furore rivoluzionario, chi nell’ambiguità di una rivendicazione piccolo borghese del proprio ruolo sociale: tutti incapaci di porre freni all’ineluttabile destino, nessuno capace di interrogarsi sull’umanità che pure condividevano con quel prigioniero.

Infine quell’uomo definitivamente solo, aggrappato alla scrittura e alla riscrittura: perchè la scrittura può salvare e dare conforto, svelare verità e velare speranze. La scrittura è qui luogo di autenticità e di responsabilità assolute e illimitate, sguardo di penetrante intelligenza, ancora e sempre tessitura di una mediazione politica anche nell’insostenibilità del momento presente. Non è una scrittura semplice, ma attenta e che non cede alla semplificazione. La prigionia e la sua sofferenza scarnificano, ma rendono forse meno autentici i prigionieri? Non è forse moralmente abietto, e cristianamente irricevibile – anche per una contingente ragion di stato e di stato d’eccezione – negare al prigioniero la ascrivibilità morale delle proprie parole? O pretendere che il prigioniero accetti supinamente il proprio sacrificio, senza riconoscerne, di fatto, il martirio? Quanta solitudine nell’essere abbandonato dagli “amici”, quelli di una avventura politica e quelli degli anni della formazione cristiana e intellettuale. Certo quelle parole furono dolenti e furiose, lucide e analitiche, tenerissime verso la famiglia e poco eroiche rispetto alla retorica della epistolografia dei padri della patria: sono le parole che ci pervennero immediatamente, quelle che leggemmo dopo e quelle che ancora non abbiamo letto e che pure da qualche parte devono esistere, sempre che non siano state perse per sempre. Parole scritte e pervenute sotto un “dominio pieno e incontrollato” (e che qualcuno abbia recentemente mutuato quelle parole per difendere il proprio vuoto politico e morale è pornografia). Quelle parole che facevano paura, rispetto al passato, quelle che prefiguravano la transizione infinita che ancora perdura.

L’ermeneutica storica non si ferma alla lettura dei testi, dei contesti e degli avvenimenti: Gotor attraverso l’esemplarità di quel momento storico e di questa vicenda illumina l’evolversi della storia di questo Paese e della sua classe dirigente. L’essere corpo della politica, l’essere meccanismo del potere ne permettono l’anatomia , la scomposizione, l’osservazione delle sue devianze patologiche, l’anamnesi. E proprio le parole di Moro e le parole del memoriale offrono una lettura lucida della storia e del potere in Italia, delle sue degenerazioni e della sua drammatica implosione, in questi giorni ancora più immediatamente emergente.

Il testo, i poveri resti pervenuteci, è diviso in due parti distinte: la prima è la memoria difensiva del “processo” brigatista, cui però mancano le domande, e una parte testimoniale e testamentaria. Entrambe le parti ricostruiscono – sono un vero e proprio memoriale – la storia del potere in Italia. L’analisi dell’organizzazione del potere in Italia si svolge attraverso quattro ambiti di riflessione. Le crisi politico istituzionali degli anni sessanta; il contesto internazionale delle fasi della crisi; il ruolo svolto dalla Democrazia Cristiana nei passaggi fondamentali della storia della Repubblica; la crisi della repubblica dei partiti negli anni settanta.

La peculiarità dell’analisi politica di Moro, che è la peculiarità del suo progetto politico, è tutta tesa al compiere la democrazia, una democrazia che unita dal respiro alto della Costituzione, si era immediatamente divisa e rinchiusa , per motivi internazionali e insieme interni, economici, sociali, politici, ecclesiali, e si era attorcigliata senza una prospettiva di allargamento della condivisione democratica delle responsabilità. Moro era il punto imprescindibile di una mediazione lenta e complessa, non semplificabile, anche di democratizzazione delle masse popolari e di mobilizzazione dei blocchi sociali (la scelta dell’apertura delle università non poteva che pervenire dalla riflessione giovanile sulla comunità universitaria che Moro aveva percorso). Toglierlo di mezzo ha significato l’avvitamento di politiche difensiviste di una situazione di stallo che è infine implosa con tangentopoli. Il nodo di Gordio della compiutezza della democrazia Moro cercava di scioglierlo nella sua complessità per non spezzare la fune dell’unità del destino della democrazia stessa: dopo di lui, semplificando, si è deciso di tagliare il nodo e con esso il filo della continuità, precipitando, di fatto, la democrazia nel baratro le cui scoscese ripe sono il populismo e il tecnicismo e il cui fondo è un nuovo blocco di sistema.

Gotor condivide il giudizio di Giovanni Moro sulla capacità del padre di tematizzare il conflitto tra il sistema politico e la società, nella consapevolezza della delegittimazione dei partiti che non avrebbero più potuto rivendicare il monopolio della dimensione pubblica. Moro che, per capire le rivendicazioni del mondo giovanile nel ’68, chiedeva permesso alla sua FUCI di assistere alle presidenze, lì dove – come qualche testimone ha sostenuto in colloqui personali – il crinale tra il servire la chiesa e il servire la rivoluzione non era definito. Gotor giustamente afferma che Moro “… sia da libero che da prigioniero, è stato il politico italiano che meglio di ogni altro si è reso conto della crisi delle regole democratiche, intesa come difficoltà del sistema di governo parlamentare di risolvere il dilemma tra rappresentanza e decisione. Un problema comune a tante democrazie occidentali, ma che in Italia, ancora trent’anni dopo, si avverte con particolare urgenza. Moro, con la sua insistenza sulla presenza nella penisola di una destra profonda e non completamente espressa, sembrava ricordare che la nazionalizzazione delle masse nel nostro paese era avvenuto sotto il fascismo e perciò aveva assunto caratteri inevitabilmente autoritari. Una miscela particolare di iperpolitica e di antipolitica che la crisi degli anni Settanta avrebbe riportato in auge, naturalmente sotto forme nuove e adeguate alla mutazione dei tempi. Un fattore obiettivo che avrebbe condizionato gli sviluppi della qualità della democrazia italiana nel lungo periodo, favorendovi l’attecchimento, più che altrove, di modelli populistici e plebiscitari, di cui nelle pagine di Moro si legge in controluce la previsione”. (M, Gotor, “Il memoriale della Repubblica”, pag. 548)

Cosa rimane di quella storia? Cosa quella storia illumina? Gotor riesce a farci percepire come quel testo – e con esso le lettere – siano già in nuce lo sviluppo dell’Italia presente. A volo d’uccello cosa è accaduto dei contesti di quel testo?
La piazza: le piazze si svuotano, si sgonfia l’afflato anche un po’ retorico della rivendicazione dei diritti, si torna a casa, si torna a studiare e a lavorare, si chiude un decennio e si interrompe una faticosa costruzione di comunità. Berlusconi compra Telemilano e rieduca gli italiani titillando il disimpegno e l’antipolitica.

La Democrazia Cristiana: sopravviverà alla sua maledizione sino al 1994 e a tangentopoli, tradendo le sue origini per crollare insieme al muro di Berlino non avendo colto la possibilità di un rinnovamento lento

La sinistra: comincia il grande travaglio della sinistra italiana, anch’essa perde la capacità di incidere sul reale. Divisa in mille rivoli, tentata dalle sirene di un potere facile o rinchiusa in un difensivismo sterile. I giovani maitre a penser della sinistra extraparlamentare tornano a casa anche loro: qualcuno si salva, qualcuno diventa l’arrogante custode della purezza ideologica, qualcuno si concede all’antipolitica e soffia sul fuoco dell’altrui scontento, qualcuno passa senza remore dalla rivoluzione proletaria alla rivoluzione liberista con non poco successo personale – l’importante del resto è fare la rivoluzione, meglio se profumatamente pagati.

La Chiesa: Paolo VI non regge allo “scrupolo”, e la chiesa italiana progressivamente si allontana dal grande respiro del Vaticano II, poi tenterà a varie riprese, senza alcuna intelligenza degli avvenimenti e fallendo le proprie scommesse, di dettare l’agenda della politica cristianamente ispirata stringendo patti col diavolo.

Un memoriale dunque, un memoriale per ricordare, un memoriale che forse è ancora possibile ricostruire se qualcuno, prima di morire o per chiudere in via definitiva la stagione del sangue, decidesse di dire e di illuminare. Perché sarebbe bellissimo che ci fosse luce.

Trascrizione della relazione di Miguel Gotor

Buon giorno a tutti. Io vi ringrazio per essere qui così numerosi. È la seconda volta che partecipo a una iniziativa del Centro di formazione politica del Circolo Dossetti e diciamo che per la seconda volta la partecipazione e l’attenzione non tradisce, anzi aumenta.

Ringrazio veramente sentitamente chi mi ha preceduto, Salvatore Natoli e Marica Mereghetti per le loro parole, per l’inquadramento d’insieme che è stato fatto da Natoli, e per l’intensa lettura del mio libro, una vera e propria recensione, proposta da Marica Mereghetti.

Il mio compito credo che sia oggi quello di provare a indicare un percorso di lettura di questo lavoro. Sono il primo, in quanto autore, a essere consapevole del fatto che è un testo complesso, difficile, in un certo senso contro il tempo e lo spirito del tempo in cui è stato scritto. Viviamo nell’età della comunicazione, della velocità e della liquidità, formule abusate che sappiamo circolare e informare di sé l’opinione pubblica, non solo italiana, ma dell’Occidente tutto. Questo mio lavoro è un libro lento, è un libro pesante, è un lavoro di storia dove, naturalmente, il problema della comunicazione del messaggio resta centrale, altrimenti l’editore, un editore commerciale che ha il legittimo diritto-dovere di vendere i propri prodotti e di tenerli sul mercato editoriale, non l’avrebbe pubblicato. Diciamo pure che è un testo scientifico che ha la fortuna, e ha avuto anche la possibilità di incontrare la sensibilità dell’editore, di accedere a un pubblico più ampio.

Questo è il punto, che si è realizzato attraverso un patto con il lettore che mi è stato chiesto di stringere dall’editore: la scientificità, la pesantezza, la lentezza e l’impegno che richiede la lettura di questo libro ha d’altra parte la scelta di trasformarsi in un racconto che possa essere il più possibile godibile.

Mi rendo conto che per un percorso di lettura i suggerimenti forniti da me, che certo lo conosco meglio di qualunque altro, potranno essere utili. L’obiettivo di questo incontro non è quello di sostituire le mie parole al libro perché le mie parole non riusciranno mai a spiegarlo, non riusciranno mai a darne conto completo. Il mio obiettivo è quello di suscitare in voi un’attenzione tale, una curiosità tale perché possiate un giorno, quando vi sarà possibile, avrete il tempo e la serenità di immergervi, qualche pagina al giorno dentro questo libro che è anche un viaggio, un viaggio, come ha detto Marica Mereghetti, dentro una vicenda, che poi a me ormai interessa fino a un certo punto,e mi ha anche stancato nella sua pesantezza: il caso Moro.

Però è anche un percorso dentro il potere e i meccanismi di funzionamento del potere italiano. Il libro non si intitola “Il memoriale di Aldo Moro”, il libro con una scelta felice che non è stata mia, è una scelta dell’editore, dell’editor che ha seguito questo lavoro, si intitola Il memoriale della Repubblica perché quando il volume è stato consegnato chi lo ha letto si è reso conto che in un certo senso poggiava sulla vicenda Moro per poi allargare lo sguardo e provare a fornire un quadro complessivo della storia repubblicana dei trent’anni che precedono la morte di Moro, naturalmente utilizzando le riflessioni che il prigioniero faceva nel memoriale, e poi anche del decennio successivi tra il ’78 e gli anni ’90. Quindi, effettivamente una riflessione complessiva sulla repubblica italiana.

Se dovessi con un’immagine descrivere il lavoro direi che esso è come un treppiedi che si poggia su tre piedi appunto, che servono poi, o che ambiscono, o che provano a fotografare, a mettere a fuoco la realtà del potere italiano di cui vi ho detto. Il primo piede su cui poggia il libro è il piede dell’intrigo, è il piede del giallo. Ciascuno di questi piedi che vi descriverò in un certo senso sono autosufficienti rispetto all’altro, sono poi la ragione, il fatto che sono tre, sono la ragione per cui questo volume è diventato così grosso, perché sono oltre 500 pagine, quasi 600 pagine. Perché è come se, per tenere la macchina fotografica e riuscire a metterla a fuoco, io mi fossi accorto nel corso della scrittura di avere sempre bisogno di aggiungere, ed è stato anche così nella genesi della scrittura, di aggiungere un nuovo punto di appoggio.

Il libro avrebbe una sua autosufficienza come giallo, come intrigo. Un’autosufficienza che avrebbe soddisfatto ampiamente l’editore e che anzi l’editore avrebbe auspicato probabilmente che potesse limitarsi a questo: il giallo delle carte di via Monte Nevoso a Milano, per l’appunto, il giallo delle carte di Moro. Ed era una storia che ho raccontato, distribuendola nelle 600 pagine (questa è stata una scelta consapevole da parte mia) perché se non l’avessi distribuita, se non l’avessi frazionata, se non l’avessi resa complessa nel suo meccanismo di smontamento poi, l’editore mi avrebbe detto, se ne sarebbe subito accorto: “Guarda il libro finisce qua, 250 pagine, 12 Euro, ne vendiamo 40.000 copie”. Allora io ho dovuto utilizzare questo artificio, l’artificio di sbriciolare l’intrigo, di non dividere il libro in tre parti, ma queste tre parti di continuamente intersecarle per riuscire a portare a casa ciò che desideravo. Da questa tecnica che ho adottato, assolutamente consapevole, io riconosco che deriva una difficoltà, una complessità nella lettura del testo, però altrimenti non ci sarebbe stato in questo modo, avrei dovuto rinunciare, per me, a molto: l’intrigo, il giallo, il patto con il lettore. 250 pagine dedicate alle carte di Monte Nevoso sono, e ne sono convinto, di avvincente lettura. Su questo non ho dubbi.

Partono da due dati di fatto: il primo è che di queste carte, del memoriale di Aldo Moro, vi ha detto benissimo Marica Mereghetti che cos’è, quindi non ripeto, ma c’è una parte che sono l’interrogatorio e una parte che è un testamento. Sono in tutto 229 fogli. Allora, il dato di fatto, il primo dato di fatto è che mancano gli originali di queste carte, a tutt’oggi. Esse esistono soltanto in dattiloscritti, cioè testi battuti a macchina, o in fotocopia di manoscritti.

Il secondo dato di fatto che costituisce un problema, e poi costruisce l’intrigo e il desiderio di provare a scioglierlo, è che queste carte sono state ritrovate, e riconoscerete che non è del tutto normale, nel corso di 12 lunghi anni. Vi riassumo brevemente le tre tappe per poi inquadrare meglio, perché io vorrei ritornare su questo punto dell’intrigo alla fine del mio discorso.

Allora, di questi 229 fogli, o 219, adesso non ricordo, ne esistono 10 che sono in originale, cioè sono come questo foglio qui, manoscritti di mano di Moro, e furono distribuiti dalle Brigate Rosse il 10 aprile del ’78 e riguardano uno scritto su Paolo Emilio Taviani. Questa è l’unica parte del memoriale che noi conosciamo in originale. Abbiamo poi un secondo ritrovamento di queste carte, una seconda epifania di questa documentazione, il I° ottobre del 1978 quando il gruppo dell’antiterrorismo guidato dal generale Carlo Alberto Dalla Chiesa in via Monte Nevoso compie un’operazione militare, arresta tre brigatisti che erano presenti nel covo, e su un tavolo come questo ritrova una cartellina con un fascicolo di dattiloscritti. Questi dattiloscritti in parte contengono la riproduzione delle lettere di Moro e in parte qualcosa che si inizia a intuire essere la risposta a interrogatori che le Brigate Rosse avevano fatto, e avevano detto di aver fatto, al prigioniero. Fogli dattiloscritti.

Naturalmente, il fatto che si siano trovati in questo formato, consente una campagna di carattere propagandistico e politico evidente che si poggia sulla seguente affermazione: se sono dattiloscritti non possiamo dire che Moro ne sia l’autore; per di più, sono dattiloscritti non firmati e chiunque può attribuire a qualcuno un dattiloscritto che è stato battuto a macchina da un altro.

La seconda questione che consente e ha consentito il ritrovamento soltanto dei dattiloscritti è stata l’affermazione che fu fatta coram populo allora, che finalmente si erano ritrovate le veline, le brutte copie, con le quali le Brigate Rosse avevano costretto Moro poi a scrivere i propri testi, il proprio interrogatorio. Quindi, c’era stata una conferma, una conferma di una vecchia idea, vecchia di appena cinque mesi, del cosiddetto partito della fermezza, il quale aveva sempre sostenuto che ciò che è uscito dalla prigione di Moro era stato estorto con la forza e scritto sotto dettatura delle Brigate Rosse, e di conseguenza del tutto e completamente irricevibile.

Passano 12 anni. Nel frattempo il covo di via Monte Nevoso, il che sul piano giudiziario è eccezionale, resta sotto sequestro per quel tempo. Dico che è eccezionale perché vi faccio un esempio: il covo di via Gradoli, che cadde il 18 aprile del ’78, e all’interno del quale fu trovato un vero e proprio archivio documentario delle Brigate Rosse, decine di migliaia di reperti, fu restituito ai legittimi proprietari nell’ottobre dello stesso anno, cinque-sei mesi dopo. Via Monte Nevoso, per ragioni di carattere formale, di carattere giuridico, di fatto rimase sotto la tutela dello Stato, con i sigilli pubblici che formalmente impedivano di entrarvi, per 12 anni. Quando viene dissequestrato, un operaio, e molti di voi se lo ricorderanno, mentre stava facendo dei lavori di ristrutturazione, con un colpo di scalpello ferisce un pannello di muro che nasconde un’intercapedine dall’interno della quale esce fuori una borsa, una borsa che contiene del denaro fuori corso degli anni Settanta, che contiene delle pistole, dei mitra avvolti in fogli di giornale del settembre del ’78, e una cartella marrone che contiene ben 419 fogli di manoscritti.

Questi 419 fogli manoscritti in parte riproducono le lettere che le Brigate Rosse avevano spedito durante il sequestro, in parte contengono delle lettere completamente inedite, che quindi giungono ai loro destinatari, di solito e per la quasi totalità i familiari, dodici anni dopo il tempo in cui furono scritte, e poi, dentro questi 419 fogli, ci sono 229 (è questo il numero sul quale prima esitavo), 229 fotocopie di manoscritti che riproducono il memoriale.

È una scoperta tardiva, è una scoperta fuori dal tempo, è una scoperta successiva alla caduta del muro di Berlino che con l’evidenza grafica della materialità della scrittura di Moro autografa, seppure riprodotta in fotocopia, cosa ci dice? Ci dice quando ormai non interessava più a nessuno ciò che veniva affermato, ci dice che Moro certamente aveva parlato durante il sequestro, che certamente era stato sottoposto, come le Brigate Rosse avevano affermato, a uno stringente interrogatorio, e che certamente queste carte erano state dilazionate, la fruizione pubblica di queste carte era stata dilazionata nel corso di dodici lunghi anni.

Subito ci furono delle polemiche, quella tra la manina e la manona ad esempio: da un lato Craxi, dall’altro Andreotti, con Craxi che accusava indirettamente Andreotti di aver con la sua manina collocato le carte in quel luogo e Andreotti che rispondeva: “Ma quale manina, c’è stata in realtà una manona”, alludendo alla mano corpulenta del leader socialista.

Il dibattito subito si fa forte e va a riempire quell’enorme calderone che tanto piace all’opinione pubblica italiana, l’enorme calderone dei misteri, dei misteri italiani. È credibile che quelle carte siano rimaste lì per dodici anni? Non è che invece sono state messe a bella posta qualche mese o qualche giorno prima affinché fossero ritrovate? È possibile che il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa con il suo gruppo di militari non avesse ritrovato quegli incartamenti? Non quelli sul tavolo dattiloscritti, ma anche quanto era nascosto dentro l’intercapedine? E se sì, se li aveva ritrovati, vuoi vedere che è morto per questa ragione? Perché li ha conservati.

Questa era diciamo il campo di dubbi, polemiche laceranti che da subito si agitarono. È sufficiente leggere l’EspressoPanorama, l’Europeo, i principali quotidiani italiani per comprendere che di questo si ragionò per mesi e mesi. Un giornalista di Repubblica, tra l’altro colpito e gambizzato dalle Brigate Rosse, Guido Passalacqua che è recentemente scomparso, in un bellissimo articolo scrisse: “Sapete qual è il paradosso di questa vicenda? Questa è una vicenda che riguarda lo Stato e le istituzioni e noi abbiamo lo Stato e le istituzioni che stanno dimostrando in presa diretta di essere le prime a non credere in se stesse”.

Cioè le domande che io vi ho fatto sono domande retoriche che dovete immaginarvi come nel 1990 erano presenti nella bocca dei più importanti leader politici italiani. Spadolini sosteneva che quelle carte fossero state messe lì a bella posta qualche giorno prima, Andreotti si chiedeva che fine avessero fatto gli originali di queste carte, Craxi alludeva che fosse stato il presidente del consiglio a collocarle in quel sito. Abbiamo uno Stato e delle istituzioni con deficit di credibilità e di autostima: questo è il punto strutturale.

Io mi sono posto, per questa questione dell’intrigo, due problemi, e ho provato a rispondere a due problemi e l’ho fatto applicando due metodi. Il primo problema è: quando uno studioso di storia dice problema significa dire ipotesi, mi sono posto e ho posto due ipotesi; non ero sicuro delle risposte, le risposte che ho dato sono il frutto di un percorso di ricerca che è durato 5-6 anni.

La prima domanda è: le carte che escono nel 1990 erano state lette prima? E se sì, da chi? Ho risposto a questa domanda, se voi leggerete il libro troverete la risposta a questa domanda che è convincente sul piano della ricostruzione di una verità storica che sia credibile. E lo dico perché ho applicato, cercando di farlo al massimo e al meglio delle possibilità che sono date dalla disponibilità documentaria che noi abbiamo essendo passati soltanto (sottolineo soltanto) 30 anni da quella vicenda, applicando il metodo che mi è stato insegnato, il metodo storico. Poi, nella seconda parte del mio intervento vorrei entrare nel particolare, vorrei provare a illustrarvelo questo metodo.

La seconda domanda che mi sono fatto invece è stata sviluppata applicando una variante metodologica che è quella del paradigma indiziario, cioè io non sono sicuro di quello che ho ipotizzato, come nel primo caso, certo che supporre l’esistenza di indizi è stato un percorso di ricerca molto fecondo che a prescindere dalla sicurezza dei risultati mi ha consentito di raccontare una storia significativa. Qual è il punto? L’ipotesi era che secondo me le carte che noi fin qui abbiamo trovato, ’78 ottobre-ottobre ’90, sono incomplete. La mia ipotesi è che è esistito, un memoriale, un termine tecnico per dire un testo originale, l’originale di un originale, che a tutt’oggi è o scomparso o distrutto, ma che di fatto è esistito.

È stata proprio l’esistenza di questo memoriale nascosto la miccia che ha acceso una straordinaria lotta di potere all’interno della vita, non solo politica, ma anche istituzionale, anche militare, italiana e che ha prodotto (perché poi questo è il macrofenomeno che io avevo davanti) un eccesso di violenza politica tollerabile in una democrazia parlamentare. Cioè, intorno a queste carte abbiamo certamente una serie di morti violente che credo rappresentino un problema non solo di carattere storico ma anche civile e politico e che devono provare ad avere una risposta. Io non vi so dire se la mia è corretta, se la mia è definitiva, non lo credo anzi, certo però è un primo tentativo, attraverso un metodo che è quello storico, di affrontare, diciamo, di prendere il toro per le corna.

Parliamo della morte di un giornalista, Carmine Pecorelli; parliamo della morte di almeno tre alti gradi militari italiani, il generale Dalla Chiesa, il generale Galvaligi, il colonnello Varisco; parliamo della morte di un trafficante, di un manigoldo, di un informatore dei servizi segreti italiani, tal Antonio Chicchiarelli. Insomma, un alto e un basso che si confondono, si mescolano e meritavano di essere dipanati. A questa seconda risposta, cioè: è esistito un memoriale?, rispondono prudentemente di sì avendo applicato il metodo indiziario di cui vi ho detto e del quale sono debitore a un grande storico italiano che si chiama Carlo Ginzburg che lo ha applicato in altri contesti,

Esso mi ha consentito, e per questo vi dicevo che comunque i risultati sono stati fecondi, anche di ipotizzare le parti mancanti e gli argomenti mancanti. Ve li anticipo. Essi sono il golpe Borghese, la fuga di Kappler dal carcere del Celio, il conflitto che si svolge in Italia tra i servizi segreti israeliani e la guerriglia palestinese, essi sono non tanto e non solo Gladio ma, diciamo, le strategie di antiguerriglia che sono state applicate anche in Italia nel corso del trentennio precedente.

Ho dedicato interi paragrafi del libro a questi argomenti e naturalmente l’averli approfonditi ha rafforzato, dal mio punto di vista, quella idea indiziaria da cui sono partito. Anche qui lo vorrei tenere se poi abbiamo tempo anche nelle domande, diciamo, come parte finale del mio intervento. Cioè io vorrei darvi la prova del primo metodo che mi fa dire che secondo me le cose sono andate in questo modo e ne sono certo, e invece la prova, diciamo, del secondo dilemma che resta indiziario, l’esistenza di un memoriale.

Il secondo piede su cui poggia questo libro è una riflessione, direi, antropologica, sull’antropologia del potere italiano. Ho utilizzato il termine potere e non utilizzo il termine politica volutamente perché anche qui sono partito da un assunto che costituiva anche un problema: questo assunto e questo problema, tra l’altro, diciamo che in queste ore, in questi giorni mi sembra, a prescindere dai giudizi di merito, di una straordinaria attualità, di una continua manifestazione. In questo paese abbiamo una politica debole, proprio perché debole, troppo pervasiva e invasiva. Cioè, la pervasività della politica non è una manifestazione della sua forza, anzi è proprio una dimostrazione della sua difficoltà a farsi governo della realtà; abbiamo una politica debole e tanti e diffusi poteri forti che hanno la capacità, che hanno la possibilità continuamente di tenerla sotto schiaffo e di condizionarla.

E quando dico poteri forti non voglio assolutamente aderire a una visione demiurgica, a una visione oligarchica o piramidale della realtà: no, la forza di questi poteri deriva dalla loro capacità di essere disseminati nel campo della vita politica e sociale italiana e a stretto contatto con la società civile, capaci di sviluppare forme consensuali attorno a essi.

In questo tipo di lettura c’è, forse sì, una originalità rispetto al canto dominante dei vent’anni in cui sono cresciuto e cioè l’idea che esista una società civile pura, incontaminata e compatta che si oppone a una società politica corrotta e chiusa nella sua cassa (utilizzo termini molto in voga); Questa lettura duale e manichea secondo me non funziona, non riesce a esprimere la complessità dei meccanismi di funzionamento del potere italiano e quando dico potere (leggendo questo libro lo scoprirete) mi riferisco non a delle astrazioni, mi riferisco a militari, mi riferisco a servizi segreti, mi riferisco a giornali, mi riferisco a magistratura e magistrati, mi riferisco a poteri finanziari e imprenditoriali: una costellazione di soggetti che è tutta capace di riprodurre quel rapporto di collaborazione, di costruzione della consensualità, di amalgama con pezzi della società civile.

Da qui discende un’altra caratteristica di questa morfologia del potere italiano: la sua organizzazione in fazioni, la sua organizzazione in cricche, la sua capacità di essere pervasivo; il potere, non solo e non soltanto la politica che poverina, lei ha il problema, almeno ogni cinque anni di presentarsi alle elezioni e di chiedere il consenso. Qui stiamo parlando invece sempre e soltanto di poteri che prescindono dalla verifica del loro mandato, che rivendicano un’autonomia rispetto alle espressioni del popolo. Questi poteri si dividono a loro volta al proprio interno in tante consorterie e fazioni secondo principi di fedeltà e non necessariamente di lealtà, secondo principi di familiarità dove non è tanto importante l’essere consanguinei, avere lo stesso cognome.

È molto importante quando si fa la storia d’Italia, nel Cinquecento e nel Seicento come oggi, studiare le affinità, studiare i legami laterali, è una storia di suoceri, è una storia di cognati, è una storia di legami insospettabili, dove il cugino della cugina ha sposato il figlio dello zio, ma si crea in questa trasversalità del legame familiare, nella sua viziosità, un punto di resistenza e di potere che condiziona il funzionamento del meccanismo. Cricche e fazioni che hanno la capacità di allearsi fra di loro trasversalmente pur di impedire la vittoria, sempre dunque momentanea, di quello che formalmente tu dovresti dire essere il tuo migliore amico, il tuo miglior alleato, colui il quale milita nella tua stessa cordata. Che sia una cordata militare, che sia una cordata accademica, che sia una cordata politica, che sia una cordata giornalistica.

Il prodotto di questo meccanismo produce un sentimento antipolitico perché l’antipolitica, come teoria e come pratica, è funzionale a tenere coeso questo sistema di potere, serve come il pane. Secondo un grande storico italiano, Scoppola, la vicenda Moro è uno dei momenti in cui l’antipolitica, che è un’attitudine di tradizione plurisecolare, quasi che svanisce, plurisecolare nella tradizione delle classi dirigenti italiane, si riorganizza e riesce a ricostruire se stessa. Un’antipolitica politica la cui caratteristica principale, naturalmente, è quella di essere antiparlamentare.

Poi non so darle giudizi di valore, può essere comprensibile e persino giustificabile essere antiparlamentari, c’è un dato di fatto che c’è un deficit di carattere istituzionale in questo paese, che deriva da questa continua alimentazione che c’è tra poteri frammentati, divisi in fazioni, e l’antipolitica che come sentimento comune alimentano. Un’antipolitica che viene alimentata sviluppando un dualismo continuo ed esasperato tra società civile e palazzo, metafora pasoliniana; straordinario cantore, Pasolini, di questo sentimento.

La terza caratteristica di questa antropologia è una caratteristica gramsciana, che percorre tutta questa storia, che è evidente, che è diciamo quello che Gramsci definiva un collateralismo, una relazione tra sovversivismo dall’alto e sovversivismo popolare. Perché poi la storia della lotta armata in Italia (io non amo parlare di terrorismo e in questo libro voi non lo troverete mai o quasi mai, se l’ho utilizzato è solo per questioni stilistiche, per questioni linguistiche, dove mi serviva un sinonimo del termine terrorismo), è certamente una manifestazione del sovversivismo popolare nelle forme in cui si manifesta, certo il dato che colpisce lo studioso è la correlazione che si stabilisce con delle capacità dall’alto della classe dirigente di controllare, gestire e organizzare questa spinta; e al tempo stesso produrre un discorso poggiato sull’inefficienza, poggiato sull’Italia come gran casino. Cioè, è la classe dirigente che mette del propellente all’antipolitica, alla disaffezione tra cittadini e Stato perchè questa disaffezione è funzionale a consentire che il sovversivismo popolare, o dal basso per citare Gramsci, svolga una propria funzione politica. L’onda non va contrastata, l’onda va accompagnata, l’acqua va fatta entrare e poi gestiamo l’apertura e la chiusura delle paratie per evitare che la barca italiana affondi (qui è il punto e quindi siamo il paese dello stellone, il paese che si salva sempre, ieri sentivo la televisione francese… il super Mario, va benissimo, il demiurgo che ci salva…), che non affondi. Ma il problema è: che galleggi dunque? Ma il problema è impedire che navighi, questo è il punto, è questo che non si vuole.

Allora la gestione delle paratie, apertura e chiusura dell’acqua, del sovversivismo, consente un galleggiare che non è né affondare, ma neanche andare come dovrebbe essere, come è, nelle principali democrazie del mondo, che scelgono, che decidono, che contrastano…

Quella copertina del libro, che non ho scelto io, io in maniera molto più banale consigliavo un Aldo Moro, quella copertina è una copertina che riproduce parte di un piccolo ma prezioso ritratto quattrocentesco e racconta uno sguardo, lo sguardo di un italiano anonimo. Il titolo del quadro è proprio “Ritratto di italiano (mi sembra) o di gentiluomo, o di uomo”, e se voi guardate quello sguardo, voi scoprite che quello sguardo è uno sguardo obliquo, affilato, misterioso, intelligente, furbo, inquietante. Tutta questa aggettivazione metaforicamente è un’aggettivazione che possiamo spendere per spiegare l’antropologia del potere italiano, ripeto non solo e soltanto della politica e dei partiti, o delle associazioni che si organizzano, una aggettivazione che possiamo spendere per descrivere quella antropologia.

Il terzo pilastro, il terzo treppiedi, il terzo piede del treppiedi che mi consente di scattare la foto è un pilastro generazionale. Noi con il potere e l’antropologia siamo arrivati da 250 a 400 pagine. È stato questo terzo punto di appoggio che ha fatto del libro un libro di difficile digestione. Ed è stata questa parte generazionale quella che ho più esitato, o meglio io ero sicuro di metterla, è quella che più mi hanno fatto esitare i miei lettori sui manoscritti, i lettori precoci, e lo facevano a ragione; io sentivo che avevano ragione e perché avevano ragione? Perché la parte generazionale che percorre questo libro è certamente quella sul piano storiografico, e dunque dal mio punto di vista scientifico, la più fragile.

Mentre io per quanto riguarda il primo pilastro, dove applico il metodo storico, quello dell’intrigo, posso consentirmi la parte dello sbruffone, cioè non ho dubbi, per avere dei dubbi ci dovrà essere qualcuno che mi attacca sul metodo non i risultati, i risultati sono interpretazioni. È evidente che ciascuno la può pensare come vuole, ma la forza della mia interpretazione è nel metodo e quindi se si vuole ledere l’interpretazione bisogna attaccare il metodo: non è che mi basta che viene un testimone che può essere o il magistrato o il brigatista o il carabiniere che mi dice: “Ma no guarda non è andata così perché io mi ricordo che…”. Ok, tu ti ricordi che…, anche mia nonna si ricorda che… Il problema, ripeto, è nel manico.

Se nella seconda parte sono più cauteloso perché sono consapevole che ho applicato un paradigma indiziario, e come vedete lo dichiaro, essendo il metodo più fragile anche le interpretazioni che desumo sono più labili perché quel metodo è più facilmente attaccabile, si fonda su delle supposizioni.

Nel terzo pilastro alzo le mani, non sono né sbruffone, né cauteloso. Dico umilmente che è un primo fragile tentativo di cercare di capire… mi viene in mente ora mentre parlo una frase di Garboli che per altro riporto nel testo, una frase di Garboli che ho trovato citata in uno dei libri più belli che è stato dedicato al memoriale Moro e che fu scritto pochi giorni dopo, pochi mesi dopo il ritrovamento, da parte di Adriano Sofri, “L’ombra di Moro”. Perché poi la ricerca e la storia, anche questo è bello, uno si serve di tutti i materiali se nei materiali trova vita… C’è una frase di Garboli che descrive, diciamo, quel punto del ’78 come un punto di non ritorno, come una grande macchia scura, come una piovra che inizia a distribuire il suo inchiostro confondendo i torti e le ragioni, gli ambiti, le speranze, le possibilità di cambiamento.

Allora ho provato, da un punto generazionale diverso, (necessariamente diverso perché nel ’78 avevo sette anni), quindi non appartengo naturalmente come reduce o come testimone a quella storia, ho provato a dare conto di una tensione tra le generazioni che si è aperta negli anni della lotta armata in Italia, che non sono 30 anni, sono 7-8 anni, la tiriamo lunga 10 (’72-’82), ma a tirarla lunga, Calabresi, ’72-’81, sono 9 anni, a tirarla lunga, terribili dove sembra che ci sia un vuoto che risucchia la coscienza di un paese. Ma al tempo stesso, e questo è il problema storiografico, e qui c’è per esempio il fascino di riflessioni che sono state fatte da Giovanni Moro in anni ’70, sono anni di tempeste terribili, tempeste che hanno travolto ad esempio lui, la sua famiglia, privandola del padre, ma sono anche anni di speranze, di rigenerazioni, di riforme. Siamo un paese che parla sempre di riforme, ma poi queste riforme non vengono mai fatte.

In quel decennio, sul piano dei diritti civili, è stato fatto tanto, l’Italia è diventata un paese moderno. Allora, il problema storico è di capire queste spinte, è capire il vuoto che ti risucchia e le forze che riescono a resistere ma che non sono generazionalmente altro da quel vuoto che spinge giù e che usa la violenza e la lotta armata. C’è una mescolanza generazionale, questo fa sì che l’argomento, secondo me, sul piano storico è molto, molto interessante: la compresenza di forze antagoniste ma che appartengono allo stesso corpo sociale, valoriale, ideologico, politico.

Allora, e vado a chiudere, vi dicevo fragile storiograficamente però molto viva quella parte e ci ho messo molto per cercare di capire sul piano dell’emotività e del ragionamento: per questo ero molto affezionato a quella parte e ho lottato contro chi mi diceva, avendo argomenti validissimi sul piano scientifico, di tagliarla. Ma l’ho lasciata perché so che qualunque disciplina scientifica impone comunque una relazione, e in particolare la storia, tra la storia e la vita. L’entusiasmo deriva da questa miscela, non è possibile prescindere dalla vitalità e dall’interesse esistenziale che c’è in una ricerca.

Per andare avanti ho utilizzato un concetto che era un concetto di Moro, che non è un concetto neutro, che è un concetto che può farmi, e mi ha fatto, degli amici ma anche tanti avversari. È il concetto di partito armato. Era, ripeto, uno strumento analitico che già Moro aveva introiettato nel ’75, ’76 e ’77. Nel corpo italiano si è formato una metastasi, questa metastasi è una metastasi che si è partitizzata perché il farsi parte è una caratteristica di lungo periodo, originale e originaria, della cultura politica italiana, si è fatta parte e pratica la lotta armata. Che significa poi stabilire una diversa gradazione di utilizzo delle armi, che non esclude dalle proprie pratiche l’omicidio politico, anzi lo pratica.

Mi sono fatto anche degli avversari, ben consapevole di farmeli, per quale motivo? Perché io non ho fatto il giochino che viene praticato dalla cultura pubblica dominante: demonizzare le Brigate Rosse, isolarle e farle un ente mostruoso e avulso dalla società politica italiana, 20, 50, 100, 200 fanatici incapaci di intendere e di volere. E poi invece un magma diffuso di forze extraparlamentari le quali sì, forse, a tratti, ma per errore e sempre con tante difficoltà hanno praticato (e poi c’era il golpe fascista alle porte) non la lotta armata (sia mai), ma la violenza politica. Però, erano irriducibilmente e antagonisticamente altro.

A me questo discorso non funziona, ma non funziona sul piano storico: accetto il magma, accetto la confusione e la fusione della vita, accetto la ricchezza che c’è nell’esistenza degli uomini e proprio perché l’accetto dobbiamo capire che questa è stata una storia generazionale in cui i piani si intersecavano, in cui certo ha contato la responsabilità degli individui, ma anche il caso, ma anche la paura, ma anche un discorso di appartenenza di classe. Perché, se citiamo Marx e lo riteniamo ancora fecondo quando ci dice che i parlamenti sono, come ha fatto Salvatore Natoli, i comitati d’affari della borghesia, allora possiamo anche trarre delle conseguenze sul piano della lettura di classe della società italiana e non solo. E di conseguenza, poter notare che la vicenda del partito armato nelle varie varianti che sono prese, sono anche condizionate dall’appartenenza di classe dei diversi protagonisti.

Ieri sera cenavo qui a Milano con una persona che è stata protagonista di alcune battaglie degli anni ’70, che ha fatto il ’68 a Roma, e mi ha colpito mentre parlavamo che mi diceva: “Perché sai, noi eravamo veramente rivoluzionari, noi pensavamo davvero di fare la rivoluzione, non pensavamo a un lavoro, non pensavamo che cosa avremmo fatto da grandi. Pensavamo che avremmo fatto la rivoluzione”. Maliziosamente io, mentre lo ascoltavo, ho anche pensato che c’era un lusso classista nella possibilità di chiedersi cosa farò domani e come mangerò domani, e dunque pensare alla rivoluzione, perché evidentemente c’era uno sviluppo della divisione del lavoro che consentiva per tante ragioni a quella generazione, ha consentito a quella generazione, di pensare alla rivoluzione consapevole che 4, 5, 6. 7 anni dopo comunque avrebbe trovato università, studi di architettura, giornali, scuole pubbliche, pubblico impiego, disposti ad assorbirle.

Queste cose io mi rendo conto che sono urticanti, lo so; se avessi voluto scegliere una strada più furbetta, bastava e sarebbe bastato ometterle, però, per questo vi dicevo che è stata anche una riflessione, diciamo così, esistenziale e biografica; le cose che io ho visto nei trent’anni in cui sono cresciuto, dai 15… poi certo, riconosco che c’è un limite in questa mia lettura, è una lettura molto metropolitana, è una lettura molto romana e molto milanese, e molto torinese, poi la provincia è stata ed è altre cose. Però, insomma, è una lettura metropolitana che pone al centro un tema che è quello dell’area di contiguità. Insomma, non c’è lotta armata che possa sperare di affermarsi se non poggia su una consensualità che poi è stata, e qui vengo al punto, completamente rimossa. È stata rimossa in buona fede? La memoria gioca brutti scherzi. È stata rimossa in cattiva fede? Ci sono delle omissioni? Ci sono, altra categoria di lungo periodo, straordinari, eccezionali trasformismi. Di tutto questo io penso che bisognava, non ho la presunzione di dire di fare la storia perché non l’ho fatta, ma quanto meno di incominciare a parlarne, quanto meno provare a riflettere.

La seconda questione che non affronto nel libro e che riguarda il concetto di partito armato, la prima è l’area di contiguità che poi in concreto significa affrontare il problema del meccanismo di funzionamento di strutture illegali e di apparati illegali che esistevano dentro le principali forze extraparlamentari italiane, che non a caso sono chiuse, sciolte dai loro leader, quando questi apparati illegali, segreti alla maggioranza dei militanti di quelle organizzazioni, tentano di prendere il sopravvento; quei leader le sciolgono, e noi poi abbiamo due grandi flussi che sono dei flussi, uso un termine colto, prosopografici: bisogna seguire le biografie di queste giovani persone che da Lotta continua porta a Prima linea, che da Potere operaio porta alle Brigate Rosse.

Con questo non voglio dire che tutti i militanti di Lotta continua, di Potere operaio sono diventati terroristi, direi una sciocchezza, è una cretinata, però c’è una questione grande come una casa sul piano storiografico del fiume, del corso dell’alveo che dallo scioglimento di Lotta continua porta a Prima linea e da Potere operaio porta alle Brigate Rosse in termini di militanza. Questa è una storia di cui sono sicuro che tanti di voi qui dentro hanno memoria, hanno contezza, voglio dire sanno che non sto scendendo da Marte.

Finisco. La seconda questione che non si trova nel libro ma che c’è è il tema del quadro internazionale che sostiene e alimenta il partito armato. Questa costellazione, questa galassia va vista nel suo insieme. È tanto facile, è tanto bello giocare con i grandi vecchi, è tanto facile e bello chiedersi se Moretti rispondesse a quella o a quell’altra potenza, No, non è così. È quella galassia, quella costellazione che forma il partito armato, che al proprio interno ha dei settori che rispondono a una strategia di condizionamento di carattere internazionale, che deve guardare certo la logica dei blocchi, ma soprattutto le medie potenze che all’interno dei due blocchi più rivendicano la propria autonomia. E che sono da una parte la Francia e dall’altra la Cecoslovacchia; rivendicano la propria autonomia o per strategie geopolitiche e desideri di grandeur, o perché, come avvenuto nel ’68, hanno subito una straordinaria umiliazione da parte del Moloc sovietico. E di conseguenza, per diverse ragioni, hanno interesse a soffiare in forma congiunta e non necessariamente coordinata, sul fuoco italiano per tenere attizzata la fiamma, una fiamma che è funzionale ad aumentare la destabilizzazione del nostro paese.

Una destabilizzazione che ha una storia, e su questo chiudo, da destra, una storia che è legata alla strategia della tensione e che corre dal ’69 al ’74, da Piazza Fontana a Piazza della Loggia, e che costituisce un primo tentativo destabilizzante. C’è una capacità delle forze progressiste italiane di contenere quel tentativo di destabilizzazione, delle forze progressiste italiane. Intendo dire del Partito Comunista, in particolare, intendo dire del Partito Socialista, però voglio dire anche di settori molto significativi della Democrazia Cristiana, di contenere, di fare argine a quell’attacco. E poi c’è una seconda fase di attacco del partito armato dal ’75 all’81-’82, dove la stessa onda di destabilizzazione viene invece portata da sinistra: ci si serve, diciamo, di una militanza che c’era, autoctona, originaria, autonoma e pura, ci si serve dell’esistenza di questo tipo di militanza per portare una seconda ondata di destabilizzazione del quadro italiano.

Se noi le vediamo insieme come se fossero le braccia di una sola tenaglia che ha cercato di soffocare la democrazia italiana, dobbiamo dire che il tentativo c’è stato, che la democrazia italiana ha resistito e di questa qualità, di questa capacità di resistenza, i cittadini italiani dovrebbero essere sempre consapevoli e fieri, perché non so quale altro paese al mondo sarebbe stato capace di resistere a questa doppia violentissima e feroce spinta da destra e da sinistra, in cui militanze autoctone, fazionarie italiane hanno risposto a una potentissima logica internazionale.

La democrazia italiana ha resistito però, e qui c’è la difficoltà, ne è stata profondamente condizionata e il condizionamento prodotto da questa doppia spinta, da questa doppia spinta, da questa doppia forza è un condizionamento che ha lacerato tanto e in profondità la società e la politica del nostro paese e condiziona sempre e in ogni passaggio di fase, dove resta sempre messo a fuoco il tema della nostra autonomia, della sovranità del nostro paese. E non dovremmo mai dimenticare che nella storia dell’uomo sono forti i paesi che sono capaci di salvarsi da soli.

Questo è il punto. Allora, questo punto, e lo dico in queste ore, non a caso in queste ore che dal mio punto di vista sono ore di festa, questo punto è anche una sfida. Vi ringrazio.

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