“…Non ci può essere democrazia senza proprietà e mercato. Proprietà e mercato vogliono dire capitalismo. Ma il capitalismo contrasta con la democrazia…”[1]: è partendo da questo ragionamento che Michele Salvati, docente universitario, noto editorialista, personalità tra le più influenti del dibattito politico attuale, nonché personaggio tra i più autorevoli dei soggetti fondatori del Partito Democratico, s’interroga nella sua ultima opera editoriale attorno al rovello di una democrazia modernamente costruita ed autenticamente intesa come tale, in relazione al connubio sussistente tra quest’ultima ed il mercato e la proprietà.
1. leggi il testo dell’introduzione di Andrea Rinaldo
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presentazione di Giovanni Bianchi (6’22”) – introduzione di Andrea Rinaldo (26’49”) – relazione di Michele Salvati (56’58”) – prima serie di domande (15’44”) – risposte di Michele Salvati (19’52”) – seconda serie di domande (30’43”) – risposte di Michele Salvati (30’12”)
Testo dell’introduzione di Andrea Rinaldo a Michele Salvati
Proprietà e mercato (cioè capitalismo) contrastano con la democrazia?
Nella diade tra democrazia e capitalismo, secondo Salvati esso è “croce e delizia” e su questo crinale egli misura le argomentazioni con quelle di alcuni esperti della materia.
Uno. “…Non ci può essere democrazia senza proprietà e mercato. Proprietà e mercato vogliono dire capitalismo. Ma il capitalismo contrasta con la democrazia…”[1]: è partendo da questo ragionamento che Michele Salvati, docente universitario, noto editorialista, personalità tra le più influenti del dibattito politico attuale, nonché personaggio tra i più autorevoli dei soggetti fondatori del Partito Democratico, s’interroga nella sua ultima opera editoriale attorno al rovello di una democrazia modernamente costruita ed autenticamente intesa come tale, in relazione al connubio sussistente tra quest’ultima ed il mercato e la proprietà. Abbiamo già avuto modo di verificare qui al circolo Dossetti di Milano la propensione del professor Salvati per un modello di democrazia che muova da talune premesse liberali, e che sia però in grado di determinare una <buona> democrazia liberale, in cui “…i singoli cittadini devono godere di eguali libertà e poteri difesi dalla legge – di diritti, dunque – che consentano loro di perseguire i loro disegni di vita e le loro convinzioni politiche con il minimo possibile di intralci e di condizionamenti da parte di altri cittadini, dello stato e dei politici che lo occupano, di soggetti istituzionali privati e dei modi in cui l’economia e la società civile sono organizzate…”[2].
Tanto che quand’egli tenta di definire il contorno di una nuova forza politica in grado di governarne questi caratteri, e cioè il Partito Democratico, innanzitutto ne indica questa sua funzione in modo esplicito, anzi conferisce ad essa i caratteri di una vera e propria <rivoluzione liberale>.[3] Non si tratta comunque di un testo nella forma di saggio, almeno questo per il momento, ma di una raccolta sistematica seppur parziale di articoli, recensioni, prefazioni, dalla collazione dei quali viene fuori un punto di vista, in parte però, questo punto di vista, sembrerebbe già abozzato nell’inedita introduzione. La prima asserzione formulata in forma apparentemente apodittica, muove da alcune considerazioni già espresse dal docente universitario cremonese, tra le quali l’affermazione che “…il socialismo <reale> (inclusi i tentativi di <socialismo di mercato>, sul modello dell’autogestione jugoslava) non è una modalità di coordinamento di una società complessa che possa competere con il capitalismo nel garantire entrambi gli obiettivi…” [4], cioè quello della soddisfazione dei bisogni materiali e spirituali delle persone unito a quello di garantirne libertà, autonomia, difesa dall’oppressione dei poteri pubblici e privati strutturati. Sarà forse per questo motivo, ed anche perché all’attualità non si scorge veramente una modalità di coordinamento delle attività umane che possa divenire in un futuro prossimo competitiva con il capitalismo, che lo strano binomio democrazia/mercato-proprietà appare inscindibile e insostituibile. E su questo versante anche le recenti esperienze di governo di alcuni stati del vecchio continente scaturite invece da ispirazioni socialdemocratiche, nelle scelte concrete sembrerebbero stemperarsi spesso in soluzioni blandamente di tipo liberale, confermando implicitamente la tesi suesposta, tanto che vien da chiedere al professor Salvati, quali siano effettivamente le differenze essenziali in una società di mercato, tra una visione politica di stampo riformista moderatamente liberale e quella invece di ispirazione socialdemocratica.
Due. Il concetto di democrazia più prossimo ad una definizione ottimale è, secondo Salvati, in gran parte quello che emerge dalla trattazione di tale tema da parte del politologo Giovanni Sartori in alcuni suoi testi[5], ed egli lo riconduce all’esercizio universale del voto, ad una <promessa di eguaglianza> dei cittadini (non solamente riducibile a quella formale davanti alla legge); nella separazione ed indipendenza dei più importanti poteri istituzionali, nella costituzione di una <rete> di luoghi di decisione libera ed incondizionata diffusi su territorio perché frutto di libertà civili, economiche e politiche, sufficientemente difese dal rule of law, ovvero dallo stato di diritto. La democrazia però si confronta sempre tra ciò che astrattamente dovrebbe essere e ciò che in effetti è: tra un mercato <perfetto> in cui può essere garantito il diritto alla piena occupazione e le condizioni reali invece spesso di totale subalternità per enormi fasce sociali; tra lo strapotere di pochi contro l’impotenza di molti, tra la possibile ma non direttamente conseguente eterogenesi dei fini dei capitalisti, intesa come scontro tra l’interesse privato versus la utilità pubblica; insomma si confronta costantemente con l’inveramento della <promessa di eguaglianza> dei cittadini stessi. Ed è in questo contesto che dovrebbe situarsi un corposo intervento statuale che di norma avviene attraverso il c.d. welfare state; fatto quest’ultimo che invece si sta progressivamente riducendo nella quasi totalità delle democrazie avanzate, tanto che ci si domanda se esse da questo punto di vista lo siano ancora, considerati taluni importanti diritti conquistati e quindi garantiti alle generazioni precedenti, i quali però non lo sono più per le generazioni attuali e soprattutto non lo saranno più per quelle future. Ed anche una decisa politica antimonopolistica ed anticorporativa, indispensabile correttivo alle derive di una organizzazione marcatamente capitalistica, sembra però che di rado possa potersi concretamente realizzare, basti pensare a questo proposito in riferimento al desolante caso italiano e solo per fare qualche esempio, alla ristretta attribuzione delle frequenze del mercato televisivo analogico, o alla (mancata) riforma in senso liberale delle professioni intellettuali, o alla (mancata) liberalizzazione di alcune attività lavorative soggette alla limitazione delle licenze, ecc.,… e si potrebbe continuare a lungo. Si tratta insomma del conflitto perenne che Michele Salvati sintetizza nella metafora di “Amleto” (assunto a simbolo del <nudo> capitalismo) e gli abiti che il principe di Danimarca del dramma Shakespiriano può indossare (cioè le diverse tipologie reali di capitalismo); abiti però spesso repellenti ed inaccettabili, rispetto ai quali è necessario esercitare un costante compito di vigilanza e di correzione.
Tre. Comunque sia l’impressione è che anche quando ci si riferisce a talune moderne democrazie, esse risultino spesso non dichiarate forme dioligarchia, perché i diritti formalmente concessi sono di fatto non esercitati (o difficilmente esercitabili), e il governo della cosa pubblica (ma anche di quella privata) rimane pertanto saldamente nelle mani di un ristretto gruppo di cittadini. A questo proposito afferma Salvati “…il fascino perenne dell’idea di democrazia è strettamente associato al fascino perenne dell’uguaglianza…”[6], tuttavia “…le democrazie liberali di oggi sono democrazie, pur soggette alla permanente tensione tra tendenze egualitarie ed oligarchiche…”[7]. Ed è in questo gap che si può tentare di giocare dialetticamente la conquista di spazi di democrazia sempre più ampi e quindi anche di condizioni reali di eguaglianza; e tale fatto avviene prevalentemente mediante la <conquista delle menti>, che di norma passa attraverso l’utilizzazione dei mass-media, ed in particolare del mezzo televisivo, che appunto per questa sua insostituibile funzione è costantemente tenuto sotto controllo dalle élite dominanti. In altri tempi si sarebbe detto che è necessario un nuovo processo di acquisizione di una “coscienza di classe”, in questo caso però non appannaggio di un solo settore della società, ma trasversale ad essa: pertanto sarebbe forse più opportuno definirla “coscienza di ceto” sociale, finalizzata all’esercizio di quei poteri di controllo, veto, denuncia; selezione del personale politico mediante le elezioni, che costituiscono gli elementi vitali delle migliori democrazie attuali. E appunto per questi motivi che Salvati non giunge alle conclusioni latamente pessimistiche di John Dunn[8], riassumibili nel “tradimento dell’ideale politico” delle moderne democrazie in rapporto con “l’effettiva forma di governo” instaurata, e nella recensione del testo di quest’ultimo studioso oggetto del capitolo I, da convinto riformista ne elogia invece il “filo evolutivo” che dalle diverse esperienze concrete è possibile estrarne. Inoltre, pur ammettendo il costante conflitto tra democrazia e capitalismo, giunge ad affermare che è vero che questo conflitto può generale pulsioni antidemocratiche, ma è ancor più vero il fatto che è la democrazia che non può sussistere senza condizioni di mercato, “…cioè senza un <sistema di equità> – così lo chiama Dan Usher – comunemente accettato e che effettui una distribuzione primaria delle risorse indipendente dalla politica. La politica, in democrazia, interviene per regolare questo sistema, per attenuarne le conseguenze meno accettabili attraverso regole secondarie di redistribuzione, per renderlo compatibile – in modo necessariamente imperfetto – con le visioni di giustizia prevalenti nella società…[9]. Secondo il professor Salvati poi condizioni <generose> in termini di protezione del lavoro e di offerta di servizi di welfare state, non necessariamente contrastano con la crescita economica (cioè con il mercato), com’è dimostrato per esempio da alcuni modelli capitalistici europei, o da quelle economie dove si è operata una certa liberalizzazione del mercato del lavoro compensata però da adeguati strumenti di ammortizzazione sociale. Ma a questo proposito può sorgere spontaneo un interrogativo, e cioè come si coniuga questa asserzione con quelle teorie cosiddette “della decrescita felice o sostenibile” che taluni autori propongono, le quali non ripongono tutte le aspettative di un maggiore benessere materiale e spirituale solo sulla pura e semplice crescita economica?
Quattro. Comunque il vero busillis sta nel fatto di come realmente funziona la democrazia, per l’esercizio della quale è necessario in primis che si determini un consenso maggioritario su base elettiva: questione che conoscono bene i grandi capitalisti e coloro che sono depositari di enormi ricchezze, i quali esercitano normalmente pesanti azioni di lobbying specialmente sul ceto politico e sulla formazione dell’opinione pubblica, quasi esclusivamente allo scopo di mantenere la loro posizione di privilegio. Tale fenomeno è tanto più evidente in quelle società avanzate dove non esistono o sono molto deboli i grandi partiti popolari radicati sul territorio, tanto che in occasione degli appuntamenti elettorali si costituiscono più frequentemente degli appositi “comitati” in cui gli elevati “costi della politica”, e quindi il tipo di rapporto che si instaura con i grandi finanziatori, costituisce un legame condizionante per l’esercizio successivo dell’azione politica, ponendo così pesanti ipoteche sul fatto che essa possa poi risultare a vantaggio della collettività e non di ristretti gruppi. D’altronde è riscontrabile anche una certa ricorsività nelle strategie delle varie “razze padrone” finalizzate al mantenimento del loro status quo: socializzazione delle perdite ma privatizzazione dei profitti, scarico della fiscalità su ampie fasce popolari, ottenimento di normative di favore ad hoc, precarizzazione del lavoro e dei diritti dei lavoratori, fin’anche a giungere ad un vero e proprio saccheggio (purtroppo quasi sempre legale) delle ricchezze collettive, tanto che la fortuna di tanti “capitani d’industria” (peraltro sempre più evanescenti nel mondo globalizzato delle grandi multinazionali), appare più spesso legata ad un pernicioso rapporto con gli esponenti politici al potere, piuttosto che alla loro reale capacità imprenditoriale.
Cinque. Recensendo successivamente il testo di Reich[10], dopo aver sagacemente notato che nell’imminenza della grave crisi economica che di lì a poco avrebbe colpito gli Stati Uniti e quindi l’intero mondo non vi è alcuna avvisaglia, confermando quindi le preoccupazioni di chi teme le derive di un sistema economico di dimensione ormai planetaria governato con il “pilota automatico” della finanza, della deregulation, della massimizzazione del profitto, il nostro autore assume i panni certamente a lui consoni del political economist, ed in questa veste critica il“supercapitalismo” nella versione americana offerta appunto da Reich. A questo proposito afferma Salvati, che non vi è contrapposizione tra le scelte del cittadino-consumatore e quelle del cittadino che richiede il rispetto dei più basilari diritti sociali, perché egli in realtà non può esercitare una libera scelta in questo senso ma solamente una scelta imposta dai gruppi dominanti, i quali hanno comunque precise responsabilità in merito anche se la normativa consente loro di assumere un ruolo di deresponsabilizzazione dalle necessità collettive; e implicitamente conferma invece la grande portata della nostra Costituzione, laddove in quel famoso articolo (art. 41) definisce la libertà d’impresa, che però non può essere in contrasto con l’utilità sociale. Enorme portata si diceva naturalmente se questa prescrizione fosse costantemente osservata. Sembrerebbe anche di udire una certa eco di talune riflessioni di Pier Paolo Pasolini elaborate su questi temi dallo scrittore alcune decine di anni or sono, sulla mutazione antropologica del tipo umano (in specie di quello italiano) generata dalla società dei consumi, e sulla impossibilità per quest’ultimo di estraniarsi da questo modello di sviluppo imposto. Inoltre, usando le categorie economiche marxiane del <capitale> in perenne conflitto con il <lavoro>, categorie però secondo Salvati ormai da considerare desuete archiviando così il concetto di “lotta di classe”, egli è dell’opinione che le stesse possano invece convivere in una economia di mercato, specialmente se coordinate da una politica “moderatamente riformista”, che induca sia i capitalisti che i lavoratori a non estremizzare le loro rivendicazioni; saranno poi le specifiche modalità in cui si esprimono i diversi capitalismi ad indicare dove stiano effettivamente i “limiti” da non oltrepassare, tenendo conto però che anche in questo caso la nostra Costituzione sancisce che “…il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata….(art. 36)”, e in ogni caso decente. Ed è proprio sulla definizione di questi “limiti”che si gioca, credo, la qualità della proposta di Salvati per una società di mercato liberale e democratica. Che cosa è possibile negoziare bilateralmente per esempio sull’ “altare della competitività”, e che cosa invece rappresenta un valore non negoziabile, dato per assodato che non si possano scaricare esclusivamente sulle modalità organizzative del lavoro e quindi sui lavoratori tutti gli oneri, ma sia invece necessario anche in tempi di globalizzazione scommettere sulla qualità del prodotto, investendo in ricerca e sviluppo, e in tempi di crisi magari riducendo i margini di profitto. E allora dovrebbe essere esiziale stabilire delle “soglie” di riferimento, e per questo motivo ci si domanda: potrebbe essere utile che le retribuzioni manageriali non superino una “certa soglia” anche nel settore privato? Od anche, dovrebbe essere scoraggiata la delocalizzazione delle imprese che magari si sono strutturate attraverso le diverse forme di agevolazioni pubbliche? E’ giusto barattare l’accesso al lavoro con taluni diritti dei lavoratori? Oppure tutto questo è sbrigativamente da ascrivere alla categoria del vetero-conservatorismo di sinistra?
Sei. In aggiunta l’evoluzione post-moderna del capitalismo e il conseguente delinearsi di un “pensiero unico” universalmente condiviso hanno eroso nel profondo le categorie politiche classiche di “destra” e di “sinistra”, sparigliando per così dire le carte in tavola, tanto da rendere spesso indistinguibili nelle diverse società di mercato le azioni di quelle forze politiche che in precedenza erano considerate invece come antagoniste. Afferma Salvati che è più facile scorgere attualmente in politica la diade <amico>, <nemico>, od anche <innovatore>, <conservatore>, le quali però non sono più direttamente sovrapponibili alle categorie politiche classiche sopracitate. Tuttavia questo fatto ha come effetto quello di ostacolare il cambiamento, che è possibile anche all’interno di un sistema economico delineato dal “pensiero unico”, a causa della vischiosità del contesto in cui sono dispersi i diversi attori dell’innovazione.Inoltre ammesso che sia possibile è comunque difficoltosa la <quadratura del cerchio> per dirla con le parole di Dahrendorf[11], cioè l’equilibrio del triangolo tra crescita dei redditi, libertà di espressione politica, coesione del tessuto sociale, tanto che Salvati asserisce che finora tale <quadratura>, almeno nelle società avanzate, è stata in qualche modo possibile, ma egli si chiede se lo sarà ancora in futuro.
Sette. E allora quali sono le politiche economiche da attuare oltre la crisi e quali i suggerimenti in questa prospettiva che emergono dall’opera che stiamo oggi esaminando? Quel che rimane come sedimentazione fondamentale dalla lettura dell’agile testo del professor Salvati è certamente la possibilità (ma anche la necessità) di un “capitalismo ben forgiato”, che produca sia ricchezza che democrazia e libertà, a condizione però che si esercitino tutti quei “pesi e contrappesi” che sono in grado di far assumere ad “Amleto”, cioè al capitalismo stesso, abiti decenti ed accettabili; e in questo senso i singoli cittadini, i corpi sociali, ma soprattutto la politica devono agire le responsabilità che sono a loro attribuite. Compito non facile e non privo d’insidie. E comunque è necessario che questo processo quotidiano di acquisizione di maggiori condizioni di democrazia e quindi di eguaglianza non si traduca in una inutile fatica di Sisifo, ma in un apprezzabile percorso di emancipazione: se democrazia e mercato son “croce e delizia” dei moderni, e tanto per stare nel cerchio delle metafore sono i nuovi Diòscuri, quantomeno lo siano in modo “equo” proprio come nel mito greco (sei mesi in Cielo e altrettanti nell’Ade), e già questo fatto assunto come paradosso potrebbe rappresentare un elemento di giustizia nei confronti di quelle tante persone che stanno troppo spesso solo negli inferi. Resta il fatto di valutare se tale modello di sviluppo possa avere comunque una sostenibilità ambientale, di approvvigionamento delle risorse, se lo si estende a livello planetario, seppure esso possa poi essere sorretto da architetture economiche sufficientemente democratiche. E in questo senso è di grande utilità approcciare a questi temi attraverso le lucide riflessioni del professor Salvati contenute nel suo testo al quale si rimanda per una più puntuale trattazione; soprattutto in momenti storici non di emergenza, poiché come afferma il docente universitario qui con noi stamattina “…Vorrei sinceramente sbagliarmi sulle previsioni di un rischio ecologico imminente e su quelle di un conflitto internazionale e interno per risorse scarse. Se non mi sbagliagliassi, ragionare su capitalismo e democrazia sembrerà domani un irrilevante esercizio accademico. Un lusso,… come la democrazia…”[12], ma ormai abbiamo maturato la consapevolezza che la democrazia invece non è proprio un lusso.
- [1] Michele SALVATI, Capitalismo, mercato e democrazia, Il Mulino, Bologna, 2009, p.11
- [2] Ibid., p.16
- [3] Michele SALVATI, Il Partito Democratico per la rivoluzione liberale, Feltrinelli, Milano, 2007, testo discusso nell’incontro del c.f.p. del Circolo Dossetti di Milano del 1/03/08
- [4] Michele SALVATI, Capitalismo, mercato e democrazia, Il Mulino, Bologna, 2009, p. 31 sta in, I principi e l’efficienza, in A. Martinelli, M. Salvati, e S. Veca,Progetto 89, Il Saggiatore, Milano, 2009
- [5] Particolarmente, Giovanni SARTORI, Democrazia. Cosa è, Rizzoli, Milano, 2007, Nuova edizione integrata
- [6] Michele SALVATI, Capitalismo, mercato e democrazia, Il Mulino, Bologna, 2009, p.18
- [7] Ibid., p.21
- [8] Ibid., p. 55 e segg., recensione al testo John Dunn, Setting the People Free. The Story of Democrazy (trad. It. Il mito degli uguali. La lunga storia della democrazia, Milano, Egea, 2006)
- [9] Ibid., p. 89.
- [10] Ibid., p. 111 e segg., R. Reich, Supercapitalismo, Roma, Fazi, 2008.
- [11] Ibid., p. 147 e segg., Commento alla ripubblicazione del testo di R. Dahrendorf, Quadrare il cerchio. Ieri e oggi, Roma-Bari, Laterza, 2009.
- [12] Ibid., p. 51
Trascrizione della relazione di Michele Salvati
Innanzitutto, ringrazio gli amici del Dossetti a cui sono molto affezionato e amico fraterno, in particolare Giovanni Bianchi, cui mi ha accomunato una lotta, prima nell’Ulivo e poi nel Partito Democratico.
Questo è un circolo di pensiero (come tutti, voglio dire) ma questo, in particolare, di persone che riflettono su dilemmi fondamentali del nostro paese e a cui auguro di continuare a svilupparsi e soprattutto di agire per un’operazione di reclutamento per gente, per giovani, perché questo credo che sia il suo compito fondamentale. Vedo molte persone che hanno sacrificato questo weekend qui, ma sono come me tutte di una certa età, un po’ più giovani di me ma in ogni caso… Invece, riuscire a raccogliere ragazzi più giovani e farli partecipare alle riflessioni che qui si svolgono sarebbe una cosa utile. Lascio da parte questo.
Non vi voglio infliggere una lunga introduzione. Ringrazio molto Andrea Rinaldo per la sua, competente e molto vasta, e anche molto dettagliata, di cui sottolineava soltanto alcuni aspetti di natura forse più personale e poi alcuni aspetti di natura più teorica.
Allora, come è nato questo libro? Questo libro è nato semplicemente perché mi sono reso conto che in un insieme di interventi, in genere lunghe recensioni, tipo quelle della “Review of Books”, o comunque recensioni più dettagliate con note, eccetera, e in introduzioni e in prefazioni, mi andavo occupando di un solo tema, cioè stavo leggendo libri che in qualche modo spiegassero o facessero capire,quali sono i limiti che il sistema sociale ed economico nel quale noi viviamo –lo chiamiamo capitalismo o economia di mercato, che si sta internazionalizzando, che sta coinvolgendo, che sta raccogliendo ormai l’intero mondo, che è diventato un villaggio globale. Guardate, se c’è un testo che dà un’idea di che cosa sta avvenendo adesso, questo è un vecchissimo testo, un testo meraviglioso, un vero poemetto, ed è il Manifesto del Partito Comunista di Karl Marx. Se andate a leggere quello, circa il modo in cui le comunità organizzate nei modi più diversi, sparse per il mondo, sono spazzate via dal vento di bufera del capitalismo, dell’economia di mercato, della ricerca del profitto, ovunque, e come cose che una volta sembravano sacre attualmente, praticamente, vengono mangiate, vengono divorate da questa forza inarrestabile, voi trovate una descrizione straordinaria di che cosa sta avvenendo adesso, oltre 150 anni dal momento in cui quel libretto è stato scritto.
E se volete leggere in particolare un qualcosa che vi dà un’idea delle forze, della dinamica incredibile della modernità, vi rimando sempre, immagino vi ho già rimandato, perchè questo è un testo che si legge con estrema facilità, perché è un critico letterario e parla di grandi opere letterarie del passato, ed è il testo di Marshall Berman che si intitola L’esperienza della modernità, ma il cui titolo vero in inglese era “Tutto ciò che è solido si scioglie nell’aria” ed è una frase tratta dal Manifesto di Marx, cioè tutte le idee che noi veneravamo, i rapporti che noi rispettavamo, nelle varie comunità disperse nel mondo, sono praticamente incrinate, mangiate, divorate, riformulate e distrutte da questo mostro incredibile. Ma mostro incredibile nel senso di Carducci, voglio dire: avrei potuto mettere anche la poesia di Carducci della modernità, dove per modernità intende il capitalismo. Ed è splendido questo libro.
È uno splendido libro. Io per esempio non avevo mai capito, avevo letto da ragazzo quando studiavo tedesco, il secondo Faust di Goethe e l’episodio famoso di Filemone e Bauci, che è un episodio di due persone decentissime e meravigliose che fanno una vita splendida in una piccola pianura e che vengono uccise da un processo di modernizzazione. Goethe si sta riferendo alla costruzione delle grandi dighe dello Zwidersee in Olanda che allagarono grandissimi territori e distrussero la vita che avveniva in questi territori inclusa la vita di questi due vecchierelli, una vita bellissima. E la domanda implicita è: ne vale la pena di tutto questo?
O, per esempio, un altro episodio – ci sono vari casi letterari – che non riguarda un caso letterario, ma un grande caso di urbanistica. Il Bronx, questo quartiere malfamato di New York, è diventato Bronx a seguito di un potere recentissimo di immigrati ebrei, fondamentalmente in New York, è diventato il quartiere di Bronx a seguito della costruzione di una grande autostrada che connetteva il resto del paese con Manhattan, e ha spezzato questo quartiere e ha distrutto i rapporti sociali che esistevano in questo quartiere. Di nuovo la domanda implicita è: ne vale la pena?
Queste sono le forze del capitalismo e della modernità naturalmente, e sono forze inarrestabili con cui bisogna fare i conti. E questa domanda – ne vale la pena? Quando dobbiamo fermarci? Quali sono le soglie oltre le quali non si deve lasciarle scatenare? – è una domanda ricorrente in quel libro molto bello. È una lettura che vi consiglio anche perché è un libro facile, un libro in cui viene preso Dostoevskij, grandi casi letterari di grandi letterati che capiscono questa forza che ha invaso il mondo a partire dalla fine del Settecento e sta procedendo a grandi passi e distrugge.
Ma costruisce anche. In un’analisi costi-benefici, morale però e non strettamente economica, quando è opportuno fermarla e quando è opportuno lasciarla scatenare? In questo momento si stanno scatenando: la cifra fondamentale della grande innovazione di quest’ultimo trentennio, quella che è partita con Reagan e la signora Thatcher, è questa la cifra. Noi ne vediamo gli aspetti più negativi nel senso che le minacce, e l’appiattimento nei nuovi paesi coinvolti in questo vento di bufera capitalistico, le minacce pongono condizioni di vita che noi abbiamo raggiunto nel primo trentennio di sviluppo di questo dopoguerra, il trentennio controllato, il trentennio dell’età dell’oro, il trentennio di Bretton Woods, il trentennio di Roosevelt, quel trentennio nel quale l’obbligo dominante era la costruzione del pieno impiego. Questa era l’idea di base delle politiche keynesiane, questa era l’idea di base della politica del welfare. Ed è il trentennio in cui tutto è andato bene, che ha fatto salire enormemente il grado di benessere e il grado anche di inclusione nei processi democratici dei nostri concittadini.
Adesso il coinvolgimento di altre parti del mondo che hanno standard di diritti molto inferiori ai nostri è una minaccia; è una minaccia per noi, non è una minaccia per i 2 miliardi e mezzo di persone che sono state coinvolte all’interno di questo, noi la vediamo una minaccia per noi, ma non è una minaccia per loro. Allora, vale la pena di minacciare le nostre condizioni di benessere e di democrazia allo scopo di far partire altre 3 miliardi di persone in un processo che potrebbe arrivare alle stesse conclusioni anche per loro? Nel frattempo noi, per decenni e decenni, soffrire di questa competizione che si è creata? Questi sono i grandi interrogativi a cui noi dobbiamo dare una risposta per avere più o meno un’idea.
Allora, la cosa che stavo facendo in realtà era studiare in questi ultimi anni, al di là dei miei impegni professionali, era leggere libri importanti che riguardassero esattamente questo. E questa è una raccolta di saggi che ho dedicato a questi libri importanti, che ho dedicato a un bellissimo libro di John Dunn cui faceva riferimento Andrea Rinaldo, che forse, filosoficamente, è il più impegnativo e anche per me è stato il più impegnativo di queste recensioni: Ma anche leggere altri libri; Power Right l’ha già menzionato Rinaldo. Simile a quello è un libro di un grande giornalista che è Kevin Phillips su Ricchezza e democrazia che analizza i grandi cicli che ci sono stati negli Stati Uniti, con fasi di distribuzione del reddito a favore dei ricchi cui si sono succedute fasi di distribuzione del reddito e anche di spostamento di potere politico a favore dei poveri. Ora la nazione americana subisce questi continui cicli ed evidenzia le forze quando la distribuzione del reddito e quando le condizioni di democrazia diventano troppo infelici per la gran parte della popolazione, c’è il potere all’interno di quella democrazia di una reazione. Questo potere di reazione lo si è visto recentemente con Obama, minacciata naturalmente adesso, ma in ogni caso c’è, e c’è stata nel passato, c’è stata con Roosevelt, con i due Roosevelt, sia Franklin Delano alla fine della guerra, sia il Roosevelt repubblicano Theodore. Repubblicano o democratico negli Stati Uniti non vogliono dire niente, adesso i democratici sono qualcosa vicino alla sinistra, lo sono sempre stati, ma al tempo di Teodoro Roosevelt erano i repubblicani più vicini alla sinistra. Bisogna stare attenti sempre a tradurre cosa vuole dire repubblicano o democratico rispetto ai valori a cui noi crediamo. E questo libro fa vedere queste cose qui.
Come un altro bellissimo libro che ho recensito, quello di Andrew Glyn sul “capitalismo scatenato”, un libro pubblicato di recente da Brioschi anche in Italia, che è la migliore analisi esistente circa i due grandi cicli di democratizzazione e di contrasto alla democratizzazione, di benessere per i poveri e di malessere per i poveri che ha vissuto il capitalismo di questo dopoguerra: il primo ciclo, un ciclo di trent’anni subito dopo la prima guerra mondiale, i 30 anni keynesiani, i 30 anni del welfare per intenderci e i 30 anni di grande sviluppo, e i successivi 30 anni, quelli dopo Reagan e la Thatcher, quelli che stiamo vivendo noi. Guardate, le statistiche che riporta questo libro sono impressionanti, sono commentate in maniera insuperabile e fanno vedere come quella di Reagan e Thatcher sia stata una brutale cesura, che però ha portato allo sviluppo del resto del mondo, una brutale cesura che ci pone questo interrogativo, naturalmente. E questa è una cosa.
Come il libro di Castells che riguarda proprio gli ostacoli che il capitalismo pone rispetto ai processi di democratizzazione, in particolare rispetto alla autonomia di pensiero delle classi dominate, delle classi subordinate voglio dire, perché il controllo dei mezzi di comunicazione è un controllo cruciale affinché i cittadini si rendano conto di quanto sta avvenendo. Questo controllo da parte dei potenti è molto forte e Castells ha una tesi interessante e piena di speranza sul fatto che Internet possa diventare uno strumento democratico. Guardate, non è affatto dato che lo diventi, ma può diventarlo. Può essere più autonomo rispetto ai centri di controllo dell’informazione che prevalgono nella grande TV generalista, almeno lascia aperta questa possibilità e anche questa è una cosa interessante.
La cosa di cui mi sono reso conto che stavo facendo era quella di vedere in che modo l’ordine economico-sociale nel quale noi viviamo influisce sulla qualità democratica dei nostri paesi, sulla capacità delle democrazie di rispettare una promessa che è fondamentale in essi. Persino un liberale di destra come Giovanni Sartori, che però è una persona di straordinaria lucidità, lo vede. La democrazia è semplicemente un insieme di norme, un insieme di regole procedurali, imbevute in uno stato di diritto; ha messo tre secoli per svilupparsi lo stato di diritto, e poi, come ultimo fiore, a produrre la democrazia. Guardate, se andate a vedere dalle guerre di religione in poi, quindi dalla metà del Seicento in poi, l’evoluzione di una società liberale, di una società borghese come si è realizzata un po’ più tardi, voi vi rendete conto quanto è stato lungo, penoso e fonte di continui conflitti stabilire un insieme di regole di funzionamento dello stato, diciamo così, dello stato di diritto, e di attribuzioni di diritti e poteri a ogni singolo cittadino indipendentemente dal suo status, dal fatto che fosse nobile o che fosse un comune. È stata una lunghissima storia, una straordinaria storia. In cui sono stati prima attribuiti i diritti economici alla nascente borghesia che li chiedeva, un insieme di diritti ai civili, la libertà di associazione, la libertà di pensiero, e poi da ultimo, ultimo fiore, pericoloso fiore, i diritti politici. Sostanzialmente, il diritto dei cittadini di scegliere i propri governanti. Questo ultimo diritto, il più terribile dei diritti, quello che stabilisce una frattura drammatica rispetto al precedente modo di conduzione della cosa pubblica, avviene con le grandi rivoluzioni, lente e pacifiche come quella britannica, più cruente e secche come quella americana, che parte però da condizioni favorevoli, e terribilmente cruente come quella francese. Sono le grandi rivoluzioni che in realtà stabiliscono il diritto dei cittadini a scegliere i propri governanti attraverso procedure di selezione elettorale.
Anche questo è in discussione attualmente. Guardate che c’è stato un lungo periodo di incertezza tra l’elezione e il sorteggio, il semplice sorteggio. Ma questa è una storia lunga in cui si può andare dentro. C’è stato questo lunghissimo processo e questo lunghissimo processo è ancora in corso, continua, non è affatto finito e, per dare i caratteri fondamentali della democrazia alla quale noi siamo tanto affezionati adesso, non potete pensarla come un qualcosa di inventato, è il frutto di un processo che prima ha costruito lo stato di diritto, prima ha costruito la garanzia delle libertà e dopo, da ultimo, ha costruito l’ultima delle libertà, la libertà politica, di scegliere i propri governanti e questa ha chiuso questo cerchio realizzandolo ed è questa la democrazia a cui siamo affezionati.
Guardate, la democrazia ha almeno tre grandi pilastri: è una democrazia anzi tutto costituzionale, e questo è stato ottenuto in realtà lentamente nel secolo passato o due secoli fa, in realtà, è una democrazia liberale, cioè che difende i diritti di non ingerenza nei confronti dei cittadini da parte di altri poteri, da parte di altri cittadini, da parte dello stato e anche questo è stato ottenuto; e poi è una democrazia rappresentativa, e questo è l’ultimo grande pezzo della democrazia. Questa è la democrazia nella quale noi viviamo.
Democrazia, come Rinaldo ricordava, soggetta a continue tensioni e una tensione fondamentale che ha questa democrazia è che è basata di fondo su un’idea di eguaglianza, cioè tutti sono liberi di, tutti sono uguali nel scegliere i propri governanti, mandarli via e farsi un giudizio su quanto hanno fatto; quindi sull’idea di eguaglianza che era centrale nella democrazia degli antichi; questa è una democrazia moderna di cui stiamo parlando, rappresentativa; nella democrazia degli antichi l’idea di uguaglianza era ancora più forte, cioè tutti decidevano nell’agorà; tutti, se pensiamo all’esperienza di Atene, di Pericle, tutti decidevano, “tutti” erano circa 6.000 persone, molto attive, tendenzialmente benestanti, cittadini, tutti maschi, quindi fuori naturalmente gli schiavi, fuori i più poveri che non avevano il tempo, la possibilità di andare all’agorà, e decidevano tutti insieme, voglio dire, era una vera democrazia decidente assembleare. Questo non lo si può più fare adesso ed è sostituita dalla democrazia rappresentativa.
Ma già allora c’erano le premesse della democrazia radicate nel concetto di eguaglianza, di uguale dignità di tutti i membri di una comunità nel prendere decisioni che riguardano l’intera comunità: questo è un concetto valoriale essenziale nell’idea di democrazia. E non può essere disgiunto dalla pratica della democrazia. E quando la disgiunzione è troppo forte si creano tensioni. E vi dicevo che anche un liberale come Giovanni Sartori, liberale puro, liberale di centro, se volete, o di destra, non certo di sinistra in ogni caso, lo vede: cioè la democrazia è un dato di fatto, è uno stato procedurale in cui si discute, ma è legata all’idea di uguaglianza e quando c’è una dissociazione troppo forte tra l’idea di uguaglianza e di ugual potere, di uguale capacità di decisione dei cittadini rispetto alla pratica che si vede sott’occhio, allora cominciano le tensioni, cominciano le tensioni gravi. Questo lo vede benissimo.
E tutto il saggio di John Dunn che è un saggio bellissimo, purtroppo la traduzione italiana è cattiva, ma anche nella traduzione italiana si capisce che è un saggio stupendo, ha a che fare con questo contrasto, con questo radicamento della democrazia nel concetto di uguaglianza e, invece, sulla pratica che certo non è una pratica di uguaglianza. Tra l’altro, lo giostra su due idee di base che prende da una citazione di Filippo Buonarroti. Filippo Buonarroti era il grande amico di Gracchus Babeuf, cioè gli estremisti per l’uguaglianza nella Rivoluzione Francese, e il contrasto tra ordine dell’equità, questa idea di eguaglianza, e ordine dell’egoismo, dove per ordine nell’egoismo si intende, diciamo, il fatto che lo scatenamento degli interessi individuali in un’economia di mercato contrastava necessariamente con questa idea di uguaglianza: i ricchi e i potenti, che diventavano ricchi e potenti a seguito delle ricchezze che riuscivano a raggiungere grazie anche alla loro abilità, alla fortuna, ai furti, a qualsiasi cosa, ma anche alla loro abilità, alla loro capacità, riuscivano acquisire nel mercato, poi sarebbero state impiegate per comprimere qualsiasi idea di uguaglianza nel senso che questi a seguito della loro ricchezza avrebbero influito in almeno due modi fondamentali nel far sì che il governo di un paese non fosse egualitario, non rispettasse questa idea e le voci di coloro i quali erano per una più forte idea di uguaglianza venissero compresse.
Questi due modi fondamentali erano: ricchezza e potere influiscono fondamentalmente sul ceto politico, sostanzialmente i ricchi e i potenti fanno parte della stessa genia dei grandi politici, i loro figli si sposano insieme, le loro vite sono congiunte, e quindi i loro interessi sono iper-rappresentati dal ceto politico per via di questa stretta congiunzione che dà il potere guadagnato sul mercato rispetto alla politica. E l’altro modo, che risponde all’obbiezione: ma perché allora i poveri non si ribellano, non formano dei partiti i quali prendano delle decisioni contro i ricchi e i potenti, o per moderare? Perché la testa dei cittadini viene formata oggi diremmo dai media o comunque, sostanzialmente, dall’influenza che i ricchi e i potenti hanno anche sulla cultura diffusa, trasmessa in qualsiasi modo.
Dell’importanza di questo libro fondamentale di Manuel Castells, che è appunto Democrazia e potere, o qualcosa di questo genere, un librone grosso pubblicato di recente, noi possiamo dare degli ovvi esempi. Questi sono i due modi fondamentali e in questi saggi che io analizzavo questi due modi fondamentali sono studiati in incredibile dettaglio. Per esempio, nel libro sul supercapitalismo di Robert Reich si fa vedere come, grossomodo, le grandi lobby, i grandi ricchi, i grandi capitalisti influiscono sulla legislazione degli Stati Uniti. Quali sono i canali per i quali influiscono sulla legislazione degli Stati Uniti? I canali sono semplicissimi; in quel particolare sistema i politici devono poter essere eletti (in una democrazia formale così deve avvenire) e chi dà i mezzi per essere eletti? Questo è il circuito.
E come anche l’orgoglioso sistema informativo degli Stati Uniti, gli orgogliosi giornalisti degli Stati Uniti sono sempre di più, o rischiano di esserlo, in alcuni momenti lo sono, in altri un po’ meno, parti del gioco. Cioè, il loro potere di indagine e di svelare ciò che sta dietro alle singole decisioni che vengono prese dai politici viene in qualche modo controllato e limitato a seguito, di nuovo, dell’alleanza della ricchezza con gli stessi giornali, eccetera.
In questo libro Reich queste cose le fa vedere con il dettaglio che soltanto i libri divulgativi americani possono avere. Questi libri sono fatti in maniera molto diversa dai nostri. Sono un po’ fatti come il libro di Cazzullo Viva l’Italia, sono fatti attraverso dozzine e dozzine di episodi, non sono fatti attraverso un ragionamento teorico. Dozzine e dozzine di episodi irrefutabili che mostrano questa connessione. Così anche il libro di Kevin Phillips di cui vi dicevo è fatto così.
La sola cosa che io ho fatto è stato semplicemente di rendermi conto che stavo studiando il modo in cui la ricchezza influisce sulla democrazia e sulla promessa di uguaglianza che è il sale della democrazia. È la ragione per cui siamo democratici, la ragione per la quale noi abbiamo chiamato questo nostro partito, Partito Democratico voglio dire, perché la democrazia intesa come valore normativo è un sale della vita politica straordinario, l’unico a cui noi possiamo legarci adesso che alcune grandi narrazioni che ci illudevano del fatto che se avessimo cambiato questo sistema, avremmo cambiato praticamente la bontà della vita democratica, sono evaporate, scomparse. Rimane questo fondamentale valore.
Quindi, leggevo queste cose, le commentavo e avevo visto che avevo fatto un’ottantina di pagine: a queste poi ho aggiunto un’altra cinquantina di pagine ed è uscito questo libretto. Tenete conto che la stampa è piccola e queste 150 pagine che ho scritto sono in realtà lunghe, sono abbastanza impegnative anche se il fatto di passare da un argomento all’altro, di recensire le rende abbastanza leggibili, credo. E l’introduzione, è un’introduzione più tosta, quella da cui Rinaldo ha estratto quella specie di tamburo. La nota da cui parto è che non ci può essere democrazia senza proprietà e mercato, proprietà e mercato vogliono dire capitalismo, ma il capitalismo contrasta con la democrazia e i modi di contrasto li ho appena indicati. E li ho accuratamente recensiti leggendo questi libri che parlano esattamente di questi contrasti.
Se questo è vero, se non ci può essere democrazia senza proprietà e mercato, quantomeno adesso, quantomeno per i modi che noi sappiamo in cui grandi società possono essere governate, cioè in cui la divisione del lavoro che produce ricchezza può essere costruita, e non abbiamo trovato un modo che sia diverso dal mercato e dal capitalismo. E qui rinvio a un altro lavoro che avevo fatto in precedenza, insieme con Veca e Martinelli, che è stato pure pubblicato al principio dell’89, una cosa di questo genere (posso andare a vedere la citazione esatta di questo libro): è un libro la cui stesura nel lontano ’88 per me è stata fondamentale perché è quella con cui ho spazzato via tutti i residui di marxismo che mi erano rimasti addosso, non ho spazzato via i residui di sinistra che mi erano rimasti addosso; ma questa, diciamo, falsa narrazione che mi aveva tanto entusiasmato quando ero giovane, è stata liquidata, e la cosa che faccio vedere è che una democrazia, cioè senza i valori di libertà misti ai valori di uguaglianza, una democrazia non può sussistere in un sistema pianificato, in un sistema centralizzato, cioè non può essere accoppiata così con un sistema pianificato; un sistema senza proprietà privata è necessariamente non democratico ed è necessariamente inefficiente dal punto di vista produttivo.
Ora, voi mi direte, l’efficienza non è un valore, chi se ne frega dell’efficienza, pensiamo ai grandi valori. No, l’efficienza non è un valore ma è importante nel senso che senza ragionevoli elementi di efficienza non c’è produzione, non c’è ricchezza e non c’è niente da distribuire fondamentalmente. Questo è un po’ il punto di fondo. Questa è una premessa lontana, ma quando diciamo che non ci può essere democrazia senza proprietà e mercato io mi riferisco sia al fenomeno dell’efficienza che ho già trattato, sia al fenomeno dell’autonomia e della libertà dei singoli cittadini che sono la premessa della democrazia. Che cosa vuol dire che sono la premessa della democrazia? Come intendiamo la democrazia rappresentativa?
La cosa che devo dire è fondamentalmente questa: per essere un attore nella democrazia tu devi essere, in un certo senso, economicamente indipendente, cioè tu devi trarre le tue risorse vitali, quelle che ti consentono di sopravvivere, fondamentalmente dai tuoi mezzi al di fuori del circuito politico e statale. Perché se entri in questo tipo di circuito politico e statale, che poi è un circuito che implica che hai un partito unico, tanto per intenderci, a questo punto le possibilità tue di essere un soggetto indipendente che giudica il politico, non ci sono. Non sei libero di ottenere le risorse. Tu hai bisogno di questo, tu hai bisogno del mercato, perché il mercato, e la proprietà che è associata al mercato, è l’unico che garantisce indipendenza e autonomia. Quindi anche indipendenza e autonomia politica: questo è un pezzo di ragionamento centrale; è la prima affermazione e io dedico buona parte dell’introduzione a rendere credibile, a ragionare su questa prima affermazione. Non ci può essere democrazia senza proprietà e mercato; proprietà e mercato, però, generano necessariamente disuguaglianze, che vogliono dire capitalismo e il capitalismo genera necessariamente disuguaglianze, genera necessariamente una distribuzione del reddito diseguale, genera ricchi e potenti.
C’è un’altra forza che genera disuguaglianza, naturalmente al di là del mercato, ed è la stessa complessità sociale, cioè i grandi ruoli che una persona occupa in una società che è molto complessa e che implica necessariamente un elemento di gerarchia indipendentemente dal capitalismo, che lo implica, diciamo, di fatto; ma anche la stessa complessità sociale, le grandi società implicano forme gerarchiche, e per essere gestite, implicano che tu devi scegliere sostanzialmente le persone più capaci e competenti che devono star sopra e comandare gli altri. In qualche modo la gerarchia è un fatto che in un certo senso va oltre lo stesso capitalismo, è un’altra poderosa forza, la complessità sociale, che genera disuguaglianze in società molto complicate. Se fossimo ancora nella società di agricoltori di un tempo, ma già al tempo degli agricoltori c’era disuguaglianza, nelle società delle piccole comunità di raccoglitori e cacciatori lì ci approssimeremmo a un ideale di democrazia, nel senso che tutti sono in condizioni uguali, la società è piccola, ci sono relazioni de visu, possiamo dire.
C’è un bellissimo libretto di Gerald Cohen, pubblicato da Ponte alle Grazie, credo sia una cosa recente, il cui titolo è Socialismo perché no, o qualcosa del genere. Ve ne consiglio la lettura perché è molto istruttivo, va anche contro a quello che lui vuole affermare in un certo senso, comunque lui è un marxista, straordinario però, è anche un filosofo analitico, e credo che sia una delle cose più belle scritte da un marxista (il marxismo è anche un poderoso strumento di analisi), perché parte da un piccolo apologo, parte da una piccola descrizione che è come una piccola comunità dei cacciatori-raccoglitori.
Dice: immaginiamo di fare una gita, si forma una piccola comunità che va in gita, vanno in un bosco e fanno varie cose, ci sono persone con diverse abilità, uno è più bravo a fare una cosa, l’altro è più bravo a farne un’altra, e anche hanno diversi mezzi, nel senso che qualcuno si è dimenticato il cavatappi, qualcun altro non ha delle altre cose, eccetera. Questi problemi vengono risolti nelle condizioni di eguaglianza vera come l’essere insieme a fare una gita, come si generano nelle comunità di cacciatori-raccoglitori. Poi parte: la nostra società non è una società di raccoglitori, di cacciatori e pescatori, è una comunità maledettamente complessa in cui si sono stabilite delle relazioni gerarchiche che vanno contro queste relazioni di uguaglianza: i nodi si devono risolvere, le soluzioni hanno delle procedure e le procedure sono quelle. È un libro splendido, bellissimo.
Detto questo, sto per dare l’idea che il capitalismo è un poderoso ostacolo rispetto all’uguaglianza, ma anche nel socialismo pianificato, nel socialismo marxista tanto per dare un’idea, un poderoso ostacolo è la complessità sociale perché è vero che le condizioni di uguaglianza nell’Unione Sovietica erano maggiori che non nel capitalismo, perfettamente vero, erano controllate queste disuguaglianze, erano disuguaglianze che non si vedevano perché il reddito formale era molto vicino per tutti, dal primo segretario dell’Unione Sovietica all’ultimo dei lavoratori di una fabbrica o di un kolchoz. Però, di fatto, i vantaggi addizionali, i vantaggi accessori, erano enormi perché per le sue funzioni il primo segretario dell’Unione Sovietica aveva diritto a comandare un’enorme quantità di lavoro, a partire dal suo autista. E poi, spontaneamente, le scuole a cui mandava i suoi figli erano le scuole migliori rispetto a quelle a cui mandava i figli la gente più modesta.
Quello non era capitalismo, d’accordo, era l’effetto della complessità sociale e l’effetto, altro fenomeno fondamentale su cui vi invito a riflettere che è un grande ostacolo all’uguaglianza, è l’effetto della famiglia e delle relazioni familiari.
Vedete, la famiglia è quella bella cosa a cui vogliamo dare contributi, specialmente quelli del mondo cattolico, che vogliamo prendere come centro della distribuzione del reddito, ma la famiglia è anche centro della disuguaglianza, è la grande costruttrice della disuguaglianza sociale. Riflettete, su questo. Tant’è vero che l’ipotesi più rivoluzionaria che c’è mai stata al mondo non è per niente il socialismo, ma sono stati i kibbutz israeliani, sono stati i sionisti di un tempo, i quali sapendo che questo è il centro della disuguaglianza. La cosa che hanno fatto è una cosa tremenda, alla sola idea noi ci ribelliamo: staccare gli infanti appena nati dalle cure della famiglia per darli a educatrici nei kibbutz. Per cui, sostanzialmente, il gruppo di bambini, appena svezzato, dai sei mesi in poi, vedevano i genitori, la madre e il padre, in una visita molto controllata che avveniva ogni 15 giorni, se si poteva. Per il resto, erano trattati in un modo totalmente uguale. Questa è una cosa drammaticamente egualitaria, ma l’egualitarismo vero parte da qui. Nel socialismo vero non c’era, perché i redditi erano più controllati, è vero, ma i vantaggi addizionali, incluse le relazioni familiari, erano poderosi.
L’eguaglianza è un problema molto grosso. Scusate, io veramente parlo a ruota libera, vi va bene così? Lanciamo idee di discussione.
Quindi, la cosa che ho fatto è, grossomodo, discutere di questi tre pezzi fondamentali: non ci può essere democrazia, democrazia formale, democrazia rappresentativa, senza proprietà e mercato, perché questo crea indipendenza; proprietà e mercato vogliono dire capitalismo e quindi disuguaglianza; ma il capitalismo, e la disuguaglianza che questo provoca, contrasta con la democrazia, come ideale di piena eguaglianza di tutti i cittadini nel prendere le deliberazioni fondamentali della loro comunità politica, uguale peso nel decidere quando arrivano i grandi dilemmi politici. Contrasta con questo, per le due ragioni fondamentali che vi ho già detto: la vicinanza che hanno i ricchi e i potenti al potere politico e il modo con cui si formano le opinioni, che molto spesso sono inquinate, o comunque sono fortemente influite dalla ricchezza, perché la ricchezza implica proprietà di giornali, la ricchezza implica proprietà di televisioni, la ricchezza implica la capacità di formare le teste, i giudizi, i valori del cittadino.
Migliore esempio che non l’Italia di oggi voi probabilmente non potete vederlo, ma questo avviene anche in buone democrazie, in democrazie che non hanno un loro capo, o un capo di tutte le televisioni, voglio dire, questo strano personaggio che è Silvio Berlusconi. Guardate cosa avviene negli Stati Uniti, in forme più decorose, in forme meno buffe, meno clownesche come diceva prima Giovanni Bianchi, però ugualmente influenti. Non fissiamoci su Berlusconi, Berlusconi è un’anomalia di cui spero ci sbarazzeremo, come saremo in grado di sbarazzarci. Ma tenete presente che Berlusconi rappresenta un estremo singolare di capo, ma il problema di tipo Berlusconi è un problema per la teoria democratica di tutto il mondo, anche del migliore, anche dei piccoli paesi nordici ai quali sempre ci riferiamo e che, esattamente come sono modelli di stato sociale, sono anche modelli di democrazia per far vedere tutte le caratteristiche dei loro sistemi educativi, dei rapporti che esistono tra interessi e il mondo politico norvegese, svedese o finlandese, e vedete che quanto sono controllati, quanto sono ispezionati, la qualità della loro stampa, eccetera, ma anche in quelli l’ideale della democrazia è tradito.
Io però, quando sento dire questo, che è perfetto, su cui non ho una obiezione, l’ideale tradito, e tutto il libro di John Dunn, che vi invito a leggere perché è una splendida ricostruzione storica, storico-sociale, e spiega quanto è stato lento il cammino della democrazia… Di recente ho fatto una conferenza per i 150 anni, quelle conferenze organizzate dal “Corriere della Sera”, ed è una lunga cavalcata della democrazia in Italia (se vuoi te ne mando una copia, così la puoi distribuire), una delle cose che vedete per la democrazia italiana, ma la vedete anche per tutte le democrazie, e lo vedete soprattutto nel bellissimo libro di Pierre Rosanvallon, Le sacre du citoyen: histoire du suffrage universel en France, che riguarda la lentissima estensione del suffragio universale.
Riflettete che cosa vuol dire la lenta estensione del suffragio universale. Significa che noi partiamo in Italia in condizioni di democrazia nel senso che le elezioni del 21 gennaio 1861, le prime elezioni del Regno d’Italia, avvengono secondo la legge elettorale piemontese che era stata definita, concessa ai tempi dello Statuto Albertino, che per i tempi di allora era uno statuto democratico; la ragione per cui il Piemonte ebbe un tale peso e prestigio, al di là della grande personalità di Cavour, all’interno di tutta l’Italia, era perché era l’unico stato democratico che consentisse elezioni e prevedesse una Camera bassa che limitasse le prerogative regie, cioè i poteri del Re, che era rimasto in Italia dopo la grande gelata che era successa dopo che le rivoluzioni del 1868 erano state sconfitte.
La ragione del prestigio piemontese sta anche in questo, il successo piemontese sta nella genialità di Cavour, ma del prestigio piemontese, del fatto che il Piemonte raccogliesse gli esuli democratici da tutta Italia; e guardate che l’ordine di grandezza era allora di 15-20 mila persone, ed erano tutti intellettuali, e per allora era incredibile: tutti gli esuli napoletani, quelli cacciati dalla reazione borbonica, o decine di persone che dallo stato di Modena o dagli stati pontifici scappavano in Piemonte. 15 mila intellettuali italiani vissero in Piemonte per questo motivo. Benissimo. Che democrazia era questa democrazia, quella che venne applicata all’Italia? Qual era la legge elettorale che venne applicata all’Italia nelle prime elezioni del Regno d’Italia che si svolsero il 21 gennaio 1861? Poi la proclamazione avvenne il 17 marzo, naturalmente, ed è questa che noi festeggiamo. Ma la legge elettorale che costruisce il parlamento nella sede del Parlamento subalpino è questa legge qui.
In questa legge d’Italia, erano tali i requisiti di istruzione e di censo previsti per cui di fatto in quelle elezioni l’1% soltanto degli italiani elesse quel parlamento. In astratto, il diritto di voto l’avevano circa il 2%, l’1,9%. Data la scarsa partecipazione elettorale si recò alle urne l’1% degli italiani. E questa era democrazia, la democrazia di allora. Poi l’estensione del suffragio fu lenta e progressiva (lo descrivo in quella conferenza e non sto a ripeterlo adesso). Lenta e progressiva.
L’idea sotto, la ragione che operava in Italia operò in tutti i paesi, guardate che questo tipo di lentissima estensione del suffragio avvenne in Europa ovunque fino ad arrivare al suffragio femminile che fu ottenuto nel 1946. Al suffragio universale maschile si arrivò nel 1918, senza vincoli di censo, senza vincoli di competenza linguistica, voglio dire senza vincoli di alfabetizzazione.
Per me, la ragione è semplice, fondamentalmente la vedete rappresentata anche nel bellissimo libro di Dunn: la ragione era il timore che è sempre esistito nella democrazia che l’ordine del censo, della ricchezza, l’ordine capitalistico, si pensava minacciato da una estensione immediata della democrazia a tutti; l’idea era i poveri esproprieranno i ricchi. Guardate che questa è un’idea antichissima, c’era anche nella democrazia degli antichi, c’era anche nella democrazie di Pericle. Cioè, se tu dai il suffragio universale a tutti, soprattutto a gente che non ha un interesse nel mantenimento della proprietà, e senza proprietà sono i poverissimi, che cosa faranno? La cosa che faranno è che esproprieranno i ricchi, cioè sostanzialmente agiranno contro il capitalismo. E questa è la ragione della lentezza, finché lentamente le condizioni di povertà si ridussero, le condizioni di istruzione aumentarono e, soprattutto l’imbonimento ma comunque- usiamo un termine diverso – la socializzazione alla democrazia sarà aumentata a un punto tale per cui i poveri non esproprieranno i ricchi.
E quando c’era il timore che una forza non avesse queste caratteristiche, anche quando il suffragio era stato concesso, questa forza viene tenuta al margine, è una forza antisistema; il partito comunista per 40 anni è stato un partito antisistema, esattamente come sono stati, nell’Italia liberale, i partiti antisistema, il partito socialista, cioè i partiti che sono sì presenti perché le condizioni di democrazia e di suffragio consentono una loro rappresentanza all’interno del Parlamento, ma che devono essere tenuti fuori dall’effettiva capacità di governo. Questo è il motivo.
Se voi andate a leggere – ci sono cose splendide nel libro di John Dunn , cose meravigliose, così come nel libro di Rosanvallon che poi io cito – si possono vedere i vari passaggi quando i ceti dominanti cominciano a pensare: ci sono forti pressioni per allargare la democrazia. Per esempio, perché noi chiamiamo questi ragazzi incolti a cui non diamo diritti, li chiamiamo a morire in guerra. Questa è la ragione fondamentale che poi spinge alla grande democratizzazione seguita alla prima guerra mondiale. C’è una coscrizione obbligatoria, e a quelli ai quali non veniva dato il diritto di voto, si dava invece il dovere di morire. La cosa è di un tale contrasto che dovettero dare il diritto di voto.
In molti paesi questa larga estensione del diritto di voto provocò la fine della democrazia, In Italia, per esempio. Perché i movimenti sociali e politici di allora erano così radicali, i socialisti erano così radicali da fare il biennio rosso che generò il fascismo e che segnò la fine della democrazia. Cioè, dovettero dargli il suffragio.
Per dire che quei timori non erano timori insensati. E questo avviene nei paesi meno democratici, con tensioni sociali più forti. Quindi, lentissima estensione del suffragio. E soprattutto, fortissimi poteri di controllo perché la gente votasse bene, ottenuti con tutti i possibili metodi, attraverso il rapporto tra i ricchi e la democrazia e attraverso il rapporto tra i ricchi e la stampa, o i ricchi e i processi di istruzione, i ricchi e i processi di socializzazione.
Ma guardate la democraticissima America, la rivoluzione americana e la Costituzione americana: questo è un paese che molto rapidamente ebbe il suffragio universale maschile, nel 1810 votavano tutti i maschi; l’intera costruzione della Costituzione americana, così buffa crea tali ostacoli all’esercizio del potere negli Stati Uniti, perché è un governo veramente diviso; e quindi molto spesso il Presidente, che ha tutti i poteri esecutivi, non è in grado di far passare leggi perché la Camera dei rappresentanti e il Senato hanno un effettivo potere di veto, tutto diverso da qua. Cioè, la ragione per la quale vengono fatte queste divisioni del potere ha molto a che fare con il fatto della paura, come dicevano loro, come diceva Madison, della tirannia della maggioranza. Questa è un’espressione molto interessante: tirannia della maggioranza, vuol dire i poveri coalizzati che espropriano i ricchi, questo è Tocqueville.
Tutto il mito della tirannia della maggioranza a cui i liberali tengono molto, cioè di cui sono preoccupati, ma sono preoccupato anch’io, cioè che una maggioranza possa avere poteri su questioni di base che hanno a che fare su alcuni canoni della distribuzione del reddito, della ricchezza e povertà, ma anche potenzialmente su alcuni canoni di natura etica. È per quello che noi non tolleriamo decisioni a maggioranza su temi che riguardano la salvaguardia della vita. Perché decisioni a maggioranza in questo campo, per cui i partiti, cioè il potere politico farebbe bene ad astenersi da decisioni così cruciali su cui ci sono posizioni e idee tanto diverse e così intense, per cui non vale una regola di maggioranza.
Cioè, la regola di maggioranza vale su fenomeni distributivi molto più tenui; cioè il potere decisionale della democrazia è molto limitato e quindi non può riguardare i temi come l’ordine sociale in cui si è, e quando la democrazia ha attaccato l’ordine sociale in cui si è in paesi deboli la democrazia è caduta, il capitalismo vince sulla democrazia. E quando invece non ha vinto il capitalismo (Unione Sovietica), ha perso la democrazia, nel senso che si è arrivati a uno stato totalitario anche lì. Quindi, la qualità del mercato contrasta il capitalismo e il capitalismo contrasta con la democrazia, ci deve essere tutto un sistema di bilanciamenti, di attenzioni, di cautele.
Solo che da queste asserzioni: non ci può essere democrazia senza qualità di mercato, senza capitalismo; e il capitalismo contrasta con la democrazia, io traggo un messaggio diverso, che non è un messaggio così scettico… Queste sono due affermazioni realistiche nel senso che sono, secondo me, storicamente inconfutabili. Quali conclusioni traete da queste affermazioni realistiche? Traete la conclusione che è una fatica riformistica improba, continua, incessante quella che può, non dico renderle compatibili perché sono incompatibili, ma rendere tollerabilmente vicine, mettere tollerabilmente insieme capitalismo e democrazia. Cioè costruire la migliore democrazia possibile data la realtà che il mercato crea continue condizioni di disuguaglianza e la disuguaglianza va a influire negativamente sulla democrazia.
Controllare tutto questo, imbrigliare tutto questo attraverso l’incessante attività riformistica che è quella che noi come Partito Democratico vogliamo fare e non riusciamo a far capire quanto è importante farla, perché il riformismo è molto poco sexy. Cioè, non fa promesse escatologiche, cerca di far capire quanto sono complicate le cose, però opera per il meglio all’interno di cose così complicate. Poi si sbaglia in continuazione, naturalmente, a volte non si è sufficientemente aggressivi, sufficientemente riformisti duri, a volte si è riformisti pavidi, e quindi i riformisti duri attaccano i riformisti pavidi, e i riformisti pavidi dicono ai riformisti duri: “se fate così succedono delle reazioni, la gente si spaventa e viene fuori un Berlusconi”. Voglio dire, questa è la vita politica normale e questa è la posizione politica che io e Giovanni Bianchi condividiamo.
Allora, questo libro cerca di spiegare questi concetti, almeno lo spero. Il pezzo più tosto è il pezzo iniziale, è l’introduzione che non avevo scritto, sono 50 pagine, le altre 100 sono queste recensioni, introduzioni, eccetera, e se voi lo leggerete, partite dalle recensioni, perché sono recensioni di libri importanti, molto importanti che vi danno un’idea. Io cerco di metterle insieme nell’introduzione e arrivare a questa convinzione.
Tutto qua, grazie.