La crisi italiana sta dentro alla più grave crisi di regolazione del capitalismo postbellico e alla concomitante crisi dell’Eurozona e della stessa Unione Europea; e quello che vi aggiunge di suo è in larga misura dovuto all’inettitudine e alla “vista corta” del ceto politico del nostro paese, sia negli ultimi trent’anni della Prima Repubblica, sia nei venti della Seconda. La situazione politica odierna risulta dalla congiunzione della crisi di regolazione mondiale ed europea e della crisi italiana, nonché dalla difficoltà di rimediare a cinquant’anni di riforme mancate o incomplete –intervallate dagli affannosi tentativi di recupero dei governi tecnici- una prospettiva di ristagno di lungo periodo, di disoccupazione, di disagio sociale profondo.
1. leggi il testo dell’introduzione di Salvatore Natoli
2. leggi la trascrizione della relazione di Michele Salvati
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1. premessa di Giovanni Bianchi 9’48” – 2. introduzione di Salvatore Natoli 27’08” – 3. relazione di Michele Salvati 1h 02’37” – 4. serie di domande 13’52” – 5. risposte di Michele Salvati 20’19” – 6. seconda serie di domande 23’29” – 7. risposte di Michele Salvati 23’00”
4. leggi due scritti di Salvati in appendice alla lezione
1. Destra e sinistra tra passato e futuro
2. Mario Monti, destra e sinistra, Partito Democratico (10 ottobre 2012)
Testo dell’introduzione di Salvatore Natoli a Michele Salvati
La mia introduzione sarà breve: prende spunto dal libro, però (ne parlavamo poc’anzi con salvati) se lo gioca in avanti, cioè quali sono gli elementi in questo libro che ci permettono di entrare nel vivo della situazione attuale. Parto con una formula ricorrente: “ce lo dice l’Europa”. L’espressione è sintomatica ed è come se noi dell’Europa non ne facessimo parte e ci fosse qualcuno che ci precettasse. E siccome le parole non sono vuote, di solito non sono un motto di spirito, se si dice: ce lo dice l’Europa, in qualche modo o ci si sente fuori o, peggio ancora, non ci si sente nelle condizioni di essere contraenti di un patto con l’Europa, cioè di avere un peso, di riformulare l’idea di Europa. Perché se Kohl diceva che all’Europa non c’è alternativa, noi vediamo che sono passati 10 anni e questa Europa ancora non è nata. L’Europa nelle sue strutture istituzionali dà delle prescrizioni molto modeste, ma poi quando si va nei punti forti, abbiamo visto, l’asse franco-tedesco ancora ha fallito. Sembra di essere nell’800. La dolce Inghilterra un po’ guarda e un po’ sta dentro, cioè abbiamo un profilo nel terzo millennio che ha ancora caratteristiche, per quel che riguarda l’Europa, che sono fondamentalmente quelle del secolo scorso.
Il tema importante che dovremmo affrontare quest’anno e che è decisivo se vogliamo costruire l’Europa è che ci deve essere una cessione di sovranità e quindi la formazione di una rappresentanza che sia adeguata all’Europa. Se noi andiamo nei punti nevralgici e importanti degli stati che patteggiano rimanendo fondamentalmente degli stati separati, con interessi parziali, con orientamenti loro, è chiaro che l’Europa non può nascere. Sul gioco tedesco, in questo caso, la metterei così: quante buone ragioni ha la Germania? Forse moltissime. Ma nel gioco europeo queste buone ragioni sono ancora buone ragioni? Delle due l’una: o ti fai carico dell’Europa e paghi anche i costi di questa, ma la fai decollare, o se nei momenti critici non ti fai carico dell’Europa, allora l’Europa è ancora separata, divisa e lo abbiamo visto nel rapporto con la Grecia.
Quindi, qual è la nuova linea dal punto di vista direi istituzionale, giuridico? Non abbiamo neanche un regolatore economico che sia sufficientemente potente. La Banca Centrale Europea non è la Federal Reserve, questo lo diciamo sempre. Allora, come fai a regolare la modifica monetaria di un’area integrata se non hai un organo centrale che sostanzialmente ha un potere di orientamento su tutta l’area?
Per non parlare della rappresentanza. La rappresentanza al Parlamento europeo è assolutamente pleonastica. Lo vediamo anche nella selezione dei rappresentati. Normalmente, chi va e chi viene mandato in Europa? Pensiamo all’Italia. Negli altri stati forse va meglio, ma da noi normalmente viene mandato in Europa chi sostanzialmente hai fatto fuori in Italia: è una zona di riserva dove chi non entra in Parlamento o chi non ha ruoli lo mando in Europa, ad avere un ricovero finale. E se la selezione del Parlamento europeo è di questo genere, vedete bene che anche la forma della rappresentanza è debole.
Quindi con elementi di questo tipo, che cos’è l’Europa? Che cosa può fare l’Italia e che gioco può avere in un rilancio delle politiche europee, gioco positivo. Ora tra le cose più disastrose, l’eredità più disastrosa che ci ha lasciato Berlusconi, ed è la ragione per cui lo hanno fatto fuori, è la verticale caduta di credibilità nell’area europea e internazionale. All’estero ormai quando questo si presentava ci demoliva, e sostanzialmente sono state le cancellerie europee a farlo saltare. Questo ci è nociuto molto.
Monti, da questo punto di vista, è un personaggio che può stare a quel livello, a quel rango. Però in questo caso, diciamo che è una questione in termini di stima, delle qualità individuali del personaggio, ma chi rappresenta oggi? Siamo dinanzi a un fenomeno di investitura. È stato il buon Napolitano che l’ha messo lì. Chi rappresenta Monti? È un personaggio che ha potuto fare quello che ha potuto fare perché i partiti non erano nelle condizioni di reagire. E nel momento in cui ci sono delle condizioni di non reagire, noi vediamo che ci sono colpi di coda violentissimi e Monti va sotto in Parlamento. Quindi, da questo punto di vista la debolezza estrema dei partiti ha permesso questa dittatura dolce dove una persona di qualità ha potuto fare cose perché gli altri erano in condizioni di impotenza.
Però la dimensione di povertà della politica è del tutto evidente e quindi, ne parleremo anche dopo, ma già il problema è Monti dopo Monti. Qui il problema mi ricorda un po’ Prodi. Fare una coalizione contraddittoria come quella di Prodi? Tutto questo prestigio di Monti super partes oggi perché i partiti sono deboli, quando cade sotto il ricatto dei partiti che non riesce a federare, anche la sua stessa personalità va degradata, perché un fatto è avere una personalità come Monti quando gli altri non ti possono attaccare, un fatto è mantenere la tua personalità quando gli altri ti demonizzano. Allora, ammesso che ci sia un Monti dopo Monti, intanto si deve presentare, perché se non si presenta non è più Monti, è di nuovo il fallimento dei partiti che si va a ricoverare sotto un nome di protezione. E se si presenta, ammesso che lo facesse (se ne parla in questi giorni), ha la possibilità di federare una forza moderna e riformista, e con chi?
Questi già sono problemi che ci portano all’oggi. Con Olivero? Con Montezemolo?. Riesce a dare una configurazione ordinata a questo gruppo? Se la mettiamo in termini di funzionalità del sistema politico direi che se ci riuscisse finalmente potremmo sbloccare una democrazia che in Italia è sempre stata una democrazia bloccata. Che è tutta la prima parte del libro. Spesso ne ho parlato qui: ricordo che quando venne Salvati la volta precedente, nel mio intervento feci questo discorso: noi siamo in una situazione di crisi, perché fondamentalmente non c’è stata mai una democrazia funzionante. C’è stata una democrazia sul piano delle libertà, quello sì, ci mancherebbe altro, ci sono stati azioni nella divisione dei poteri, delle autorità indipendenti, divisione dei poteri che poi nella crisi è andata in crisi essa stessa, perché abbiamo avuto invasioni e quindi la divisione dei poteri nella crisi non si è mantenuta e si sono alterati i profili. Perché la magistratura è stata chiamata a decidere della politica, quando la magistratura deve controllare devianze individuali o di gruppi finiti, ma non può destrutturare un sistema. Si è trovata in questa situazione e quindi, evidentemente, ha degenerato indipendentemente dal comportamento di questo o di quell’altro giudice, perché è impossibile che sia la magistratura a cambiare il sistema politico. Eppure noi siamo giunti qui.
Ci sono delle pagine di Michele Salvati che alludono all’Italia, alle ultime elezioni prima del fascismo. Beh, la situazione da questo punto di vista quanto a sistema politico non è diversa. Lì la situazione era diversa dal punto di vista internazionale: c’è la fine della prima guerra mondiale, la rivoluzione del ’17, un quadro di una drammaticità vertiginosa, ma il fatto che i partiti già allora erano non solo nella condizione di definire i loro ruoli, l’incomprensione tra cattolici e socialisti, la frantumazione già allora della sinistra… Si parla tanto della scissione di Livorno, ma si può anche dire che è stata fatale per l’Italia quella scissione, perché se non ci fosse stata, probabilmente un grande partito socialista avrebbe contenuto questa frantumazione.
E questo fa parte di un’antropologia degli italiani, eventualmente ne parlerò dopo. Ne parlavo con Salvati: l’antropologia italiana che non ha mai avuto il senso dello stato e della cittadinanza e il cui motore antropologico, il cui DNA è quello, sostanzialmente, di polarizzarsi tra sudditi e ribelli. Allora, una società la cui antropologia è fatta di sudditi e di ribelli non può trovare sintesi riformistiche. Come fa a trovare sintesi riformistiche? La vocazione all’estremismo diventa terribile. La vocazione all’estremismo per un verso, e per l’altro il suddito per definizione tende poi a identificarsi in un inefficiente e quindi la dimensione mafiosa, subalterna, è quella dimensione che caratterizza un suddito che per ottenere beneficio si asserve alle varie corti.
Oggi, e di questo vorrei parlarne con Salvati, non credo che la società italiana sia un po’ cambiata sotto questo aspetto, non per il suo insieme, più a sud che al nord. Però a proposito di più a sud che a nord, c’è un passo del libro su cui vorrei ragionare: Berlusconi aveva più successo al nord che al sud fino a un certo punto, perché i 61 seggi in Sicilia… Io ho sempre detto che l’Italia bisogna misurarla con due regioni: la Lombardia e la Sicilia, sono due estremi e sono il termometro. Qui aveva un certo tipo di partite IVA, lì aveva tutto il sistema corporativo mafioso, quella sudditanza che abbiamo visto e per quello ha vinto, perché se fosse stato solo nord non poteva vincere, era un patrimonio Lega.
Poche cose su Berlusconi. Per venire a noi, c’è tutta la parte dedicata alla irresistibile ascesa di questo personaggio: la seconda parte del libro è quella, secondo me, più interessante e più innovativa, cioè a dire i limiti del centrosinistra. Di intuito questo si capisce. Perché noi abbiamo una crisi politica di regime? Perché, sostanzialmente, la patologia del centrosinistra è esplosa. Perché altrimenti avremmo avuto un’alternanza naturale. Allora c’è una patologia del centrosinistra vuoi per la democrazia bloccata, vuoi per il tipo di politiche arretrate rispetto ai processi sociali, che a un certo momento esplode. Il bulbo poi si rompe. Cosa interessante, che aveva capito, secondo me, pur nella mediocrità dei gruppi dirigenti, Aldo Moro. Perché quando Aldo Moro cercava di legittimare i comunisti, partiva dalla convinzione che ormai la balena bianca non poteva crescere più, poteva soltanto esplodere e marcire. Allora bisognava preparare, legittimare un avversario che nel crollo della Democrazia Cristiana non facesse crollare una nazione L’unico, che aveva capito questo. Non lo poteva capire Andreotti che è uomo di pantano, di fango, nella DC lui storicamente aveva la primavera, la reggeva quando le acque erano basse, nei momenti alti non c’è mai stato Andreotti, nel centrosinistra non c’era: uomo di fango, quando si abbassavano, emergeva lui e nella parte finale, il CAF, vede l’emersione di questo personaggio.
Quindi, questi sono gli elementi per cui… Allora noi abbiamo una crisi patologica ed è chiaro che secondo me in un’alternanza naturale in una democrazia bloccata, quando è in crisi, non è che si sblocca, si torna al caos e in questo caos Berlusconi l’ha giocata facile. Perché ha cavalcato l’antipolitica, ma non solo nel ’94, e un osservatore, un sociologo, uno studioso dei mezzi di comunicazione, si rende conto che anche da Presidente del Consiglio, lui parlava come se non governasse. Cioè, faceva opposizione a se stesso dicendo che poi erano gli altri.
L’altra situazione importante è la sollecitazione verso i cattolici, è il risvegliare il comunismo, perché sostanzialmente l’Italia era rimasta anticomunista; il comunismo finiva però l’indole era quella soprattutto a livello popolare. Ricordo Gianni Baget Bozzo, a dirgli: “Guardi che i comunisti non esistono, creano solo spauracchio”. Allora noi siamo entrati, questo è importante, nella fase berlusconiana che è stata una fase costante di guerra civile, in democrazia una fase costante di guerra civile, su schieramenti berlusconiani contro berlusconiani.
Un’altra cosa interessante è notare, e nel libro lo si dice di passaggio, ma che è una conseguenza nostra: cavalcare l’antipolitica, e quindi gli altri partiti si distruggono, però l’antropologia rimane uguale, cioè nel collasso contro i vecchi partiti i nuovi agganci quali sono? Chi andiamo a cercare in questa crisi? L’homo novus come uomo televisivo, ma dal punto di vista del territorio chi riprende Berlusconi? Le terze, quarte file, addirittura le stesse prime file dei vecchi partiti, che nel sistema generale questi partiti erano crollati, ma i dominus locali c’erano ancora. E chi prende al sud? Di Donato, Scotti, cioè i bacini di voti erano quelli, uguali e quindi sostanzialmente mescola l’antipolitica con i ceti politici più parassitari della vecchia repubblica. Qui c’è una combinatoria di fattori: antipolitica sul piano dell’immagine, ma di fatto nel territorio si va a ripescare questo tipo di gente che ripromette a quelle persone le stesse cose che riprometteva quando era democristiana, e allora abbiamo i Lavitola, i De Gregorio che tornano tutti in Parlamento.
Quindi, collasso frutto di una democrazia bloccata; nel momento in cui si poteva probabilmente costruire in Italia un’alternanza, non ci sono state le condizioni perché in un situazione di guerra civile tu non puoi costruire l’alternanza. Ora, poteva da una situazione malata, da un pus, venire fuori un’alternativa? E quindi è il punto che non c’è qui (cedo la parola a Michele Salvati), c’era la congenita impreparazione della sinistra a governare. Perché è vero che Berlusconi durava venti anni, però non dobbiamo passare sotto silenzio che ha perso due volte e questa è la testa della doppia Italia. Un’Italia c’è, un’Italia che ha cinismo, un’Italia che non ce l’ha. Ha perso due volte, è stata la logica suicidaria della sinistra incapace di governare che ha impedito questa azione.
Mi ricordo che quando avevamo fatto una riunione in una sede periferica delle ACLI dopo la vittoria del primo governo Prodi, e c’era anche Michele Salvati, si diceva che doveva essere un governo siepe che permettesse il formarsi di una nuova classe dirigente, che virtualizzasse l’Italia, ecc. ecc.. Beh, sono passati pochi mesi e Bertinotti ha dato l’occasione a D’Alema di fare quello che ha fatto. Ecco, a questo punto l’incapacità di governo del centrosinistra, l’incapacità di esprimere, e qui una somiglianza molto forte con Monti, l’incapacità di esprimere un ceto politico suo che fosse espressione di un partito radicato, cioè di chiedere in prestito a qualcun altro un leader. Non lo produce, non ha niente in mano, non è differente da Monti, cioè non ha l’uomo guru, non ha l’uomo futuro. Oggi siamo in una situazione non molto diversa da questa.
Allora mettiamola sull’oggi, poi concludo e poi eventualmente per la discussione il materiale c’è. Nella situazione come la nostra oggi si tratta di far rifunzionare la democrazia, di sbloccarla una volta per tutte. Noi vediamo che l’indice di parassitismo del ceto politico ormai è agli estremi; i teorici dei sistemi sostengono che un sottosistema quando non è più capace di innovarsi abbassa le sue prestazioni pur di resistere e quindi abbiamo delle forme di cristallizzazione parassitaria in cui il problema non è sbloccare il sistema ma conservare se stessi. Il motivo per cui non si fa la riforma elettorale è che nessuno ha la capacità di pensare una riforma che sblocchi il sistema. Ma perché? Perché mentre c’è Grillo, mentre c’è la crisi economica quelli non se ne accorgono. Capite il livello di valori. Non se ne accorgono, quindi c’è una paralisi delle sinapsi per l’autotutela. E l’offerta? L’offerta ancora una volta è un’offerta ribelle. I moderati che fanno Todi, eccetera eccetera, ci riusciranno? Io desidererei tanto che Monti potesse federare davvero in modo moderno, che fosse una specie di Kohl italiano ma non vedo le condizioni, non vedo le condizioni. Ci abbiamo provato con Prodi, due volte, ma non ha funzionato. Era anche molto più equivoco perchè c’era anche l’estrema sinistra e non poteva funzionare. Ma se tu operi nell’area del riformismo non hai i numeri neanche per realizzare questo perché immediatamente hai i debiti del berlusconismo della crisi, c’è una parte che sradicalizza e riesce soltanto a radicalizzarlo se esistiamo e nella condizione di Berlusconi stesso, e dall’altro lato ci sono quelli che sono in confusione, non sanno dove andare. Forse qualcosa la può raccogliere Monti, ma qui siamo in una situazione di frammentazione. Io mi auguro che questa volta l’operazione possa riuscire, mi auguro, ma in questo caso la cosa può riuscire se Monti da Cincinnato, dittatore provvisorio, diventa leader. Ha la capacità di un leader, da uomo per bene e tecnico di diventare leader, di parlare come leader?. È questo il problema che abbiamo oggi, perché non vorrei che poi diventa capo di un partitino del 7% e fa una gran brutta figura e non federa niente. Se viene come salvatore, la democrazia resta bloccata, e questo è il punto.
Dall’altra parte, tutti sanno, ne parlavamo anche noi prima, le primarie hanno avuto la funzione di un congresso all’interno. Però esse hanno mobilitato gente, l’hanno mobilitata, è cresciuto, è quasi arrivato al 30%, quindi ha attivato e da questo punto di vista è stato positivo, però è qui il punto perché c’è dietro uno come Vendola. Se Bersani vince ce la farà a ridimensionare Vendola? O si porta dietro questo estremismo che lo indebolisce quando dovesse essere uomo di governo? Però dobbiamo ringraziare Renzi, indipendentemente dal fatto che uno sia d’accordo o meno, per quando si dice la metodologia dei fini, perché la rottamazione ha permesso senza colpo ferire a Bersani di liquidare tutta la vecchia nomenclatura. Se non ci fosse stato Renzi non avrebbe potuto farlo, lo paralizzavano. Se non liquidarlo, fortemente ridimensionarlo.
Però noi vediamo a sinistra un blocco composto, coerente che possa farsi carico del governo e produrre finalmente una bipolarizzazione dall’altra parte? O siamo in una situazione confusa?
Veniamo sul fronte europeo, dove c’è la crisi della socialdemocrazia e c’è la riemersione degli stati e quindi una frantumazione dell’Europa. Quindi è un paesaggio molto problematico dove non dico che non ci siano delle possibilità di intervento, anzi la situazione è così oscillante e plastica che probabilmente certe cose si possono fare, ma le mosse da mettere in opera sono molto complicate perché il terreno frana e per di più non c’è un disegno neanche a livello europeo e neanche a livello internazionale su quello che bisogna fare dal punto di vista degli assetti economici, sul sistema delle uguaglianze, sulla distribuzione della ricchezza nel mondo. Insomma, non sono solo problemi nostri, sono problemi di Obama.
Ecco con questo carico di problemi, io dico a Michele Salvati che soffi.
Trascrizione della relazione di Michele Salvati
Io non ho i bei vocioni e la passione di Giovanni Bianchi e di Salvatore Natoli e quindi ho bisogno di un microfono. La carrellata che ha fatto Natoli è amplissima, molto evocativa, molto suggestiva e il mio accordo con quanto ha detto è completo. Però noi siamo un corso e dobbiamo predisporre degli strumenti di studio per andare avanti nella comprensione dei fenomeni che Salvatore Natoli ha abbozzato, ha evocato e sono questi, non sono diversi da questi.
Quindi, io vorrei proporre una traccia, un menu di problemi e anche di testi, se volete, attraverso i quali approfondirli. Ho visto, diciamo, la collana di interventi che ci saranno, tutti molto belli, alcuni più legati al problema dell’Europa, altri meno, alcuni più innovativi da un lato, altri nobilmente più conservatori: si riferiscono al bel mondo antico quando c’era la lotta di classe come la conoscevamo. Pensate al libro di Luciano Gallino, mi è capitato sotto gli occhi adesso, di persona appassionata e intelligente che ritrova temi di un tempo in forme nuove. In ogni caso, è un bellissimo corso e io vorrei fare un profilo di un menu di problemi e di indicazioni bibliografiche.
Dico subito che vorrei toccare cinque punti, non approfondirne nessuno, è impossibile approfondirli; però vorrei lasciare delle tracce bibliografiche per un approfondimento, consigliare delle cose da leggere. E visto che ci sono, e per finire dalla fine, da Renzi e dalle primarie, se voi guardate sulla prossima edizione di Arcipelago Milano (uscirà lunedì), credo che molti di voi lo vedano, oppure anche più semplicemente sul numero dell’Espresso che è in edicola oggi, vedrete la mia posizione: io sono uscito in maniera esplicita a favore di Renzi, e dico perché. Non anticipo adesso argomenti su cui forse tornerò alla fine (che una persona di 75 anni debba essere rottamata soltanto per questo potrebbe sembrare curioso), ma andatelo a vedere: è un problema politico che nel dibattito Bersani-Renzi ritorni il vecchio conflitto che aveva come interpreti fondamentali nel passato due persone che si sono autorottamate, e cioè D’Alema e Veltroni, ed è quello di tradurre idee di che cosa dovesse essere il PD. Se Renzi ha una qualche dignità, una qualche capacità di sopravvivenza al di là della sua indubbia abilità mediatica, è che impersona uno dei corni di questo dilemma, una delle due antitesi tra l’idea di PD in cui io stesso ho creduto, nato dal basso, potenzialmente maggioritario, non ostile alle sensibilità di centro, oltre che al tentativo di raggruppare la sinistra più ragionevole che ci sia. Un partito di questo genere è invece una vecchia idea, secondo me, di partito socialdemocratico, fuori tempo come quella che aveva D’Alema, e che è quella che porta avanti per certi aspetti, secondo me, lo stesso Bersani. Può darsi che mi sbagli, può darsi che l’analisi non sia giusta, ma se uno vuole ragionare in termini di Bersani-Renzi, non sulla base di pettegolezzi, l’uno è fragilino, tradirà senz’altro, farà la stessa fine che ha fatto Rutelli, a un certo punto avrà un certo successo, poi verrà bloccato, poi non vincerà ed essendo bloccato, essendo uno molto abile, che vuole andare avanti, finirà per trasportare un grosso pezzo di sinistra verso il centro, come tentò di fare Rutelli, e con maggior successo purtroppo, secondo alcuni. Quindi, meglio stare con l’usato sicuro, meglio stare con qualcosa che sicuramente ha un vago sapore cattocomunista, che deriva dal passato e che non ha dimostrato capacità di espansione e però ci dà garanzie che il cuore è al punto giusto, che i sentimenti di classe sono quelli propri, che non si faranno ghiribizzi, che non si faranno operazioni…
Se vogliamo superare questo tipo di pregiudizi bisogna cercare di capire qual è lo stato oggi del PD eccetera; ma questo lo tocco brevemente alla fine. Lo volevo anticipare per dire che ci sono già materiali sulla base dei quali cercare di farsi un’idea. Poi nessuno può garantire per nessuno. Sulla tenuta di Renzi come persona che starà sempre dalla parte della sinistra, che sarà sempre parte del PD, che non farà mai operazioni di trasporto verso il centro di tipo trasformistico, come diceva Natoli, questo nessuno può garantirlo. E io meno che meno perché lo conosco troppo poco. È svelto, capace, abile, l’unico che ha dimostrato tra i giovani di non essere un pollo di batteria, di fare operazioni difficili di leadership, perché quello che ha fatto a Firenze, e non dimenticatelo mai, è un atto di coraggio straordinario, lui ha fatto fuori l’intera cupola comunista di Firenze, voglio dire, un ragazzino. Non è una piccola cosa, perché dominava in realtà un’intera regione e da decenni. Allora per un ragazzino fare questo non è piccola cosa. E siccome abbiamo bisogno di leader (Salvatore Natoli lamentava che Monti purtroppo non è un leader), di leader politici, di gente che rischia, di gente che interpreta il senso della storia, se lo pone sulle spalle. Ebbene, una persona del genere credo che sia una persona destinata a restare. Garantire per lui, non garantisco, però oggi mi sembra che la sua posizione sia quella che ci giova.
Allora, cinque pezzi su cui lascio alcune indicazioni bibliografiche.
Il primo riguarda l’Unione Europea. Quando venne costruita in realtà, quando ci fu la grande svolta col trattato di Maastricht e la moneta unica, è una svolta che avvenne 20 fa, che ha già una storia, ebbe 10 anni molto favorevoli dal punto di vista economico tra il 1998 e il 2007, grosso modo, poi ci fu la crisi americana, la crisi finanziaria americana che cambiò completamente le sensazioni dei grandi soggetti che gestiscono i risparmi, tra il 2007 e il 2008: quella fu una svolta che ingenerò la crisi dei cinque ultimi anni, che ancora stiamo vivendo, tra il 2008 e il 2012/2013. Tenete presente che l’anno venturo sarà ancor peggio di questo dal punto di vista economico e quindi mette in sofferenza tutti i sistemi politici, e in particolare i sistemi politici dei paesi europei più deboli. Questo è il primo punto.
Cos’è stato Maastricht? Cos’è stata la UE come costruzione politica istituzionale e, in particolare, la moneta unica come costruzione economica finanziaria? Questo è il primo pezzo che dobbiamo studiare e ci sono ottimi libri su cui può essere studiato e darò indicazioni di alcuni libri.
Punto secondo, che ci riporta a noi. Nella crisi recente, degli ultimi cinque anni dopo la grande svolta della crisi finanziaria americana del 2007-2008, si è visto chiaramente che l’Europa era spaccata in due, due tipi di paesi, i paesi forti e i paesi deboli, i paesi del nord e i paesi del sud. Ognuno di questi paesi è diverso dall’altro; mi ricordo la famosa battuta, la famosa frase con cui inizia Anna Karenina: “Le famiglie felici sono tutte uguali, le famiglie infelici sono infelici in modo diverso”. Allora, noi siamo infelici in modo diverso dalla Spagna, per alcuni aspetti la Spagna è più felice di noi, per altri peggio, dalla Grecia, dal Portogallo e da altri paesi che accumuniamo al sud perché sono in crisi, come l’Irlanda.
Perché l’Italia in questa spaccatura dell’Europa è andata a finire nei paesi del sud, nei paesi deboli? Quali sono stati quei caratteri della storia italiana, della gestione della politica economica italiana che hanno costretto l’Italia nella situazione di debolezza in cui siamo noi adesso? Questo è un pezzo che bisogna ben capire. Bisogna capire perché i nostri guai sono così profondi e perché sono lontani nella loro origine. Tutti i tentativi di questo libretto è il tentativo di spiegare come mai questo è dovuto all’intero fallimento dell’esperienza di centro-sinistra. Cioè i nostri guai, ma lo vedete plasticamente dal fatto che il nostro debito pubblico si accumulò allora; il debito è l’indizio rappresentativo dei nostri problemi, non è solo quello, è uno dei tanti e forse non è il maggiore, molto più pericoloso è il crollo della produttività del nostro paese, però il debito è stato costruito nel centrosinistra, nel centrosinistra allargato, a partire dai primi degli anni Settanta fino agli anni Novanta; cioè un debito di queste dimensioni c’era già nel ’92-’93 quando noi stavamo entrando all’interno dell’Europa. Questa è un poco la cosa.
Perché avvenne così in Italia e che cosa ci dice delle possibilità di salvezza futura? Una cosa così profonda e di origine vecchia e che non c’entra con destra o sinistra? Come mai? Con tratti profondi, come diceva prima Natoli, cioè riusciremo a cambiare? A diventare un paese più nordico, cioè meglio gestito, più civile, con una politica capace di prendere in mano la situazione e dirigere al meglio? Questo è il secondo punto. Il primo è Maastricht, questo è il secondo e su questo vi lascio alle indicazioni bibliografiche che sono contenute nel mio libretto che è pieno di indicazioni bibliografiche.
Terzo punto su cui bisogna isolare l’attenzione è che cosa ci possiamo aspettare in un prossimo futuro? Perché il nord, i paesi più ricchi non vengono in nostro soccorso? Perché non si fidano di noi? E anche qui le indicazioni bibliografiche sono molto ampie. Si è venuto a creare un contrasto tra esigenze economiche e di salvezza dell’Unione Europea. Tutti giurano che l’UE deve essere salvata, la moneta unica deve essere salvata, però le basi politiche per salvarla, il che significa una grande operazione di rilancio economico in cui chi ha più risorse (Germania e altri) ce ne mettano di più in questo processo. E gli altri si legano a un patto per cui il soccorso che ricevono non viene usato come scusa per, diciamo, ciò che han fatto in passato, cioè sostanzialmente per sprechi, bensì si mettono su una linea di disciplina economica seria. Ora, un patto di questo genere in cui gli uni mettono risorse e gli altri si impegnino in un grande sforzo di serietà, di non spreco, come mai questo è straordinariamente difficile? C’è una bellissima intervista a un grande studioso tedesco, che si chiama Klaus Hőffe, uno famoso ai tempi, uno dell’estrema sinistra ma è diventato una persona molto ragionevole adesso, ed è una bellissima intervista sull’ultimo numero della rivista Il Mulino, e ve la consiglio fortemente, semmai in maniera piratesca la fotocopiamo e la distribuiamo, facciamo così in modo che ciascuno non si deve comprare questa rivista. Ma va letta, va letta con grande attenzione. Fa parte delle buone ragioni che hanno i tedeschi per diffidare di noi e quindi va studiata perché si è creato questo contrasto: cioè se i socialdemocratici tedeschi, o la stessa Merkel, si impegnano in uno sforzo di rilancio della UE, ci mettono dentro soldi tedeschi per fare ripartire questo disegno, per creare una situazione nella quale non ci sono quelle sofferenze sociali che ci sono nei paesi del sud che possono generare una rottura nella stessa Unione, se fanno questo la cosa sicura che ottengono è di essere sconfitti alle elezioni. E questo lo sanno sia i cristiani democratici, sia i socialdemocratici, quindi adesso dicono faremo questo o quest’altro, tenete conto che quando si arriva sotto le elezioni, cioè l’anno venturo, noi non possiamo aspettarci in realtà nessun particolare soccorso.
Questo è l’altro grande blocco che riguarda il futuro della UE compresa nel laccio tra un fortissimo conflitto tra due tipi di paesi e quindi che non può muoversi in una direzione federale perché se tenta di muoversi nella direzione federale i singoli stati nazionali dove si svolge l’effettiva politica sconfiggono i leader politici che si muovono in questa direzione. È inevitabile, e allora nei paesi più poveri partono dei nuovi populismi, partono le reazioni, parte il vero rischio che la UE salti, e salti il meccanismo della moneta unica. C’è solo da sperare che sia andato talmente avanti e che ci sia consapevolezza che facendolo saltare e ritornando all’autonomia monetaria e alle vecchie monete, sia tale la sensazione di disastro che la cosa non funzioni. Però l’alternativa per noi, per i paesi più deboli, è molto semplice: o asfissia, che è quella in cui viviamo adesso, asfissia economica, o catastrofe. Io sono per l’asfissia, sono per una moderata asfissia perché non si muore subito, quanto meno e perché uno può sperare che salti fuori qualche leader, o saltino fuori, emergano delle situazioni nelle quali si può intervenire. Però tenete presente che il rischio di catastrofe, di una rottura catastrofica dell’Unione, e quindi di un ritorno in condizioni inflazionistiche, a situazioni di conflitto civile, sono forti. Quindi questo è il terzo punto: cosa possiamo aspettarci dall’Europa.
Ritorniamo di nuovo all’Italia, in queste condizioni: moneta unica, il nostro passato, le prospettive per il futuro. Quali prospettive? In una cosa così: passato dell’Europa, futuro dell’Europa, passato dell’Italia, presente dell’Italia, cosa possiamo fare? Quali sono le prospettive? La continuazione dell’esperienza di Monti? No, sarebbe la cosa più ragionevole, ma qui sorgono tutti i problemi che indicava Salvatore Natoli. Ho scritto per il prossimo numero del Mulino, ma posso già diffonderlo in forma di mail da qualche parte, un saggio piuttosto lungo sul carattere di Monti, anche sulCorriere della Sera è stato pubblicato qualcosa, perché Monti è fatto come è fatto e perché non gli si può chiedere di più di quanto in realtà è in grado di offrire. Certo, se Monti fosse… se mia zia avesse le ruote… Se Monti fosse un vero leader politico come quello rappresentato in maniera ineguagliabile, meravigliosa, da Max Weber in La politica come vocazione (questo è un libro che dovrebbe essere oggetto di studio lungo e approfondito, un libretto piccolo, che poi è una conferenza), se fosse così, i problemi forse non sarebbero risolti, ma combatterebbe a viso aperto, si presenterebbe alle elezioni, ecc. Non può farlo perché Monti è per natura sua un buon tecnico, non insisterei sul termine tecnico, resta fondamentalmente un notevole statista e diplomatico, questo è Monti. È un tecnico economico, sia io che lui, appartenenti a una generazione passata, siamo ampiamente surclassati dai ragazzini economisti che adesso vanno per la maggiore, sia quelli keynesiani che gli altri, voglio dire, non siamo dei tecnici. Lui è un notevole diplomatico statista, è un uomo di stato. Ed è un uomo di stato che ha anche una visione dell’Italia come quel paese civile in cui non c’è rissosità tra sudditi e ribelli (non bisogna chiamarli ribelli, bisogna chiamarli “liberti” che tu indicavi), cioè vorrebbe un paese civile in cui ci sia di più di quel dissenso dello stato, dei doveri civici che esistono nei paesi civili, esistono in Svezia e nella stessa Francia naturalmente; vorrebbe trasformare l’Italia in uno di quei paesi. È un bel sogno, è una bella idea e per quello si autodefinisce come centro, voglio dire, per il suo disegno; non è un disegno di destra o di sinistra, cioè non è un disegno in cui esistono grosse operazioni di ridistribuzione del reddito… Naturalmente, lui è d’accordo con l’articolo 3 della nostra Costituzione che è il massimo di sinistra, cui noi potremmo mai aspirare. Ricordate il primo comma, è quello che dice che tutti i cittadini sono soggetti alla legge, eccetera, indipendentemente dalle loro opinioni, dalla loro nascita, eccetera, e la Repubblica interviene, secondo comma, che dice… Chi se lo ricorda a memoria? “È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana” eccetera. Ma non serviva a Monti, rimuoverli troppo, perché se li rimuovi troppo cessa lo stimolo alla competizione, però un po’ di più perché sa benissimo anche lui che questo è un paese dei più ingiusti, ineguali, castali che esistono in Europa; cioè dal punto di vista delle disuguaglianze e del blocco dell’ascensore sociale, della mancanza di pari opportunità diffuse ampiamente tra i cittadini è uno dei paesi più ingiusti che esistono in Europa e fino a lì ci arriva. Ma non oltre lì e senza esagerare per evitare di bloccare gli animal spirit, cioè le prospettive di guadagno su cui si fonda il grezzo capitalismo del nostro paese, mettiamola così, i soldi e la Ferrari come grande incentivo per creare ricchezza. Però, magari ci fosse qualcuno che riuscisse ad attuare un po’ di più l’articolo 3 della Costituzione e a immettere un po’ di più di senso civico, di senso del dovere, di rispetto della legge, di mancanza di corruzione in questo paese.
Questo è l’obiettivo. Però fin lì ci arriva Monti: prenderseli in carico, diciamo, come uomo politico che rischia in proprio, quello non ce la fa. È un uomo di stato che può perseguire questo disegno, d’accordo, nella misura in cui in qualche modo qualcuno gli dia il potere e però ha bisogno sempre di un Napolitano dietro che gli dà il potere, perché lui il potere non se lo va a cercare da solo. Il politico vero, il politico di professione, il potere se lo va a cercare anche con strappi, anche con strappi costituzionali. La differenza massima voi la vedete nel rapporto che esiste tra un vero, grandissimo politico e uomo di stato come De Gaulle e Monti. De Gaulle era un vero politico per vocazione, cioè una persona che ha rischiato in proprio in tutto e per tutto, che ha utilizzato anche i mezzi più subdoli, il populismo più grezzo, dovevate vedere la campagna con cui lui si è presentato, e però per attuare quello che lui riteneva l’elemento che sbloccava il suo paese: la riforma costituzionale e tagliare le ali ai partiti così come erano allora; non abbandonare la democrazia, noi non capimmo, noi a sinistra. Quando questo avvenne, io ero già in condizioni di poter ragionare, noi capimmo malissimo le cose e anche tutta la sinistra di allora. Lui fu un grandissimo, cioè approfittò di una crisi epocale, la decolonizzazione del suo paese, per far passare, e solo lui poteva intervenire perché il suo prestigio nell’esercito era enorme e lì erano alle soglie di un colpo di stato da parte del generale Massu (le cose di De Gaulle vanno lette), approfittò di questo per fare una cosa totalmente diversa, cioè una riforma costituzionale ed è stata la riforma costituzionale che è stata la salvezza della Francia.
Io credo anche, ma altri discuterà di questo, se vorrà, voglio dire che noi dovremmo seguire, nel progetto di riforma della Costituzione, che è un passaggio indispensabile per il nostro paese, dovremmo seguire quel disegno. Cioè un sistema nel quale c’è un doppio turno, sia a livello di collegio, sia a livello, diciamo, di presidenza, un sistema presidenziale controllato da forti contropoteri di controllo ma che va, grosso modo, in quella direzione, tagliando veramente le ali ai partiti come sono adesso che non vogliono più dire niente e agiscono contro l’interesse del paese.
Questa era la cosa di cui De Gaulle era profondamente convinto e quello è il grande politico. Va detto che anche Kohl era un grandissimo politico. Ecco, Monti non ha questa statura, Monti è un eccellente uomo di stato, è un eccellente diplomatico, è un bellissimo biglietto di presentazione all’Europa, più di Ciampi, molto più di Ciampi, è molto più stimato in Europa, voglio dire è una persona che ha capacità diplomatiche molto superiori a quelle di Ciampi, ed è anche molto più giovane. Ciampi è una persona stupenda, però il parallelo è vicino, ma Ciampi è molto legato al vecchio sistema.
E allora noi dobbiamo in realtà analizzare queste cose qui, le prospettive: se non è una continuazione del governo Monti, allora che cosa stiamo facendo? Cosa vuol dire questa legge elettorale che al Senato si sta discutendo? Che cosa avviene se rimaniamo con il porcellum? Tenete presente che il porcellum ha la caratteristica di essere l’unico sistema elettorale realistico, ce ne sarebbero di ottimi, nel quale le nostre primarie sarebbero vere primarie. Non so se rendo l’idea. Sarebbero vere primarie le nostre primarie se dall’esito di queste uscisse il candidato del centrosinistra che lottando contro il centrodestra in un sistema maggioritario poi diventa Presidente del consiglio. D’accordo? E questo lo si può fare col porcellum perché il premio di maggioranza che viene dato è talmente grande per cui anche se il PD rimane sull’ordine del 28%, più il 3-4% di Vendola e di altri pellegrini (pellegrini di estrema sinistra, per esempio) che vengono associati, questi pellegrini di centrosinistra più estrema sinistra possono diventare alla Camera, a seguito del premio elettorale, il partito dominante, cioè con la maggioranza dei seggi a seguito del premio. E quindi le nostre primarie sono le primarie che designano il Presidente del consiglio.
Ma se passa la riforma elettorale che è in discussione oggi alla Camera che è proporzionale, non c’è nessuna possibilità che noi designiamo il Presidente del consiglio, d’accordo? La cosa che possiamo fare è un episodio di lotta politica all’interno del PD perché Renzi ha abbastanza forza. Infatti, vedete, che ci sia Tabacci, o che ci sia la Puppato, o altri, o Vendola, non conta niente: questo è il punto; il punto è la sfida tra due concezioni del PD: quella che ha Renzi e tra due forze perché gli altri non hanno… beh, Vendola è fuori, Puppato e Tabacci, bravissime persone, tutte e due, io ne ho una grande stima e simpatia, non combattono, non sono per una lotta di potere. Renzi, sì! Renzi è per una lotta di potere, esattamente come lotta di potere fu quella tra Veltroni e D’Alema in passato. Per le sue capacità mediatiche è riuscito a crearsi una forza per questo e i possibili disegni per l’avvenire non può essere che un disegno di PD più spostato verso il centro. Quindi se vince lui state sicuri, o è molto probabile, che sull’alleanza con Vendola calerà, diciamo, quanto meno, un momento di attenzione. Vogliamo dire così. Non so se ce la farà, però è il vero sfidante.
Il problema è che Bersani ha premesso alle primarie un atto politico fondamentale, cioè la collocazione del PD sulla estrema sinistra, cioè l’ha fatto. Ha cominciato a trattare a Vasto, ma l’ha fatto adesso. Quindi cosa vogliamo discutere? La linea politica del partito come schierato a sinistra è già stata fatta, è stata anticipata da Bersani e quindi il problema è come reagire rispetto a una scelta che è stata fatta senza rinnovare il congresso, così è implicita nella vittoria che ottenne nel 2009 contro Franceschini e contro Marino eccetera. È quello che gli ha dato la delega di far questo? No perché allora non era così chiaro, doveva convocare un congresso e non lo ha fatto. Per questo le primarie che succedono adesso sono un mini congresso, sono un congresso in pillole perché si concentrano in realtà su due linee alternative. Togliete di mezzo le cose che non c’entrano, Puppato and company. Non ho nessun disprezzo. Ricordate, qual è il problema reale, cioè guardate alle persone che hanno potere e che si sfidano, come avviene in politica. Questa è un po’ la situazione.
Dobbiamo quindi discutere di questa cosa qui. Che cosa succede se vince Renzi? Salta tutto? Cioè quella bella immagine finta, ma molto carina e molto utile dal punto di vista elettorale, che c’è stata su Sky TG 24 riuscirà a reggere quando salteranno fuori delle tensioni reali? quando ci saranno alternative? O è meglio che per il momento stiamo schisci e cantiamo il Te Deum e in qualche modo facciamo finta di essere sani, come diceva la canzone, allo scopo di presentare un fronte unito contro la destra? Non sono piccoli problemi.
E questo è l’ultimo punto. Quindi sono 5 i punti che voglio. Io oggi vi racconterò grosso modo il primo, cioè quello del come siamo entrati nell’Unione Europea e nella moneta unica che appare oggi come la fonte dei nostri guai. Nel ’91 venne firmato appunto a Maastricht il trattato sull’Unione e sulla moneta unica europea influenzato dai calcoli di potenza dei grandi paesi, Germania e Francia. L’Italia in questo, parliamo di 20 anni fa, ebbe un ruolo importante, in parte per l’europeismo che allora era dominante nell’élite politica italiana, ma soprattutto nello spirito di Ulisse che si fa legare all’albero maestro per non cedere alle lusinghe delle sirene e vincolarsi a una strategia che avrebbe arrestato l’inflazione e la crescita del debito. Né le maggiori potenze, né l’Italia prestarono ascolto a chi li avvertiva che la zona euro non era un’area monetaria gestibile, ottimale come la chiamano gli economisti, che includeva paesi ad alta e bassa crescita della produttività, con pubbliche amministrazioni molto diverse, con grandi controlli dei conti pubblici molto diversi e con dinamiche salariali molto differenti; dunque paesi esposti a eventuali crisi, molto diversi fra di loro, quelli che gli economisti chiamano “shock asimmetrici (?)”, shock che si sarebbero dovuti affrontare con istituzioni inadeguate, deboli, con ostacoli istituzionali linguistici e funzionali anche alla mobilità dei lavoratori. Questi sono shock.
Anche negli USA, in diverse regioni, in diversi stati, stati tra di loro molto diversi, alcuni prosperano, altri declinano, alcuni sono più efficienti, altri sono meno efficienti. Ma cosa avviene negli USA, che è un vero stato federale? Negli stati in declino, che sono anche stati con grande mobilità, la gente prende il camper, si trasferisce e va a cercare il lavoro in altri stati dove il lavoro c’è. D’accordo?
E poi esistono, anche se modesti rispetto ai nostri, dei sistemi di welfare e di trasferimento di risorse fra stati ricchi e stati poveri, proprio perché hanno una grossa finanza federale, perché hanno tasse federali e quindi prelevano quattrini da tutto il paese, specialmente dove i quattrini ci sono, per darli anche, per lenire le condizioni di sofferenza degli stati più poveri e trasferirli lì. Quindi sia per la mobilità dei lavoratori, sia per, diciamo, il trasferimento di welfare, queste differenze fra le esperienze e le capacità dei singoli stati vengono lenite. Per far questo bisogna essere un verostato federale. Mentre da noi ci sono ostacoli istituzionali.
Un piccolissimo bilancio federale della UE, istituzioni molto diverse, nessun welfare europeo. Gli ostacoli linguistici, gli ostacoli culturali infinitamente più forti. Quelli sono un paese con una lingua sola, con una cultura che è stata unificata e con una banca centrale come la Federal Reserve che agisce come prestatore di ultima istanza per cui se c’è un attacco al debito dei singoli stati, stati come il Minnesota, tanto per intenderci, o che so io la Florida, o qualsiasi altro paese, interviene la banca centrale con tutta tranquillità. Nessun speculatore internazionale va ad attaccare la Florida o il Minnesota se hanno delle difficoltà, cioè va a vendere i suoi titoli perché, se vende i titoli allo scopo di fare speculazione, sa benissimo che prenderà una grande botta nei denti e i titoli li comprerà, diciamo la federazione e il valore di questi titoli non scenderà e lui, il calcolo speculativo che faceva, un’operazione di riporto, non funzionerà. Quindi nessuno attacca questi paesi.
Vedete, io allora ci credevo. Quando dicevo che gli economisti dichiaravano (gli economisti americani soprattutto, perché gli italiani erano totalmente invasati e soprattutto una persona che io ho amato molto e che era una carissimo amico, Tommaso Padoa-Schioppa che disegnò il sistema delle istituzioni) delle preoccupazioni, la risposta che ottenevo dai miei colleghi europei era: “ma no, guarda, per il momento abbiamo solo dei benefici”, ed era vero di fatto, “e poi vedrai che quando sorgeranno dei problemi faremo dei passi politici in avanti, anzi il fatto che si scatenino dei problemi ci sarà il solito meccanismo con cui sono avvenuti dei mutamenti all’interno della UE, cioè fondamentalmente butti il portafoglio o il cuore oltre l’ostacolo e poi vedrai che la gente spaventata di quello che succede se anche tu non vai oltre l’ostacolo, finirà per andare oltre l’ostacolo”. No, tedeschi, olandesi, finlandesi eccetera non hanno nessuna voglia di andare oltre l’ostacolo, di buttare il portafoglio o il cuore oltre l’ostacolo, cioè la minaccia di crisi non ha funzionato come ricatto politico per andare avanti.
Però pochi tra noi, io incluso avevano capito. Gli economisti che sospettavano di più erano personaggi… io qualche accenno, ma poi mi piaceva tanto l’idea che pochissimi… Marcello De Cecco, in realtà, aveva capito qual era la vera natura del problema, e pochissimi altri. Ma pochi in realtà pensavano a crisi future. Data la situazione di crescita di quegli anni, sto parlando appunto degli anni che vanno tra il ’97 e il ’98 e il 2007 fino alla crisi americana, quegli anni lì, data la situazione di crescita di quegli anni, i guasti del nostro capitalismo scatenato, le crisi finanziarie reali di cui è conteggiata la storia di questo capitalismo, erano molto lontani dalla riflessione economica e politica, e i grandi pensatori che avevano analizzato l’instabilità del capitalismo, sto pensando a Keynes ovviamente, ma anche a Minsky, erano del tutto dimenticati.
In Italia, poi, queste preoccupazioni sistemiche e di lungo periodo erano sommerse dai vantaggi di breve periodo che avremmo ottenuto: un guardiano dei conti pubblici esterno e sicuro, il pennone a cui Ulisse veniva legato, e tassi di interesse più bassi perché entrando nella moneta unica il tasso di interesse avrebbe risentito della stabilità della moneta che veniva così creata e sarebbe sceso dall’8, 10, 12% che aveva sulla lira al 3-4% che aveva sull’euro. Questa fu la ragione per cui ci salvammo, questa è la cosa che ci illuse. Anche chi a sinistra, all’estrema sinistra, era contro il trattato, non faceva certo considerazioni, non era contro per timore di instabilità del capitalismo, per paura della bestia, per paura di crisi future, sistemiche, ma lo faceva per i limiti che il trattato poneva all’autonomia di bilancio, alla manovra di spesa e alle entrate secondo calcoli politici nazionali.
Ho un episodio che mi si è stampato nella mente: nel gruppo parlamentare di cui facevo parte, che era PDS-Ulivo allora, sto parlando della fine del ’97, quando si seppe che l’Italia era stata ammessa tra i primi paesi a partecipare alla moneta unica europea, c’era un’atmosfera di passata la festa gabbato lo santo. Cioè, avete capito cosa voglio dire: era un’atmosfera di: “bene, i sacrifici sono finiti, adesso possiamo tornare a spendere e a spandere”. Questa era la sinistra di allora, questi erano i Fabio Mussi, i Diliberto and company. Come ex-marxisti avrebbero dovuto capire che i pericoli erano molto più profondi. Il pericolo era che l’intero sistema capitalistico saltasse e i guai che ne sarebbero derivati, non i piccoli vantaggi di spesa clientelare che loro gestivano.
Come poi sono andate le cose è ben noto. Effettivamente, i paesi più deboli ottennero condizioni finanziarie cui mai avrebbero potuto godere se fossero rimasti fuori dalla moneta unica, cioè noi avemmo una situazione di favore incredibile che mai avremmo potuto avere, i greci ancora di più, e la sprecammo nella maniera più disastrosa; cioè sostanzialmente, invece di dire: signori miei, guardate che è il vero momento di stringere la cinghia, è adesso il momento di rendere efficiente la nostra pubblica amministrazione, adesso dobbiamo rendere efficiente la scuola, adesso dobbiamo creare un surplus capace di erodere il debito in continuazione, il saldo primario. È adesso, in questi anni, veramente benefici, che dobbiamo fare, è adesso che dobbiamo intervenire per affrontare il problema drammatico del nostro paese che è quello della perdita di capacità competitiva e di produttività. Perché c’è una cosa del genere? E soprattutto in realtà ridurre la spesa. Cioè la spending review che facciamo faticosamente adesso doveva essere fatta allora e massicciamente. E la competizione, la paura del licenziamento per gli incapaci e per le persone che non sono in grado all’interno del settore pubblico doveva essere instillata allora, pesantemente.
Un vero grande partito riformista così avrebbe dovuto fare. Ma puoi immaginarti: Prodi a mala pena riuscì a entrare nell’euro, nel ’98 venne cacciato via e poi riprese il solito tran tran del centro sinistra. Il tran tran che aveva ingigantito le spese nei 30 anni precedenti, i 25 anni precedenti, dal ’70.
Tutto questo durò fino alla crisi finanziaria americana del 2007-2008 e le sue ripercussioni, ed è allora che i capitali, siccome eravamo entrati in un sistema fortemente interconnesso in cui i soldi che servono per fare opere pubbliche in Italia ci vengono prestati dall’estero, a condizioni competitive tanto per intenderci, e in cui i risparmi girano da una parte e dall’altra e girano verso dove ottengono il maggior rendimento possibile, e in questa interconnessione il rapporto aumenta e rinnova i miliardi nel breve periodo, allora i capitali cominciano a diventare nervosi, dopo le prove di Wall Street e si insinua il dubbio di possibili insolvenze di banche e di stati, di debiti sovrani, in un’area così indifesa come l’eurozona dove non esiste un prestatore di ultima istanza che possa dare una botta sui denti agli speculatori esattamente come può fare la Federal americana nei confronti di chi specula contro il debito del Minnesota, tanto per dire, può intervenire, lo compra, il prezzo delle obbligazioni rimane costante e chi ha speculato ci perde. Ma da noi non c’è nessuno che faccia così, cioè non c’è nessun prestatore di buoni di stato che sulla base di una concezione alta e profonda di sovranità nazionale, di condivisione della sovranità, entra e sostiene il debito delle zone più indebitate.
Allora non esiste questo e quindi comincia a diffondersi la paura. Guardate che non si tratta di speculatori in senso proprio, non necessariamente. Ci sono certo queste cose che si chiamano ex fund, che sono dei fondi che cercano i massimi rendimenti per grandi investitori finanziari, per gente che ci mette dentro da un minimo di un milione di dollari e più oltre, e questi sono effettivamente alimentati dall’avidità, dal greed e dalla tentazione del massimo guadagno, ma il grosso dei fondi che si muovono non sono questi, sono fondi di investimento che sono fondi pensione enormi, ma enormi, a capitalizzazione, che semplicemente cercano il miglior rendimento per i poveracci, per i pensionati che gli hanno affidato i loro soldi.
E quindi si comincia a ritenere che l’Italia non sia in grado di onorare il proprio debito, si comincia a ritenere che i prezzi dei bond italiani crollino e loro hanno investito in bond e in obbligazioni italiane, le vendono, e questa è una profezia che si autoadempie. E se fanno così se le vendono, il prezzo dei bond italiani crolla e il tasso di interesse che è necessario per emetterne di nuovi, o per recuperare i vecchi, sale. Questa è la cosa che avviene.
Guardate non sono cattivi, questi, sono gente che cerca di tenere… voglio dire, i miei soldi li ho investiti in un fondo di investimento così e spero che mi rendano bene e se si accorgono che l’Italia crolla, vendono i titoli italiani e comprano titoli di altri paesi che non crollano. Questo è quello che avviene, è il mondo in cui siamo entrati. E attualmente è del tutto evidente che in queste condizioni, e mancando di una sovranità nazionale, mancando di un vero spirito nazionale, mancando un vero demos europeo, come il demos americano unito dalla lingua e dalla TV e che non fa una piega se la Federal Reserve sostiene i debiti del Minnesota, e no!, i tedeschi una piega la fanno, ed è per quello che una piega la fanno, anzi parecchie pieghe, voglio dire.
E noi dovremmo essere quelli che meno si sorprendono di questo, noi italiani, semplicemente per il motivo che la Lega fa esattamente la stessa cosa e se la Lega potesse, la Lega non può farlo perché penso che lo stato italiano nel suo complesso sostiene i nostri debiti, i debiti delle altre regioni e trasferisce questi fondi naturalmente, ma la Lega, se potesse, farebbe esattamente come i tedeschi nei confronti dei meridionali, uguale. Se noi avessimo vera autonomia regionale, la Lega non vorrebbe comprare i titoli di debito delle regioni meridionali perché è convinta che questi soldi verranno sprecati da regioni inefficienti, corrotte e incapaci. Che è un giudizio diffuso e, in buona parte giustificato, che c’è nel Nord Europa nei nostri confronti. Questa è la situazione in cui noi siamo.
Il problema è che una cosa di questo genere genera una situazione di asfissia completa del nostro paese perché, per poter continuare a godere di sostenere il nostro debito i cui costi sono diventati più alti, noi dobbiamo fare un insieme di manovre depressive, di manovre di riduzione della spesa o di aumento delle tasse che generano una situazione di depressione nel nostro paese. Io la chiamavo asfissia e Monti è stato il dominus di questa situazione, di queste condizioni, e ha fatto quello che ha potuto fare dato il tipo di maggioranza che lo sosteneva e data la qualità della pubblica amministrazione. Tenete presente che anche le cose più assurde che sono avvenute, gli esodati tanto per intenderci, questo è un dato inconcepibile per un paese civile, ma tenete presente che lui ha gran parte dei grandi burocrati contro di lui. Per lui vale la famosa espressione: quando arrivava un nuovo partito politico in Parlamento e c’era un nuovo ministro, il capo di gabinetto gli si rivolgeva in maniera deferente e ossequiosa e gli diceva: “Signor ministro, sono lieto di conoscerla, signor ministro pro tempore, vero?”. Lui rimaneva e sapeva tutto, l’altro se ne sarebbe andato. Questa è un po’ la situazione del paese.
Allora, vi ho terrorizzato abbastanza, quindi non vado avanti su sta roba qua. Vi consiglio di leggere questo pezzo che vi mando, è una cosa che ho scritto in memoria di un mio carissimo amico, Ferdinando Targetti, che è morto l’anno scorso. Uscirà in un libro in onore di Targetti ed è un qualcosa che mischia un po’ di economia all’acqua di rose, come quella che vi ho raccontato, e politica, alla fine.
Così ho svolto il primo punto, più o meno, e questo è il testo. Perché, il secondo punto è… questa è una cosa a specchio: Europa nel passato, Italia nel passato, Europa oggi, Italia oggi, cioè è organizzata così. Europa nel passato, perché l’Italia, il problema, sta oggi nell’Europa del Sud e non nell’Europa del Nord, questo è il problema. Potevamo con una gestione diversa, e se fossimo stati un po’ diversi, con un po’ di sforzo, potevamo essere… io credo di sì! Cioè tutta la mia attività scientifica tanto per dire (non prendiamo in giro la scienza), ma insomma di studio dell’Italia, non tanto questo libricino che è una specie di riassuntino finale di vecchi libri che ho scritto, di occasioni mancate, tutte queste cose sono un tentativo di spiegare come mai l’Italia aveva la possibilità di diventare un grande paese industriale e solido e il tipo di politica che aveva gli ha impedito di diventarlo. Il tipo di politica che è poi il tipo di società che aveva, non è che la politica sia stata fatta a caso. Questo è un pezzo che mi hanno rimproverato moltissimo perché, mi veniva detto: “Tu finisci di dare tutta la colpa all’elemento che è la rappresentanza della sinistra da parte di un partito antisistema, da parte del Partito comunista, ciò che ha impedito l’alternanza”. Probabilmente bisogna andare indietro ancora per capire perché il PCI…, bisogna ritornare al Congresso di Livorno, per capire il Congresso di Livorno bisogna capire il meccanismo, la storia ti rimanda sempre indietro, poi a un certo punto devi fermarti se no c’è un regresso all’infinito da cui non esci fuori. Poi in ogni caso io parto nella mia analisi da una situazione che sono i primi 15 anni dopo la guerra, almeno fino al ’63, forse fino al ’68-’69, in cui la politica economica italiana fu gestita benissimo, fu gestita al meglio delle possibilità da parte allora dei governi centristi. Fu gestita al meglio e poi invece quando si fu costretti a tirar dentro i socialisti per poter rilasciar fuori i comunisti, perché questo era… tutto dipende da quella scelta lì, la necessità di tenere fuori i comunisti data la situazione internazionale di allora, e i socialisti avevano un insieme di pretese… Praticamente, è come si arrivò. Questa è la mia visione di fondo e ve l’ho esposta in pillole tanto per darvi un’idea, però in ogni caso nei miei libri la documento in maniera molto dettagliata, in questo ci vado soltanto all’acqua di rose, però do indicazioni.
L’Italia era un paese che arriva al redde rationem della moneta unica a cui doveva arrivare in qualche modo, cioè arriva in una situazione nella quale si impedisce di andare avanti facendo inflazione e svalutando moneta, che è una cosa che a lungo andare aveva creato dei disastri. Decide di tirare i remi in barca, decide per far questo di appoggiarsi alla UE e quindi decide di ridurre i suoi disavanzi, entrare nella UE e a questo punto salta fuori un problema competitivo molto grosso che è quello di come vendere all’estero se i tuoi costi salgono e tu non puoi svalutare la moneta. Che poi è il problema della mancanza di competitività del nostro paese. Come fai a vendere all’estero, che è necessario perché tu comperi all’estero e quindi devi rimanere in pareggio, la bilancia commerciale è una bilancia corretta, come fai a fare questo?
Perché si è arrivati a questa situazione? Non entro neanche in questo perché il piglio, l’estremo piglio del secondo capitolo di questo libro tratta esattamente di questo e dà tutte le indicazioni bibliografiche; e questo è il secondo punto: perché l’Italia è rimasta nell’Europa del Sud. E perché io credo anche che alcuni paesi dell’Europa del Sud come la Spagna, tutto considerato, in fondo stanno peggio di noi, ma strutturalmente stanno meglio di noi, hanno un sistema politico molto più efficace del nostro, una burocrazia più efficace della nostra. Poi hanno fatto grandissimi errori, sono nei guai però aspettiamo prima di dire… Cioè, perché noi siamo nell’Europa del sud se potevamo essere al nord?
Il terzo punto è: che cosa ci possiamo aspettare? Perché i paesi più ricchi non vengono in nostro soccorso? Perché non si fidano di noi. Perché è così difficile operare un grande rilancio economico europeo, che sarebbe l’unica cosa sensata da fare? Perché questo esige un grado di solidarietà, di condivisione, di simpatia popolare, di fratellanza, di credere che un tedesco, o un greco sia altrettanto dotato di valore, altrettanto un cittadino che non un finlandese, e altrettanto stimabile e apprezzabile nei suoi comportamenti, che non c’è. E come mai, questo lo dicevo prima: se un politico tedesco, intelligente e lungimirante, e molti lo sono, fanno un’operazione di questo genere, di cercare di convincere i suoi conterranei, i suoi concittadini a credere così, viene fregato alle elezioni. Allora la cosa che vi mando, vi mando il pezzo di Klaus Hőffe, comunque sta sul numero cinque del Mulino, è un pezzo bellissimo, veramente è un’intervista fatta da Alessandro Cavalli che tra l’altro è un grande sociologo italiano, è una cosa eccezionale.
E questo è l’altro pezzo su cosa ci possiamo aspettare dagli altri. E noi, mentre ci aspettiamo qualcosa dagli altri cosa possiamo fare? Quali sono le nostre prospettive politiche? Qui entriamo nella contingenza pura. Il governo Monti ha quei difettini, come direbbero a Modena, che diceva lui, cioè è un tipo di governo come un profeta disarmato, è una persona vox clamantis in deserto, un qualcuno che grida che voi italiani dovreste essere più civili, avere più senso del dovere, più senso dello stato, dovreste pagare le tasse, dovreste comportarvi come si comportano i tedeschi e nel frattempo tirare la cinghia. Chi tira la cinghia? Cosa fare per far sì che coloro che son più poveri e sono meno in grado di tirare la cinghia la tirino di meno, perché finora non ha dato idee molto buone in proposito. Anche perché dare idee buone in proposito non è una cosa facile, cioè l’imposta patrimoniale, cose di questo genere qui, sì!, ma che cosa succede se tu metti delle imposte se non sai quali sono i patrimoni da cui puoi andare a pescare perché tutte le dichiarazioni fiscali sono infedeli e perché la gente, non appena cominci a minacciare, esporta i capitali da tutt’altra parte. Si fa presto a dire imposta patrimoniale. L’unica imposta patrimoniale possibile è quella sulla casa se viene fatto un buon catasto. Il catasto adesso è pessimo e quindi praticamente c’è gente che ha delle case categorizzate in qualche categoria che nel frattempo sono diventate degli immobili preziosi. Nel centro di Milano si pagano ancora tasse troppo basse e fare il catasto ci si mette parecchio tempo, è un’operazione molto difficile e soprattutto patrimoniali diverse come la Tobin tass, tutte queste cose qui, di come si può fare per imporre ai più ricchi, alle persone che possono sostenerlo, di venire in soccorso a coloro che stanno male. La gente che sta male sarà sempre di più e quindi dovremmo riorganizzare l’intero welfare in maniera tale da trasformarlo in un grande welfare contro la povertà. Non un welfare dei diritti per tutti. E quindi anche nel sistema sanitario dovremmo abituarci a che coloro che hanno buoni redditi si paghino delle botte di ticket molto più alte di prima. Ma accetteranno questi signori, che spesso sono nostri votanti, una roba di questo genere?
Questi sono i problemini del governo della povertà, del governo dell’asfissia che sarà il nostro nei prossimi 2, 3, 4, 5 anni. Guardate che noi non cresciamo dal punto di vista del reddito, adesso siamo al di sotto dei livelli di reddito che avevamo nel 2000, sotto il reddito pro capite che avevamo nel 2000 ,e sarà una fortuna se nel 2020 raggiungeremo quei livelli che avevamo nel 2000, cioè 20 anni di ristagno completo. Questo è il fatto: 20 anni di ingiustizie crescenti. Come facciamo a far capire a persone che hanno l’orientamento di sinistra, ma di sinistra nel senso dell’articolo 3 della Costituzione, sinistra civile e di centro, moderata e riformista, far capire, farci votare quando gli offriamo lacrime e sangue, quando non siamo in grado di tirarli fuori da questa cosa qui e potremo soltanto sostenere i più miserabili di noi? Ma non gran parte di voi. Questo è il problema che noi abbiamo davanti. Tutto considerato, vi do alcune indicazioni di articoli sul Corriere che ho scritto in modo di avere una qualche traccia dei ragionamenti che ci sono.
E poi viene il problema di che cosa facciamo tra Bersani e Renzi, ma qui ho già parlato troppo lungo, non è un argomento molto sexy, la gente offre domande, mi fermo qua e scusate se sono stato troppo lungo.
Michele Salvati, appendice alla lezione
Destra e sinistra in Italia tra passato e futuro
Divido quest’articolo[1] in due parti. Una parte più generale, su Destra e Sinistra come polarità dello scontro politico in democrazia; e una parte italiana, sugli obiettivi che Destra e Sinistra si sono posti nel nostro paese e su quelli che verosimilmente si porranno in futuro. Data la complessità dell’argomento e però il desiderio di essere chiaro, in entrambe le parti sarò costretto ad essere molto schematico, a usare l’accetta più che il bisturi. E vengo subito alla parte più generale.
I
Molti certamente ricorderanno la famosa canzone di Gaber-Luporini, “Ma cos’è la Destra, cos’è la Sinistra”. “Fare il bagno nella vasca è di destra/Fare la doccia è invece di sinistra/Un pacchetto di Marlboro è di destra/Di contrabbando è invece di sinistra”,…e via su questo tenore per molte strofe. Insomma, Destra e Sinistra sarebbero mode, convenzioni, fissazioni passeggere di un’età (la gioventù?) o di un momento storico (il 68?), e come tali esse sono destinate a passare. Arrivata la maturità si capisce che cos’è la politica vera: una poltiglia di slogan indistinguibili o interscambiabili nella quale sguazzano opportunisti di ogni risma. Resta il rimpianto (“ideologia, malgrado tutto io credo ancora che ci sia”), ma legato ad una esigenza personale più che al mondo fuori di noi (“è la passione, l’ossessione della tua diversità”).
Gaber e Luporini si sbagliavano, ma non erano i soli: analoghe manifestazioni di smarrimento, anche se meno spiritose e coinvolgenti, si ritrovano lungo l’intera storia di Destra e Sinistra e in tutti i paesi. Si ritrovano tutte le volte che Destra e Sinistra passano da una fase all’altra, modificano i loro obiettivi, e coloro che li condividevano si sentono spaesati, smarriti. Ciò che veramente colpisce –di queste due grandi polarità della politica moderna- è infatti la loro persistenza, non le crisi e le fasi di mutamento. Queste fasi sono inevitabili in un mondo che cambia, ma dopo di esse le polarità di Destra e Sinistra sono sinora tornate ad organizzare lo spazio del conflitto democratico. E sono tornate ad organizzarlo –nonostante il mutamento di obiettivi- mantenendo un filo di continuità con gli obiettivi sostenuti nella fase precedente. Insomma, non si tratta di designazioni puramente convenzionali o topografiche, ma di orientamenti culturali permanenti e distinti.
Destra e Sinistra sono infatti radicate nella profonda trasformazione culturale e sociale, economica e politica, che si verifica in Europa tra il XVII e il XIX secolo, passando attraverso il grande fuoco della Rivoluzione Francese: di questa trasformazione è figlia la nostra democrazia. E la democrazia è da subito attraversata dalla distinzione tra Destra e Sinistra. La trasformazione cui ci riferiamo –la modernità, in una parola- è alimentata da una aspirazione che si approfondisce e si dilata in modo incessante, anche se interrotta da periodici regressi: l’aspirazione verso una sempre maggiore eguaglianza di condizioni, di opportunità di vita, come conseguenza dell’egual valore, dell’eguale dignità, riconosciuti a tutti gli esseri umani. Una frase di Tocqueville, all’inizio di “Democrazia in America”, mi ha sempre colpito. “Il graduale progresso dell’eguaglianza è qualcosa di fatale. Quest’intero libro è stato scritto sotto l’impulso di un timore reverenziale, quasi religioso, ispirato dalla contemplazione di questa inarrestabile rivoluzione che procede secolo dopo secolo abbattendo ogni ostacolo e che anche ora sta andando avanti in mezzo alle rovine che essa stessa ha prodotto”[2]. Le rovine cui Tocqueville si riferiva erano quelle della Rivoluzione Francese, ma la ricerca di condizioni concrete di eguale libertà procedeva in modo più graduale e meno violento in altri Paesi, negli Stati Uniti e in Gran Bretagna, e continuerà a procedere dopo di allora, in modi diversi, in tutti i paesi che si affacceranno alla democrazia.
La Sinistra è quella forza politica che nei primi parlamenti moderni, già all’inizio dell’800, sarà la protagonista della spinta verso l’eguaglianza. La Destra sarà una forza di freno. Un freno per difendere assetti sociali che quella spinta portava a sconvolgere. Più tardi, anche per difendere valori di libertà che la Sinistra, nella sua ricerca dell’eguaglianza, a volte tendeva a comprimere. Non sto dando giudizi partigiani. Nel delicato equilibrio tra eguaglianza e libertà, tra mutamento e conservazione, non sempre la spinta della Sinistra fu un bene o le resistenze della Destra un male: la valutazione dipende dalle circostanze storiche e spesso non è facile. Resta il fatto che i tratti culturali profondi dello scontro politico in democrazia, della Destra e della Sinistra, appaiono chiari sin dall’origine e si conserveranno nonostante tutte le trasformazioni che gli obiettivi concreti dei movimenti politici di destra o di sinistra si porranno nella lunga storia di queste categorie.
Questo è quanto gli storici e gli scienziati politici registreranno non senza sorpresa. Duecento e più anni di storia -da società prevalentemente agrarie a società industriali e da ultimo terziarie, da stati in buona misura al riparo da influenze esterne a stati fortemente interconnessi e con un’autonomia decisionale assai ridotta- sono molto lunghi e pongono alla politica problemi molto diversi. Sorpresa, soprattutto, perché alcuni di questi problemi non si fanno facilmente ricondurre ad uno schema di conflitto Sinistra/Destra, basato sull’eguaglianza/diseguaglianza delle condizioni di libertà e benessere dei singoli individui che compongono una comunità politica. Parafrasando la risposta di Amleto a Polonio (Atto I, Scena V) potremmo anche noi affermare che ci sono molti più conflitti su questa terra di quanti ne contempli la nostra semplice dicotomia. Si pensi solo a quelli che traggono origine non da contrasti su condizioni individuali, ma da conflitti tra comunità: conflitti etnici, religiosi, nazionali. Il nazionalismo, influenza poderosa nella politica europea, si è identificato con la Sinistra e ne ha fatto propri i valori quando si è trattato di difendere comunità oppresse –dal Risorgimento alle lotte contro il colonialismo- ma si è identificato con la Destra quando dell’identità nazionale ha fatto un obiettivo preminente e aggressivo, così negando il valore di eguale dignità di ogni persona, quale che sia la sua nazionalità, etnia o religione.
O si rifletta ancora, per venire all’oggi, ai problemi drammatici che pone l’equilibrio ecologico del nostro pianeta. La grande dicotomia moderna, basata sulla spinta verso l’eguaglianza tra le persone e la resistenza ad essa, nulla ci dice su come affrontarli e, di fatto, quando sono stati al governo di un paese, partiti di entrambi gli estremi dello spettro politico si sono spesso rivelati sfruttatori dissennati delle sue risorse naturali e insensibili agli equilibri ecologici del pianeta. Si rifletta infine –e qui penso soprattutto all’Italia di oggi e vi tornerò in seguito- all’illegalità, alla corruzione, all’assenza di civismo, nonché ai modi di reprimere questi caratteri negativi di ogni convivenza civile. Che guida ci offre la dicotomia tra Destra e Sinistra? Per quali ragioni dovrebbero distinguersi? Non dovrebbero combattere quei mali di comune accordo?
Potrei aggiungere altri temi di conflitto politico sui quali i caratteri originali della distinzione tra Destra e Sinistra dicono poco o nulla. Ma proprio questa sua incompletezza rivela la potenza ordinatrice della distinzione, il suo successo nel prevalere sulle tante altre distinzioni possibili. Perché la nostra distinzione è anzitutto un fatto empiricamente verificabile, una costante delle democrazie moderne: in tutte, il conflitto politico si è organizzato da oltre duecento anni intorno ad essa[3]. Ma insieme ad un fatto, essa è anche un fenomeno culturale straordinario: nonostante il variare dei problemi, nonostante il mutare delle risposte nel tempo e nello spazio, nonostante la sua incapacità di catturare molti tipi di conflitto, per duecento anni e in moltissimi paesi il senso originario della nostra distinzione non è mai andato del tutto perduto[4]. Essa ha dominato tutte le altre possibili distinzioni. E uno schematico excursus storico può forse aiutare.
1. Per gran parte dell’800 –stiamo sempre parlando delle democrazie europee- la lotta tra Destra e Sinistra si è svolta in larga misura sul piano istituzionale e costituzionale, con la Sinistra –allora il liberalismo classico- che combatteva per uno stato costituzionale moderno e l’estensione del suffragio; e la Destra –allora una Destra tradizionalista- che difendeva l’ancien régime, i privilegi della monarchia, della nobiltà e del clero.
2. Verso la fine dell’800, in molti stati europei, la battaglia costituzionale dei liberali è sostanzialmente vinta. Ma intanto si inasprisce la questione sociale e alle domande dei liberali si aggiungono quelle dei rappresentanti dei ceti popolari. La Sinistra cambia pelle: da una preminenza liberale si inizia a passare ad una socialista e buona parte dei liberali, ora minacciati dalle domande popolari, vengono sospinti a destra, dove si ritrovano con molti tradizionalisti che ormai hanno accettato come inevitabile la loro sconfitta sul piano costituzionale. Si forma così quella alleanza liberal-conservatrice che costituisce l’ossatura della Destra moderna in molti paesi europei.
3. Dall’inizio del 900 sino alla seconda guerra mondiale la democrazia viene messa alla prova da processi di democratizzazione e domande ridistributive molto intensi e in molti paesi non sarà in grado di sopravvivere: tra la prima e la seconda guerre mondiali si colloca l’età degli estremismi, l’estremismo fascista a destra e quello comunista a sinistra.
4. I primi trent’anni del secondo dopoguerra sono l’età dell’oro della sinistra democratica nei paesi capitalistici avanzati, gli anni nei quali i ceti più poveri ottengono le loro maggiori conquiste -la piena occupazione e lo stato di benessere- e ovunque si riducono le differenze economiche e sociali. La difesa di queste conquiste, reali o simboliche –si pensi in Italia all’articolo 18- sono ancor oggi fonte di conflitto in molti paesi avanzati.
5. I secondi trent’anni, dai primi anni 80 del secolo scorso ad oggi, sono gli anni del neoliberismo e della globalizzazione. L’intero asse del conflitto tra Destra e Sinistra, che nel periodo predente si era spostato a sinistra, si sposta ora a destra e il progresso dell’idea di eguaglianza –quello di cui parlava Tocqueville- conosce una sosta o un regresso. Per i singoli stati nazionali -e solo in questi funziona oggi la democrazia rappresentativa- il fenomeno è spiegato in larga misura da poderose costrizioni esterne. Se l’asse non si sposta, se la politica economica non si adatta alla nuova situazione internazionale, seguono penalizzazioni che nessun governo è in grado di sostenere: questa è la lezione che Mitterrand porta a casa dopo la sua vittoria nel 1981, e dopo che il suo programma di politiche keynesiane in un paese solo viene travolto dalla speculazione internazionale. Ed è la lezione che noi italiani avremmo dovuto interiorizzare dopo la crisi economico-politica dei primi anni 90, che ci costrinse alle misure draconiane del governo Amato, e poi dei governi “tecnici” di Ciampi e Dini. Una lezione che chiaramente non apprendemmo se quasi vent’anni dopo, nel 2011, ci siamo venuti a trovare in una situazione molto simile e, di nuovo, abbiamo dovuto lasciare il timone al governo “tecnico” di Mario Monti.
Il nostro sommario excursus storico è finito e vorrei trarne qualche conclusione sullo stato di salute della nostra grande dicotomia, sulla capacità delle categorie di Destra e Sinistra di interpretare le polarità fondamentali entro le quali si muove e si dovrebbe muovere la politica democratica. Soprattutto nel nostro paese, ma non solo nel nostro, le conclusioni di molti, forse della maggioranza, sono negative e non lontane da quelle della canzone di Gaber-Luporini dalla quale siamo partiti: lo stato di salute di quella dicotomia è cattivo, Destra e Sinistra vogliono dire assai poco e hanno perso il potere di orientare le opinioni politiche dei cittadini. Questo giudizio discende da tre critiche piuttosto diverse. La prima sostiene che costrizioni internazionali ed altri fenomeni sui quali un singolo paese non ha controllo riducono molto, anche se non eliminano, la possibilità di perseguire politiche coerenti con gli ideali che Destra o Sinistra sostengono: insomma, le decisioni sono imposte dall’esterno, non sono deliberate democraticamente da coloro sui quali ne ricadono le conseguenze. La seconda sostiene che la democrazia rappresentativa ha una vista corta, e i partiti, di destra o di sinistra, non riescono a convincere i cittadini ad appoggiare decisioni che sarebbero nel loro interesse di lungo periodo e corrisponderebbero in modo razionale ai significati profondi di Destra o Sinistra. Anzi, al fine di ottenere consenso, li distraggono con una propaganda demagogica, li ingannano con promesse che non saranno in grado di mantenere, li illudono con semplificazioni populistiche. La terza è la più comune: sia a destra che a sinistra i partiti, anche quando non si manifestano i fenomeni di corruzione che sono oggi sotto i nostri occhi in Italia, pensano soprattutto al loro interesse come organizzazioni, o addirittura come singoli leader, e non a quello dei loro rappresentati.
Alla luce della lunga vicenda storica che ho riassunto, la mia conclusione è diversa. Non contesto il peso delle critiche appena esposte. Ma la seconda e la terza riguardano il funzionamento dei partiti e della democrazia rappresentativa, più che la distinzione tra Destra e Sinistra, e per esse non vedo altra risposta se non un’opinione pubblica più vigile e maggiori controlli sull’organizzazione dei partiti: che la democrazia sia esposta a lusinghe demagogiche e a ventate populistiche, e sia spesso incapace di scegliere una buona classe di governo, è un fatto noto sin dai tempi di Pericle. La prima critica riguarda invece più da vicino la nostra dicotomia ed è più sovente espressa da coloro che si collocano a sinistra: sono costoro che maggiormente risentono il fatto che le politiche dell’Età dell’Oro non sono oggi possibili, che l’occupazione è precaria e minori sono le tutele per i ceti più deboli, a seguito di più stringenti vincoli competitivi di natura internazionale. Questo però non significa che le nostre due categorie non abbiano più senso: la lotta per l’eguale libertà continua, solo che si svolge in condizioni più difficili. Ma nessuno ha mai promesso che sarebbe stata una lotta facile.
Una volta scomposto nei diversi argomenti che lo sostengono, lo scetticismo diffuso nei confronti del significato di Destra e Sinistra perde gran parte del suo vigore. Il che non significa che queste categorie siano destinate a vita eterna. Significa che il trauma che potrà condannarle all’estinzione dovrà essere assai più forte dei periodici assestamenti che abbiamo sommariamente registrato. Esse cesseranno di esercitare ogni potere ordinatore dello spazio politico in democrazia, e la stessa democrazia cesserà di avere il fascino e l’influenza normativa che oggi ancora possiede, se e soltanto se crolleranno i pilastri culturali che sostengono la modernità, quelli eretti in Europa tra il XVII e il XIX secolo; se, e soltanto se verrà dissipata l’eredità della grande trasformazione che ha travolto l’ancien régime e ha posto al centro dello spazio politico l’individuo, la sua eguale dignità, i suoi eguali diritti all’autoaffermazione. Il crollo di questi pilastri, il superamento della modernità, non sono impensabili: oggi si parla tanto di “postmoderno”, e spesso a vanvera, ma in un mondo di conflitti estremi e di scarsità di risorse, ridotto a un villaggio globale in cui la grande cultura europea può essere sommersa da altre culture nelle quali l’eguale libertà degli individui non ha un valore preminente, in questo mondo, la fine della modernità, della democrazia, della coppia antagonistica Destra/Sinistra è uno degli esiti possibili. Un esito però ancora lontano. Le costrizioni che la globalizzazione impone alle democrazie nazionali sono serie, ma non impediscono che l’asse del conflitto politico abbia ancora Destra e Sinistra come sue polarità. E soprattutto non vanno messe sullo stesso piano –in un unico pastone qualunquistico- con i fenomeni degenerativi che colpiscono le organizzazioni politiche, con la corruzione che infetta sia i partiti di destra che quelli di sinistra. Questi sono problemi gravi ma non seri –avrebbe detto il grande Flaiano- e non compromettono la distinzione tra Destra e Sinistra, che invece è una cosa seria.
Ricordando Ennio Flaiano, parlando di problemi gravi ma non seri,..ci troviamo in Italia. Abbiamo abbandonato la dimensione secolare ed europea e siamo entrati in una dimensione territorialmente e temporalmente più ristretta, e di seguito tratteremo di Destra e Sinistra nell’Italia del dopoguerra, come premessa per affrontare la situazione politica di oggi e le prospettive di un prossimo futuro.
II
Riponiamo dunque il cannocchiale e passiamo alla lente di ingrandimento, su un singolo paese e per un periodo storico ristretto: così facendo i caratteri generali della nostra dicotomia recedono sullo sfondo e il quadro si affolla di particolari minuti, frutto di storie locali molto diverse. Così avverrebbe anche se dovessimo parlare di Destra e Sinistra in Francia, Germania, Gran Bretagna…e in ognuno dei paesi che abbiamo sommato insieme nel volo d’uccello che abbiamo fatto sull’Europa degli ultimi due secoli, sul continente e il tempo lungo nei quali le nostre due categorie si sono affermate. Ma per non perdere la connessione tra il quadro generale ed il particolare messo a fuoco –l’Italia degli ultimi sessant’anni- inizio dai tratti comuni a tutte le storie locali, ai conflitti tra Destra e Sinistra in tutti i paesi europei nel dopoguerra. Con il cannocchiale, abbiamo già visto che la nostra dicotomia, gli obiettivi e i vincoli del conflitto tra Destra e Sinistra in questo periodo, conoscono due fasi ben distinte, ognuna della durata di circa trent’anni, ed è opportuno approfondire un poco il sommario excursus storico che ho prima fornito.
La prima fase, dall’immediato dopoguerra ai primi anni 80 del secolo scorso, è caratterizzata in Europa e in tutti i paesi capitalistici avanzati, da uno spostamento a sinistra dell’intero asse Destra/Sinistra. Sono anni di crescita economica travolgente, di piena occupazione, di forte miglioramento del tenore di vita di tutti i cittadini ed in particolare dei più poveri, di concessione di ampie tutele pubbliche contro i rischi connessi alla vecchiaia, alla malattia, alla disoccupazione, i trent’anni in cui si afferma e si consolida il Welfare State. Le ragioni per cui entrammo in questa Golden Age, Età dell’Oro, come venne poi definita, hanno a che fare con la straordinaria egemonia militare, economica e politica di cui allora gli Stati Uniti godevano e, soprattutto, con la convinzione delle classi dirigenti di quel paese che non si dovevano ricreare, in Europa, le condizioni che tra le due guerre avevano indotto crisi economiche, disoccupazione, miseria, tensioni sociali, conflitti politici poi sfociati in molti paesi in regimi autoritari o totalitari. Era allora in corso una grande sfida tra sistemi economico-sociali, tra capitalismo e comunismo, e oggi tendiamo a dimenticare che all’inizio l’esito non era per nulla scontato: il capitalismo doveva mostrare essere almeno pari al comunismo nel fornire occupazione e benessere ai ceti popolari. Questo spiega le politiche economiche indotte ovunque dagli Stati Uniti in quegli anni e, insieme alle occasioni fornite dal progresso tecnico, il loro straordinario successo. E spiega anche lo spostamento a sinistra del nostro asse: anche quando saranno al potere governi conservatori, questi perseguiranno obiettivi non dissimili da quelli perseguiti da governi laburisti o socialdemocratici: Harold MacMillan, un leader Tory di questo primo trentennio, perseguirà politiche più a sinistra di Tony Blair, un leader Labour del secondo trentennio.
Con i primi anni 80 le cose cambiano, l’intero asse si sposta a destra e, di nuovo, il cambiamento ha origine nel paese egemone, negli Stati Uniti di Ronald Reagan, anche se Margaret Thatcher si muove indipendentemente e simultaneamente nella stessa direzione: ma è il paese egemone quello che conta. Non posso ora entrare nelle ragioni del cambiamento, nella crisi degli equilibri economici e geopolitici che avevano sorretto l’Età dell’Oro, e mi limito a ricordarne le conseguenze: ovunque in Europa, con resistenze iniziali nei paesi nordici, il ritmo di crescita economica si riduce, ricompare la disoccupazione, l’espansione del Welfare State viene frenata. E’ la grande fase del neoliberismo, che sfocia negli anni 90 in una straordinaria globalizzazione: se i paesi avanzati soffrono, in particolare i più deboli tra di essi, si aprono straordinarie occasioni di crescita per molti paesi in via di sviluppo. La democrazia è però un fenomeno circoscritto ai singoli stati e la partita tra Destra e Sinistra si gioca a questo livello: che cinesi o indiani abbiano maggiori occasioni di benessere non importa molto ad un italiano che perde il suo lavoro, o a un’impresa che è costretta a chiudere, per la concorrenza delle merci prodotte in quei lontani paesi.
Su questi due grandi scacchieri internazionali, in questi due diversi trentenni, si è giocato il conflitto tra Destra e Sinistra in Europa nel dopoguerra e non sorprende che occasioni e vincoli esterni simili, e di questa portata, abbiano indotto in tutte le democrazie europee risposte simili. Simili, ma non eguali: eredità storiche diverse hanno provocato notevoli variazioni nel modo in cui quel conflitto si è manifestato. In modo molto sommario cercherò di dare un’idea dell’esperienza italiana. Prima, però, un’altrettanto sommaria menzione ai principali caratteri che ci distinguono dai paesi europei con i quali solitamente ci confrontiamo. L’Italia è un paese diviso sul piano economico, sociale e culturale, e in una ampia parte di esso una economia di mercato, legale e vitale, non ha mai attecchito. E’ un paese a statualità debole, sprovvisto di un’amministrazione pubblica efficiente e dotata di un forte spirito di corpo: “una società senza stato”, come l’ha definita Sabino Cassese in un suo recente libretto[5], dove i partiti hanno malamente sostituito quel collante che altrove è fornito dallo stato e dall’amministrazione pubblica. E’ un paese in cui lo spirito civico è stato da sempre carente e la disonestà e la corruzione più diffuse che altrove. Insomma, è un paese a modernizzazione incompleta e ho già notato che i problemi di modernizzazione mal si prestano ad una declinazione in termini di Destra e Sinistra: una Destra e una Sinistra moderne dovrebbe cooperare per una soluzione credibile della questione meridionale, per la costruzione di una pubblica amministrazione efficiente, in una lotta senza quartiere contro l’illegalità e la corruzione. Questo non è avvenuto e per ora mi preme solo segnalare che, accanto a problemi di conflitto legati alla dicotomia Destra/Sinistra, l’Italia deve affrontare problemi di modernizzazione che nei paesi con i quali ci confrontiamo non si presentano in modo così grave e urgente.
Con quale sistema politico, con quali partiti di Destra e di Sinistra, l’Italia ha affrontato e affronta sia i suoi problemi di modernizzazione, sia quelli emersi nelle due grandi fasi di sviluppo che ho prima sommariamente ricordato? Anche qui ci sono somiglianze, ma soprattutto differenze con i grandi paesi europei con i quali pretendiamo di confrontarci. E necessariamente il nostro sommario resoconto deve distinguere due periodi, prima e dopo la crisi politica del 1992-94. Una crisi del tutto eccezionale, perché in nessun altro paese dell’Europa occidentale, nel dopoguerra, un intero sistema politico venne sconvolto come lo fu il nostro, senza che vi fosse un evento bellico o una rivoluzione sociale o un’altro trauma esterno che giustificasse un mutamento così radicale.
Per il primo periodo, tra l’immediato dopoguerra e i primi anni 90, le peculiarità della Destra e Sinistre italiane in un confronto europeo sono ben note. Il grosso della Sinistra è rappresentato dal partito comunista, ciò che, nelle circostanze geo-politiche di allora, impediva quell’alternanza al governo tra Destra e Sinistra che ovunque si realizzò nell’Europa occidentale: anche in Francia, dove nel dopoguerra e fino agli anni 70 il partito comunista fu molto forte, le riforme costituzionali golliste e poi l’abilità di Mitterrand riuscirono a portare la Sinistra al governo nei primi anni 80 e dopo di allora il declino del Pcf fu inarrestabile. Non meno anomala, in un confronto europeo, è la configurazione della Destra, e un bel saggio di Galli della Loggia, appena pubblicato da questa rivista[6], ne tratta in modo convincente. In questo lato dello spettro politico sopravvivono i residui del recente passato, i partiti neofascista e monarchico. Manca un grande partito laico liberal-conservatore, il bastione dello schieramento di Destra quasi ovunque in Europa, ma una debolezza antica del nostro paese. Questo vuoto è colmato da un grande partito cattolico, fortemente appoggiata dalla Chiesa, l’unico che nelle circostanze del tempo poteva vincere la sfida con i social- comunisti, come di fatto avvenne. Ma non si trattava di un partito di destra: i suoi tratti liberali, presenti nella fase degasperiana, vennero poi contrastati da correnti legate alla dottrina sociale della Chiesa e gran parte dei suoi leader si sarebbero offesi se qualcuno li avesse definiti di destra: l’assimilazione tra destra e fascismo era allora troppo forte. Si vide questo con chiarezza quando scoppiò la crisi, e si dovette votare con una legge maggioritaria, che costringeva i partiti a schierarsi o di qua, o di là, a destra o a sinistra. La gran parte dei dirigenti ex-democristiani rifiutò l’alternativa e fu il collasso del Partito popolare nelle elezioni del 1994: due abili politici populisti gli sfilarono di sotto la gran parte degli elettori che in passato avevano votato Dc per avversione al partito comunista e alla sinistra. Dopo di che, nelle elezioni successive, quei dirigenti ex-democristiani passarono ad una alleanza con gli ex-comunisti, che essi sentivano più vicini che non Berlusconi e Bossi.
Il sistema politico costituito da questa destra e da questa sinistra, l’impossibilità di alternanza, la continua presenza al governo, dopo il 1963, di una difficile e litigiosa alleanza tra democristiani e socialisti -altrove sono partiti che si alternano al governo e all’opposizione- ebbe conseguenze fortemente negative sulla conduzione della politica italiana, ed in particolare della politica economica. E i guasti iniziano ben prima del trentennio neoliberista, già nel corso del trentennio di forte crescita della Golden Age: questa è la tesi che sostengo in un mio recente libretto[7] e non ho modo di svilupparla qui. Mi basti dire ora che non si affrontarono le riforme strutturali di cui la modernizzazione incompleta dell’Italia aveva bisogno, si lasciò scatenare un’inflazione che non ha confronto per intensità e durata con quella degli altri paesi europei e i continui disavanzi di bilancio si cumularono nel maggior debito pubblico mai raggiunto in un grande paese europeo nel dopoguerra. Un debito che ancor oggi ci tiriamo appresso e che costituisce uno dei maggiori ostacoli alla crescita economica del nostro paese.
Il funzionamento inadeguato delle amministrazioni pubbliche, l’inasprimento fiscale dovuto al tentativo di ridurre i disavanzi, la corruzione e l’arroganza di un ceto politico che si riteneva inamovibile finché era necessario ad escludere dal governo il Partito comunista, cominciavano però ad alimentare la rivolta del Nord. A cavallo tra gli anni 80 e 90 il crollo del muro di Berlino e l’implosione dell’impero sovietico eliminarono laconventio ad excludendum, o il fattore K, come lo chiamava Ronchey, e a questo punto bastava solo un innesco per provocare la rivolta. L’innesco fu fornito da un modesto episodio di corruzione, la tangente intascata da Mario Chiesa nel febbraio del 1992: la magistratura si sentì libera di agire, la Lega si buttò sulla preda e i tradizionali partiti di opposizione (neofascisti ed ex-comunisti) fecero altrettanto, i media esasperarono il conflitto, e l’opinione pubblica mutò radicalmente. La Prima Repubblica era in agonia e le elezioni del 1994, le prime con un sistema elettorale fortemente maggioritario, ne certificarono il decesso.
Non sono pochi quelli che videro con favore l’avvento della Seconda Repubblica –e uso per comodità questa espressione impropria, perché una riforma costituzionale che ne sancisse la nascita non fu mai attuata- anche tra coloro che in seguito si opporranno da sinistra ai governi Berlusconi-Bossi. Finalmente si chiudeva un’esperienza anomala tra i sistemi politici europei, l’alternanza diventava possibile, e la stessa fine della Democrazia cristiana poteva aprire la strada a quel grande partito laico, liberal-conservatore, che l’Italia non aveva mai conosciuto. Il programma elettorale di Forza Italia, nel 1994, era un programma neoliberista, una versione italiana dei programmi dei repubblicani americani e dei conservatori inglesi, della Thatcher e di Reagan che Berlusconi allora proclamava come suoi numi tutelari, un programma del tutto consono alla fase economico-politica nella quale si era entrati da più di un decennio. La riforma delle pensioni che proponeva, disegnata dal maestro di Elsa Fornero, Onorato Castellino, era una riforma eccellente, migliore di quella che poi venne adottata durante il governo Dini. Ma proprio questo fu uno dei motivi di conflitto tra Bossi e Berlusconi (“non si toccano le pensioni padane!”) e dopo pochi mesi il primo governo Berlusconi fu costretto a dimettersi: gli fece seguito il governo Dini, il famoso ribaltone, e poi la vittoria dell’Ulivo di Prodi nelle elezioni del 1996, largamente dovuta alla divisione che ancora permaneva nel Centrodestra.
Da questa vicenda Berlusconi trasse però un’importante lezione. Da un lato che l’alleanza con la Lega era indispensabile in un contesto elettorale che premiava la coalizione che avesse ottenuto il maggior numero di voti. Dall’altro, e ancor più importante, che esisteva in Italia un contrasto difficilmente superabile tra consenso elettorale e riforme liberali serie, alla Thatcher o Reagan. Conveniva allora mantenere la retorica liberale: ma attuare un programma liberale duro, affrontare seriamente le riforme di cui l’Italia aveva bisogno –si pensi soltanto ad una strenua lotta contro l’evasione o contro l’illegalità diffusa, come pendant necessario di una riduzione delle aliquote fiscali- avrebbe suscitato reazioni negative negli stessi ceti sociali nei quali Forza Italia cercava il suo maggior consenso, piccole imprese, artigiani, commercianti, professionisti, e in generale tutti i lavoratori autonomi. Sia nelle elezioni del 2001, che vinse, sia in quelle del 2006, che perse per un soffio, sia in quelle del 2008, in cui trionfò, Berlusconi si attenne alla retorica liberale e anticomunista: al programma avrebbero pensato i suoi ministri, dopo che le elezioni erano state vinte. Berlusconi è maestro nell’arte della comunicazione e nello smussare i contrasti tra le parole e fatti, e non si dava troppo pensiero che l’economia ristagnasse, che la spesa pubblica crescesse e con essa il prelievo fiscale, che il debito non si riducesse rispetto al Pil, che si profilassero nubi minacciose all’orizzonte .
Non si dava troppo pensiero anche perché aveva di fronte una sinistra debole, frazionata, rissosa. La legge elettorale, come costringeva Forza Italia ad allearsi con la Lega, così costringeva il principale partito del centrosinistra (prima Pds, poi Ds, poi Pd, e forse i mutamenti di nome non sono ancora finiti…) a raschiare il fondo del proprio barile, a includere nell’alleanza elettorale forze politiche che poi avrebbero reso assai difficile governare, anche quando presentava come capi del governo o ministri dell’economia persone della qualità di Prodi, o Visco, o Padoa-Schioppa, tutte pienamente consapevoli delle difficoltà in cui si trovava il nostro paese: il primo governo Prodi fu fatto cadere da Bertinotti nel 1998 e il secondo, dopo la risicata vittoria dell’Unione nel 2006, fu fatto cadere da Mastella, nel 2008. Ma non si tratta solo di eterogeneità delle coalizioni. Il male è più profondo e si annida nello stesso grande partito del centrosinistra, quello che ora si chiama Pd: i leader che si sono succeduti alla sua guida, D’Alema, Veltroni, Bersani, non sono mai riusciti a far capire fino in fondo al loro popolo e alle forze sociali che al partito sono vicine, e soprattutto ai sindacati, che i tempi erano radicalmente mutati nel trentennio del neoliberismo rispetto a quelli dell’Età dell’Oro, e di conseguenza dovevano mutare anche gli obiettivi della Sinistra. Non sono mai riusciti a dare una credibile veste di sinistra, a legare alla sua tradizione e al suo passato, un insieme di misure di efficienza e risparmio che è indispensabile attuare se in nostro paese vuole uscire dalla difficile situazione nella quale si trova. In sostanza, non hanno fatto proposte che convincessero i loro potenziali elettori di due cose: che i sacrifici sono necessari e li devono fare tutti; ma che li devono fare in proporzione alla capacità di sostenerli. E già questo, se fosse veramente attuato, sarebbe un programma di sinistra.
Dato il passato da cui la Sinistra italiana proviene, non si trattava di un compito facile e non rimprovero più di tanto i suoi leader per non essere riusciti ad assolverlo. Se osserviamo un grande paese a noi vicino, che si trova in una situazione economica migliore della nostra e nel quale si sono appena svolte importanti elezioni, i risultati elettorali hanno mostrano con chiarezza come le difficoltà economiche e l’incertezza sul futuro erodano il consenso delle forze “responsabili” di Destra e di Sinistra e lo spostino su forze populistiche ed estreme. Dato il sistema costituzionale ed elettorale di quel paese –un grande punto di forza della Francia- per questa volta leader estremisti o populisti come Marine Le Pen o Mélenchon non riusciranno a condizionare il governo più di tanto, ciò che in parte spiega l’improvvisa popolarità del semi-presidenzialismo alla francese e del doppio turno elettorale anche da noi. Ma non è affatto detto che ciò non avvenga in futuro se le difficoltà economiche e sociali aumenteranno e con esse la disaffezione popolare verso la destra e la sinistra “ragionevoli”. In ogni caso la campana d’allarme suona, e suona forte, anche e soprattutto per noi. L’Italia è l’unico paese in Europa in cui, per ben due volte, nel 1993 e nel 2011, la democrazia dei partiti ha gettato la spugna nei confronti dei compiti di governo e il Presidente della Repubblica ha formato esecutivi presieduti da personalità estranee al mondo politico, anche se poi sostenute dal consenso del Parlamento. Questo non è un segnale confortante: in un confronto con i grandi paesi europei, esso rivela, insieme, una maggiore gravità dei problemi economico-sociali che l’Italia deve affrontare e una maggiore fragilità delle nostre istituzioni democratiche, una transizione incompiuta ad un sistema costituzionale idoneo a governare la rottura politica dei primi anni 90.
Il governo Monti, oltre a cercare di assolvere la missione di emergenza che gli è stata affidata dal Presidente della Repubblica, sta offrendo alle forze politiche tempo prezioso per mettere le nostre istituzioni democratiche al riparo dalle scosse che proverranno da difficoltà economiche, e di conseguenza da una situazione di disagio sociale, di durata non breve. Un tempo prezioso, ma corto: le elezioni politiche saranno al più tardi nella primavera dell’anno prossimo e almeno un paio di mesi andranno persi in una campagna elettorale durante la quale sarà impossibile cooperare per riforme condivise. Rimangono però alcuni mesi che consentirebbero persino di attuare riforme costituzionali impegnative: l’eliminazione del bicameralismo perfetto, la riduzione nel numero dei parlamentari, una corsia preferenziale per il governo in Parlamento e uno statuto delle opposizioni, e altre ancora, in grado di assicurare nello stesso tempo maggiore governabilità e maggiori controlli sul governo. E che, ancor prima delle riforme costituzionali, consentirebbero ai partiti di prendere provvedimenti drastici al fine di riguadagnare qualche punto nella stima dei cittadini, al fine di portarsi più vicini ai livelli, certo non esaltanti, che si registrano nei grandi paesi europei: le esitazioni che stiamo osservando sulle misure di contrasto alla corruzione politica e amministrativa, sulla riduzione delle remunerazioni del personale politico e, più in generale, sul costo della politica, sono intollerabili in un contesto in cui si chiedono tanti sacrifici ai cittadini. Sarà invece già un miracolo se i partiti riusciranno a concludere un accordo su una legge elettorale decente, che ci consenta di evitare la legge Calderoli nelle prossime elezioni. Dopo di che, ben venga un confronto elettorale, se questo permetterà di offrire al prossimo governo una base parlamentare politicamente più coerente di quella che oggi sostiene il governo Monti.
E qui mi fermo, concludendo brevemente sulle nostre categorie di Destra e Sinistra nel contesto italiano. Se c’è una cosa di cui non sono preoccupato è che queste perdano significato nel confronto politico del futuro, che si riducano alle preferenze frivole della canzone di Gaber: i compiti che ci attendono per ottenere combinazioni più avanzate di libertà personale e effettiva eguaglianza di opportunità possono alimentare un serio confronto tra Destra e Sinistra per un tempo indefinito. Sono piuttosto preoccupato del contrario. Che i partiti i quali oggi rappresentano quei grandi orientamenti ideali non si rendano conto che ci sono materie sulle quali non dovrebbero entrare in conflitto. O perché ci sono vincoli esterni insuperabili, come alcuni di quelli indotti dall’attuale fase economica internazionale; o perché si tratta di materie che non si prestano ad essere affrontate in una logica di destra o sinistra, come nel caso delle riforme che intendono rimediare alla modernizzazione incompiuta del nostro paese. Certo, anche in questi casi restano motivi di dissenso, soprattutto nel valutare se veramente i vincoli esterni sono insuperabili, o se riforme di modernizzazione (in tema di legalità, efficienza amministrativa, lotta alla corruzione) esulino per intero da una logica di Destra/Sinistra. Ma partiti “responsabili” dovrebbero saper discriminare, dovrebbero convincere i loro sostenitori che soluzioni estremistiche o populistiche sono ingannevoli e dannose, e concentrarsi invece sugli innumerevoli temi per i quali il dissenso è pienamente giustificato dalle concezioni morali e politiche che Destra e Sinistra esprimono.
Se questo sapranno fare le principali forze politiche che usciranno vincitrici dal confronto del 2013, è tutto da vedere.
[1] Con poche modificazioni si tratta di una conferenza tenuta il 18 aprile a Milano, in Santa Maria delle Grazie, per il ciclo “L’Italia dopo l’Italia”, promosso dall’editore Laterza e dal Corriere della Sera. E’ stata aggiunta qualche nota, ma restano molti caratteri di un testo pensato per l’esposizione orale.
[2] In A. de Tocqueville, Scritti politici, a cura di N. Matteucci, vol II, Torino, Utet, 1968, p. 19. La frase del testo è però una mia traduzione dall’originale.
[3] Le categorie analitiche e le informazioni per il periodo precedente alla seconda guerra mondiale possono essere ottenute dal grande manuale di Paolo Pombeni,Partiti e sistemi politici nella storia contemporanea, Bologna, Il Mulino, 1994. “La” grande ricerca empirica sulla dimensione Destra/Sinistra in una ventina di paesi sviluppati, misurata attraverso i programmi dei partiti dal 1945 al 1998, è quella di I. Badge, H-D. Klingemann, J. Bara, E. Tanenbaum, Mapping Policy Preferences, Oxford, O.U.P., 2001.
[4] Ed è questo che spiega l’ampia letteratura che tenta di identificare i caratteri distintivi ultimi di queste due categorie, di cui l’esemplare più noto nel nostro paese è N. Bobbio, Destra e Sinistra, Roma, Donzelli, 1994, seconda edizione 1995, un libro utile, ma non certo tra i migliori del nostro grande filosofo e giurista. Meno ambizioso, ma molto più illuminante sull’origine storica delle nostre categorie, è un altro piccolo libro, tradotto in italiano proprio nello stesso anno in cui venne pubblicato Bobbio: Marcel Gauchet, Storia di una dicotomia. La destra e la sinistra, Milano, Anabasi, 1994.
[5] Una società senza stato, Bologna, Il Mulino, 2012
[6] Una destra diversa, Il Mulino, 2012/2, n. 460, pp. 242-252.
[7] Tre pezzi facili sull’Italia: democrazia, crisi economica, Berlusconi, Bologna, Il Mulino, 2011.
Mario Monti, destra e sinistra, Partito Democratico
10 ottobre 2012
Dopo aver affermato che ancora non è chiaro se Mario Monti contempli oppure no la possibilità di restare a Palazzo Chigi dopo le elezioni –per me è chiarissimo, se “chiamato” la contempla- Barbara Spinelli così continua il suo articolo su La Repubblica del 3 ottobre: “Monti c’è e non c’è, ha bravure tecniche e una ritrosia istintiva a schierarsi che gli dà una forza peculiare. Una forza non necessariamente positiva: mistero, miracolo, autorità refrattaria alla politica sono attributi del cesarismo. L’altro ieri ha specificato che la classica divisione destra-sinistra va sostituita da quella tra evasori e non evasori: l’estraneità alla politica e al suo progettare pare evidente.” L’implicita attribuzione a Monti di caratteri cesaristici, se pensiamo a coloro ai quali sinora sono stati attribuiti in passato e dunque al tipo ideale che questa imprecisa categoria politica connota, è piuttosto sorprendente: qui mi limito a consigliare la lettura dell’ottima voce “cesarismo” di Angelo Panebianco, nell’Enciclopedia delle Scienze Sociali Treccani. Prendo però a spunto le affermazioni di Barbara Spinelli riportate più sopra per riflettere su tre temi, in stretto riferimento all’esperienza italiana e all’attuale crisi economica: cesarismo e democrazia, destra e sinistra, Partito Democratico. E avverto subito che, al di là di molte affermazioni analiticamente sostenibili contenute in questo articolo, concludo con una tesi politica di cui sono convinto, ma sulla quale c’è disaccordo nel comitato direttivo di questa rivista: che la prosecuzione dopo le elezioni di un governo Monti potrebbe ancora fare bene al nostro Paese.
Cesarismo e vocazione politica
La situazione attuale del sistema politico italiano, l’incapacità dei partiti di prospettare al Paese una via d’uscita dalla situazione di asfissia economica in cui la nostra economia si trova, nonché riforme costituzionali e istituzionali idonee a ripristinare l’autorevolezza e l’efficacia decisionale della politica, creano una situazione che potrebbe favorire l’affermarsi di un capo carismatico, di un soggetto che, attraverso l’appello diretto al popolo, ridefinisce l’agenda politica, spezza la continuità del precedente ordine costituzionale e colloca il Paese in un nuovo corso. Siccome la crisi dura da vent’anni, tentativi di questo tipo sono stati fatti e i nomi li conosciamo tutti: Bossi, Berlusconi e oggi a suo modo si prepara Grillo. I primi due una soluzione almeno la proponevano: la secessione e un programma liberistico. Il terzo non si capisce che cosa proponga, se non l’eliminazione del ceto politico oggi al potere. La modestia e l’insostenibilità delle proposte politiche di Bossi e Berlusconi si manifestò rapidamente, poiché la secessione non la voleva neppure il Nord e il Paese rifiutava un programma liberista puro e le sue necessarie durezze: Berlusconi non aveva certo la convinzione politica e l’autorità morale per insistere su un programma che alla sua “gente” non piaceva. Il fallimento di questi primi tentativi populistico-cesaristici era inevitabile: la botte dà il vino che ha e dalla botte italiana non poteva scaturire De Gaulle, uno dei pochi casi in cui appello al popolo e forzature costituzionali produssero una grande riforma e poi una rapida transizione dal carisma all’istituzione, dal cesarismo alla democrazia dei partiti, nel frattempo profondamente trasformati dalla gabbia costituzionale che il generale francese gli aveva imposto. Uno dei pochi casi di cesarismo benefico.
Che cosa c’entra Mario Monti con i leader che ho appena menzionato e con tutti gli altri cui è appropriato attribuire il carattere di cesarismo? Barbara Spinelli sembra criticare il Monti di oggi per il suo cesarismo e ne vede un indizio nel suo rifiuto di sottoporre il suo programma ad una prova elettorale, a presentarsi come capo-partito. Ma tra cesarismo ed elezioni –quando la situazione di partenza è democratica e il leader non usa la forza militare per affermarsi- c’è un rapporto diretto, non inverso: un capo carismatico ha bisogno di conferme plebiscitarie. Monti potrebbe diventare un leader cesaristico proprio se accogliesse l’invito di Barbara Spinelli a presentarsi alle elezioni, se il suo programma come capo di un partito o di un movimento ottenesse un grande consenso elettorale e se, per attuarlo speditamente, riuscisse a far passare, de jure e/o de facto, una forzatura costituzionale di grande rilievo. No, oggi Monti è solo un tecnico “chiamato” alla politica in una situazione di emergenza nazionale. Di ciò molti si dispiacciono, pensando che la sua azione sarebbe più efficace se egli “discendesse” (o salisse) in politica: preconizzando un grande successo per il movimento da lui creato, già immaginano un Parlamento nel quale gli ostacoli alle riforme che intende attuare si ridurrebbero di molto.
Ma ciascuno è il giudice ultimo delle proprie capacità e l’autore del proprio destino. Monti non ha una vera vocazione, un vero Beruf weberiano, per la politica, che si compone sempre di due elementi: di una visione di come la società andrebbe trasformata e di una lotta instancabile e in prima persona per ottenere il consenso e le condizioni di forza necessarie alla sua trasformazione. Sul primo elemento egli ha molte e importanti convinzioni, che gli consentono, insieme al suo prestigio, di rispondere alla “chiamata”, e di questa risposta non possiamo che essergli grati. Il secondo non l’ha ancora manifestato e sinora si è affidato a coloro che lo “chiamano”. Un vero capo politico, sia cesaristico, sia rispettoso dell’ordine costituzionale preesistente, non aspetta “chiamate”. Oppure, se le circostanze lo inducono a partire da queste, rapidamente si sbarazza di coloro che l’hanno chiamato e agisce in proprio. Di questo intendimento, di questa profonda vocazione “politica”, neppure si vede l’ombra: per ora Monti pone l’insolito interrogativo se, in democrazia, si possa essere un vero statista senza essere un vero politico.
Ma c’è la possibilità (o addirittura il bisogno, qualcuno sosterrebbe) che si affermi nel nostro Paese un’esperienza politica con tratti cesaristici? La risposta a queste domande dipende dalla valutazione se l’ordine costituzionale in cui viviamo riuscirà a garantire una leadership politica in grado di affrontare i problemi che abbiamo di fronte. Detto altrimenti, dipende dalla valutazione se i partiti come li conosciamo riusciranno ad autoimporsi una disciplina –anche mediante una riforma costituzionale- che consenta al Paese di evitare ogni vent’anni il ricorso ad un governo di emergenza per rimediare i guasti dovuti alla loro incapacità di governare. Chi spera in questa possibilità, ed è giustamente preoccupato dei rischi che una vera avventura cesaristica comporta, afferma che essa non è necessaria per spianare la strada a un buon governo e così penso anch’io. Ma bisogna essere consapevoli, nella situazione in cui si trova oggi l’Italia, dell’estrema difficoltà del compito che si addossa al ceto politico del nostro Paese, un ceto che sinora non ha certo dato buona prova di sé, per usare un eufemismo che rasenta la menzogna.
I problemi che un buon governo deve affrontare
La crisi italiana sta dentro –e vi aggiunge del suo- alla più grave crisi di regolazione del capitalismo postbellico e alla concomitante crisi dell’Eurozona e della stessa Unione Europea; e quello che vi aggiunge di suo è in larga misura dovuto all’inettitudine e alla “vista corta” –avrebbe detto Tommaso Padoa Schioppa- del ceto politico del nostro paese, sia negli ultimi trent’anni della Prima Repubblica, sia nei venti della Seconda. Questa è una tesi che ho esposto molte volte, riassunto per sommi capi nel secondo capitolo del mio ultimo libro (Tre pezzi facili sull’Italia, Il Mulino, 2011) e, in relazione alla situazione politica odierna, riformulato nel fascicolo 2012/1 di questa rivista (Democrazia, buon governo e legge elettorale). Risulta dalla congiunzione della crisi di regolazione mondiale ed europea e della crisi italiana, nonché dalla difficoltà di rimediare a cinquant’anni di riforme mancate o incomplete –intervallate dagli affannosi tentativi di recupero dei governi tecnici- una prospettiva di ristagno di lungo periodo, di disoccupazione, di disagio sociale profondo. I politici che annunciano l’uscita dal tunnel l’anno prossimo o il successivo, o che si appellano a misure miracolistiche per accelerarla, mentono, ingannano o si auto-ingannano: dovrebbero preparare gli italiani ad una lunga traversata nel deserto e concentrarsi su proposte realistiche in merito ai temi sui quali dispongono capacità di governo. Senza ordine logico e pretesa di esaustività, e solo per dare un’idea, ne menziono alcuni che mi sembrano importanti.
Un tema è imminente e di periodo breve: come distribuire la comune penuria in modo più equo e come ridefinire il sistema di welfare in modo da metterlo in grado di affrontare vaste aree di povertà, di povertà vera, che inevitabilmente si dilateranno. Un tema è di lungo periodo: come rendere più efficiente e meno oneroso il sistema che fornisce servizi pubblici –dalle scuole agli ospedali, dalla polizia alla giustizia- e come stimolare una maggiore produttività nel settore privato: si tratta di riforme che inevitabilmente prendono molto tempo per andare ad effetto. Così come prenderà tempo una revisione delle procedure, delle regole, dei rapporti di lavoro da cui è disciplinata l’intera pubblica amministrazione, sia quella centrale sia, e soprattutto, quelle periferiche, il cui disegno costituzionale andrà probabilmente modificato. Sempre in merito al lungo periodo, il problema dei problemi: il Mezzogiorno. Le risorse sono scarse e le poche disponibili dovranno essere utilizzate per contrastare la povertà. Ma il Mezzogiorno non pone principalmente un problema di risorse, ma uno di disegno istituzionale: dopo gli esiti insoddisfacenti della Nuova Programmazione, l’ultima grande strategia adottata, che cosa resta da tentare? E, ancora, un tema di natura internazionale, ma che sta acquistando un peso sempre maggiore nel ridefinire la stessa politica interna, come ben mostra Grunberg in questo numero del Mulino, è l’Unione Europea: fermarsi o andare avanti? Altro tema: oggi è sotto gli occhi di tutti lo scandalo della corruzione. Bene se passerà in questa legislatura una legge decente, ma dobbiamo essere consapevoli che una singola legge non può risolvere il problema. Si impone infatti un indirizzo politico prioritario, che i governi dovrebbero sostenere per un periodo molto lungo, e senza variazioni di rilievo a seconda del loro colore politico: solo in questo caso, in altri Paesi, la corruzione è stata ridotta in modo significativo. Lasciando poi da parte i costi della politica –dovrebbe essere nell’interesse dei partiti ridurli drasticamente, se vogliono sopravvivere- veniamo all’ultimo tema, alla massima prova per il ceto politico: quella di disegnare un sistema costituzionale, istituzionale ed elettorale capace di tener insieme l’esigenza di rappresentanza e quella di governabilità. Un buon regime democratico deve soddisfarle entrambe, o raggiungere tra di esse un decente compromesso, se vuole sopravvivere nelle difficili condizioni che ho appena descritto. Nel caso italiano è un compromesso che sembra impossibile raggiungere: l’ultimo tentativo serio di “completare la transizione”, come si diceva in tempi che oggi ci sembrano lontani –la bicamerale di D’Alema- è finito come tutti sanno e la sola idea di tentare di nuovo lascia increduli gran parte dei politici.
Hic Rhodus. Se si vuole reagire ad una prospettiva di declino, ad un ristagno punteggiato da sporadici episodi di governo tecnico_-non risolutivi perché troppo brevi e rapidamente annullati dal ritorno alla cattiva politica-, se si vuole sradicare la minaccia di un vero tentativo cesaristico, questi sono i problemi ai quali la “politica normale”, quella di cui si auspica il ritorno dopo Mario Monti, deve affrontare e risolvere. C’è qualche possibilità che ci riesca? Il mio giudizio è negativo ed è per questo, insieme alla forte preoccupazione per la situazione economica in cui versiamo, che ritengo un governo Monti il minor male in cui possiamo incorrere dopo le prossime elezioni. Un minor male perché non mi faccio illusioni. Monti, se si realizzeranno le condizioni che descriverò più avanti, governerà ancora come “chiamato”, non come capo politico di una sua maggioranza. Poiché quella che lo sosterrà sarà una maggioranza molto eterogenea, egli avrà già il suo daffare a tenere in ordine i conti, a continuare su una rotta europea, a mediare tra le iniziative e i veti dei partiti. Ma non avrà il potere necessario ad affrontare in modo diretto e risoluto i problemi di riforma che ho prima ricordato, incancreniti e difficilissimi. Un potere che non ha avuto in questa legislatura per i contrasti tra i partiti che lo sostenevano e l’ostilità o lo scetticismo della dirigenza pubblica nei confronti di un animale politico così insolito –salvo che per la politica europea ed estera, il mio giudizio sul suo governo non è interamente positivo- e non avrà nella prossima.
Il minor male, dicevo. “Minore” è un aggettivo comparativo e dunque esige il confronto con possibili alternative. Quali sono? Per poterle scorgere limitiamoci ai partiti che hanno sinora sostenuto il governo Monti. L’Udc, o il gruppo centrista allargato che forse la sostituirà, non è un’alternativa, visto che è d’accordo con la “chiamata” di Monti dopo le elezioni: Casini è un antesignano che già auspicava un governo di emergenza nazionale un anno e mezzo prima che venisse di fatto costituito. Un governo di centrodestra è del tutto improbabile. Il Pdl è in un tale stato di crisi che, nonostante gli strepiti dei colonnelli di An, favorirebbe il ritorno di Monti al solo scopo di guadagnar tempo, ridefinire la propria identità e difendere all’interno di un governo “tecnico” le sue note posizioni. Al momento sembra irrealistico che Berlusconi voglia cedere a Casini la guida del centrodestra e scomparire definitivamente –le uniche condizioni da cui il leader Udc potrebbe farsi tentare- e in tal caso, comunque, si tornerebbe a Monti. L’unica alternativa realistica –se si danno le condizioni elettorali che vedremo in seguito- è un dunque un governo di centrosinistra, guidato dal segretario del Partito Democratico. Ed è questa che, se penso al bene del Paese, ritengo inferiore ad un governo Monti, pur indebolito dall’eterogenea maggioranza che lo sosterrebbe.
Il Partito democratico: una scelta tra destra e sinistra?
Ancor prima delle scomode alleanze che il PD di Bersani sarebbe indotto a fare per assicurarsi una maggioranza in Parlamento; ancor prima della inesistenza, tra i dirigenti di questo partito, di un rappresentante dell’Italia in Europa e nel mondo con un prestigio lontanamente paragonabile a quello di Monti (“volete licenziare Monti: siete pazzi?”); ancor prima di tutto questo il mio giudizio discende da una valutazione negativa della maturità ideologica del Partito Democratico, dell’analisi della crisi italiana che contribuisce a diffondere tra i suoi militanti, dalle prospettive future che preannuncia. L’alleanza con SEL non è dovuta a un puro calcolo elettorale, ma ad una affinità profonda: il Vendola-pensiero –meglio sarebbe dire il Vendola-sentire- è largamente diffuso tra i militanti e i dirigenti del PD. Fornire e diffondere la narrativa –storica, economica, ideologica- adeguata all’attuale situazione non era certo facile, ma doveva essere il grande compito del Partito Democratico, come partito di centrosinistra: è sul piano culturale e ideologico che si registra infatti il suo principale insuccesso. Assai prima della drammatica situazione di oggi, prima della crisi economica mondiale e delle sue ripercussioni aggravate in Italia, è dagli anni 90 del secolo scorso, dal collasso del regime sovietico e dalla crisi del PCI– dunque dalla caduta della conventio ad excludendum– che la sinistra avrebbe dovuto affrontare il compito di ridefinirsi come partito riformista, all’interno di un’economia capitalistica in via di globalizzazione. Destra e Sinistra sono polarità permanenti dello scontro politico democratico e il tempo in cui perderanno la capacità di orientarlo non è sicuramente all’orizzonte. Ma due importanti qualificazioni vanno aggiunte.
Destra e Sinistra sono categorie permanenti ma mutevoli: le politiche concrete che auspicano, se non le aspirazioni profonde che esprimono, sono cambiate nel tempo e sono diverse nello spazio, nei diversi Paesi democratici. In un saggio da poco pubblicato su questa rivista (Destra e sinistra: le radici della dicotomia e il caso italiano, 4/2012), dal primo 800 ad oggi identifico cinque grandi mutamenti, e, da questo dopoguerra, almeno due. Per limitarsi alla sola sinistra e al dopoguerra, abbiamo avuto la sinistra socialdemocratica dell’età dell’oro, nei primi trent’anni, e la sinistra nel contesto neoliberista degli ultimi trenta: due periodi nei quali i valori di fondo restano riconoscibili, se non immutati, ma obiettivi e strategie sono cambiati profondamente. E il mio giudizio è che il PD non ha modificato gli obiettivi e le strategie dell’età dell’oro, della grande fase socialdemocratica, in modo da adattarli alla fase della globalizzazione. Ma soprattutto non ha prodotto una interpretazione della società italiana e dei suoi problemi adeguata a sostenere un’agenda di riforma efficace.
La seconda qualificazione è che, per categorie il cui asse fondamentale –vado di fretta- è costituito da diversi orientamenti circa l’eguaglianza tra individui all’interno di una data comunità politica, non è facile affrontare dilemmi politici importanti, ma lontani da quell’asse. Che criteri forniscono le nostre categorie quando i conflitti sono soprattutto identitari o comunitari: nazionali, regionali, etnici, religiosi? O quando riguardano problemi ambientali ed ecologici? O quando si tratta di reagire a mutamenti epocali nel contesto internazionale, contro i quali la sinistra e la democrazia nazionali (la democrazia è ancora un fenomeno nazionale) possono fare assai poco? Scendendo di livello e pensando a problemi strettamente nazionali: c’è qualche ragione profonda per cui la destra dovrebbe essere meno severa ed efficace della sinistra nel reprimere la corruzione? O meno capace di diffondere una cultura di onestà e civismo? No, ragioni di principio non ci sono, tant’è vero che in paesi civili tra destra e sinistra non c’è differenza su questi temi e, di fatto, le più efficaci lotte contro la corruzione le hanno condotte altrove governi di destra. Le ragioni per cui la destra non si impegna da noi in una lotta senza quartiere alla corruzione (e anche la sinistra zoppica) le conosciamo tutti: esse sono, diciamo così, tutte nostrane, dovute in parte all’esperienza recente dei governi Berlusconi, ma soprattutto ad un’eredità antica di debole civismo.
Quando Barbara Spinelli, nell’articolo che mi ha fornito lo spunto iniziale di questo saggio, legge in una frase di Mario Monti (“la classica distinzione destra/sinistra va sostituita da quella tra evasori e non evasori”) una sua estraneità dalla politica, credo che si sbagli. Destra e sinistra restano importanti, ma è vero che quelle due categorie dicono poco su un problema per noi cruciale come quello dell’evasione fiscale. Se il lettore torna indietro ai temi che ho indicato come importanti per un risanamento del nostro Paese, può facilmente rendersi conto che solo nel primo –un problema di distribuzione del reddito- siamo chiaramente nell’ambito di applicazione delle nostre due categorie, mentre per gli altri –problemi di efficienza amministrativa, organizzazione della giustizia, produttività, disegno degli organi costituzionali, per non dire di quelli relativi alla politica internazionale e soprattutto all’Unione Europea…- è dubbio che esse abbiano qualcosa da dire in via di principio. Sono problemi che hanno più a che fare con la costruzione di un paese onesto, civile ed efficiente a partire da una eredità storica infelice, e con la definizione del suo ruolo in un contesto europeo e internazionale, che con la distribuzione del reddito e le pari opportunità di tutti i cittadini.
Poi, naturalmente, qualsiasi decisione si prenda in merito, essa può avere ripercussioni sulla distribuzione dei “beni sociali primari”, direbbe Rawls, e dunque può essere diversamente valutata da destra o da sinistra: decisioni di questo tipo Monti ne ha prese parecchie in quest’anno e dovrà prenderne ancor di più nei prossimi, se rimane al governo. Più in generale, e indipendentemente dall’asse Destra/Sinistra, nessuna decisione è soltanto “tecnica” o facilmente risolvibile alla luce di un ovvio “bene comune”: tutte sono controvertibili alla luce di diversi valori e interessi e di diverse previsioni sui loro effetti. E’ per questo che serve la politica democratica, il cui cattivo funzionamento ha aperto la strada a Monti: serve per ricondurre decisioni difficili alle scelte maggioritarie dei cittadini. Ed è per questo che anche a me piacerebbe che non ci fosse bisogno di Monti. Di un capo di governo che, credo più per le circostanze in cui si trova ad operare che per convinzione personale, tende a presentare ogni sua decisione come inevitabile e non ideologica. Ma è arrivato il momento di sostituire Monti con Bersani?
Nel lungo periodo in cui i politici di provenienza PCI e sinistra democristiana –il centrosinistra dell’Ulivo e poi del Partito Democratico- hanno impersonato la sinistra di governo del nostro Paese, il tema dell’adeguamento strategico del centrosinistra, di un partito riformista, alla fase storica in cui siamo entrati nel secondo trentennio postbellico, alla fase della globalizzazione a indirizzo neoliberista, sono stati più volte sollevati: verteva intorno ad essi lo sterile dibattito sulla Terza Via alla fine degli anni Novanta e, poco dopo, il conflitto interno al Pds-Ds tra le due prospettive di Partito Democratico e Partito Socialdemocratico (Cfr. M. Salvati, Alle origini del Partito Democratico, Mulino, 2003, e Il Partito Democratico per una rivoluzione liberale, Feltrinelli, 200…, che illustrano una di quelle prospettive). Ma sembra un destino di chi proviene dal Pci quello di essere in ritardo di una fase storica: erano comunisti quando la sinistra europea era socialdemocratica, il grosso di loro è “socialdemocratico” oggi, quando le grandi conquiste della socialdemocrazia sono state raggiunte e il problema è quello di difenderne in modo innovativo lo spirito e la sostanza in una fase storica profondamente diversa e molto più sfavorevole.
Ma i problemi non risolti ritornano with a vengeance, direbbero gli inglesi, inaspriti e confusi, in una situazione di crisi: al di là del conflitto generazionale, e se vogliamo misurare le attuali vicende con il metro della storia e non con quello del cameriere, di che altro si tratta nello scontro tra Bersani e Renzi se non della riemersione di una frattura mai composta, di una dualità che una sinistra lungimirante avrebbe dovuto ridurre facendo un discorso di verità al partito e rendendo egemone in esso, nei quadri e nei militanti, una narrativa più corrispondente alla difficile situazione nella quale ci troviamo? Alla domanda che mi sono rivolto più sopra rispondo allora così: no, purtroppo non è ancora arrivato il momento di sostituire Bersani a Monti. Purtroppo non siamo ancora pronti per una politica di cui questi nostri partiti siano attori senza tutela.
E ora?
In una rivista come la nostra, nella quale un articolo arriva nelle mani del lettore circa due mesi dopo di quando è stato scritto, è impossibile (e soprattutto inutile) fare previsioni sugli esiti del prossimo scontro elettorale. Raramente una previsione è stata più incerta di ora. Incerto è soprattutto con quale legge elettorale si andrà a votare, se con il Porcello maggioritario o con un Porcellino proporzionale: siccome le strategie dei partiti dipendono in modo essenziale dalla legge elettorale, questa incertezza di fondo si riflette su di esse e sulle loro possibilità di successo. Al momento il centrodestra è in crisi profonda, ma non è escluso, anche se è improbabile, che questa situazione si possa ribaltare. E al momento il centrosinistra è dato in vantaggio. Ma si tratta di un vantaggio che potrebbe dissolversi, perché l’attuale posizione del suo segretario –di sostenitore del governo Monti e però critico della sua agenda- potrebbe essere messa in seria difficoltà da un abile leader di centro o centrodestra.
Di qui l’importanza delle primarie, che, risolti gli ultimi ostacoli procedurali, dovrebbero tenersi fra non molto e probabilmente si saranno già tenute quando questa rivista sarà nelle mani dei lettori. Per quanto riguarda i problemi di cui abbiamo sinora discusso, entrambi i principali candidati sono contrari ad un nuovo governo Monti anche se, nel merito politico (e dunque, probabilmente nella strategia delle alleanze) essi sembrano avere idee piuttosto diverse. Per condurre la scelta sul piano più razionale possibile, per spazzar via giudizi superficiali e personalistici, per costringere i candidati ad un esame severo e incrociato delle loro proposte, questo sarebbe stato il caso di un congresso vero, non di una primaria. Tanto più perché, se passerà una legge elettorale di tipo proporzionale, è assai improbabile che il candidato vittorioso potrà aspirare alla presidenza del consiglio. Che dovrebbe essere il vero scopo di una elezione primaria.
Due scenari, dunque. Se non passerà alcuna riforma elettorale e si andrà a votare col Porcello maggioritario, i principali schieramenti, per guadagnare il premio elettorale, saranno indotti a raschiare il fondo del proprio barile e non è escluso- se i sondaggi mettessero in dubbio la prevalenza dello schieramento di centrosinistra- che il PD, oltre che con Vendola, si allei anche con Di Pietro. Se centro e destra non riescono a stringere un’alleanza credibile a dominanza centrista, la vittoria potrebbe allora arridere alla coalizione di centrosinistra, a dominanza di sinistra, nel caso che Bersani prevalga nelle primarie. E ammesso che il voto per Camera e Senato conduca allo stesso esito. Se invece passa un Porcellino proporzionale, l’esito più probabile è che non prevalga alcuno dei grandi schieramenti e lo stallo produca una nuova Grosse Koalitionall’italiana e una nuova “chiamata” di Mario Monti. Giudichi il lettore quale di questi due scenari gli sembra il migliore alla luce dei problemi di governo prima ricordati. O meglio, il meno peggiore.