Il libro ripercorre l’itinerario di Ernesto Balducci, lo stesso itinerario, sempre quello, a partire da quattro punti di osservazione: la sua predicazione dagli anni cinquanta alla morte; la dimensione della Laicità e profezia, dagli anni cinquanta alla morte; lo svolgimento del suo umanesimo planetario dagli anni cinquanta alla morte, la storia della biblioteca di Balducci dagli anni cinquanta alla morte. Un’unica vita e quattro piste di ricerca che si scandiscono in qualche modo con gli stessi ritmi: gli anni cinquanta, il Concilio, la crisi del Concilio, l’uomo planetario.
1. leggi il testo dell’introduzione di Giuseppe Trotta
2. leggi la trascrizione della relazione di Luciano Martini
Testo dell’introduzione di Giuseppe Trotta a Luciano Martini
Come ha spiegato Giovanni Bianchi, il corso di quest’anno ha un titolo un po’ strano e per qualche verso paradossale: le contraddizioni della speranza. Cosa vuol dire? Che non è semplice, non è facile sperare.
Non è vero che la speranza è l’ultima a morire. Ci sono momenti in cui sembra assurda. Sperare fa cadere in contraddizione rispetto all’evidenza di un’esperienza. L’esperienza, la nostra esperienza, a volte, contraddice la speranza e la speranza contraddice se stessa. Interroga, si, il reale, ma in modo retorico, sbagliato. Ci sono realtà senza speranza. E che senso ha allora sperare? Continuare a sperare non può essere diventato una sorta di tic? Un atteggiamento? Per chi viene dalla fede cristiana sa che la speranza non è una virtù cardinale (prudenza, fortezza, giustizia, temperanza), ma teologale. Sperare insomma per un cristiano, è un compito della fede che oltrepassa ogni ragione, ogni dato. La speranza è espressione interore della fede, della sua assurdità o della sua follia.
Iniziare questo corso di formazione parlando di Ernesto Balducci e sopratutto con l’autore di questo libro su di lui, è veramente iniziare con il passo giusto. Forse poche persone come Balducci hanno rappresentato e vissuto le contraddizioni della speranza. La vicenda di Balducci è quest’íncessante rincorrersi di attese e delusioni, in quest’incessante ripartire, scommettendo sempre sul primato del possibile sul reale. Uomo dell’esodo, dice Luciano Martini.
All’inizio del libro, Luciano Martini, ci racconta la sua storia, il suo rapporto con Balducci, la sua amicizia con lui, la riflessione, la critica, l’adesione e la distanza. Insomma ci parla di un racconto serrato con il prete dell’Amiata. L’autore di questo libro è stato interlocutore attento, partecipe, critico di una vicenda umana ed ecclesiale.
Non dimentichiamo che l’unica autobiografia di Balducci, Il cerchio si chiude, la si deve proprio a Martini. Ed è il racconto ancora oggi più completo della sua vicenda umana, nonostante la recente biografia della Camaiani, uscita per la Laterza. Questo libro, laicità nella profezia, io consiglierei di leggerlo prima e dopo la lunga intervista: aiuta a capirla e quest’ultima aiuta, a sua volta, a capire il volume di Martini nel percorso complesso dei suoi saggi.
Ma devo ringraziare Luciano Martini anche per un altro motivo. Ho sempre avuto molta difficoltà a leggere Balducci. Spesso non sono riuscito ad andare oltre qualche decina di pagine, vuoi, a volte, per la ridondanza dello stile, vuoi per la distanza problematica, vuoi per ignoranza e settarismo culturale, che non mi consentivamo di leggere ed apprezzare la profondità di un pensiero e di una vicenda. Devo a Luciano Martini quest’opportunità.
E’ attraverso le sue riflessioni, sempre critiche e problematiche (non tutte raccolte in questo volume) che ho cominciato a percepire la complessità del personaggio, le sue contraddizioni, le sue tensioni irrisolte, la sua fedeltà di fondo, ma anche la sua fragilità. Insomma a farmi sentire la vicenda di Balducci come una vicenda per tanti versi vicina. Da solo non ci sarei riuscito.
C’è un altro motivo per cui è stato bene iniziare questo corso attraverso il racconto e la riflessione di Ernesto Balducci. La sua è una figura emblematica di una vicenda che ha coinvolto moltissimi di noi. Potrei dire la stessa cosa di Turoldo. Balducci presenta un profilo di pensiero più compatto, più determinato, più esplicito. Nell’esperienza di Balducci possono riconoscersi migliaia di percorsi di gente della mia età, di qualche anno di meno e di qualche anno di più. Egli rappresenta, insomma, il sunto di una generazione ecclesiale, ormai adulta negli anni cinquanta, che ha attraversato il Concilio da protagonista, che ha vissuto la sua crisi, che si è spinta oltre il ritorno ecclesiocentrico in atto, esplorando altri mondi, altri percorsi. Per usare una parola cara a Balducci: osando l’inedito. La vicenda di Balducci è la vicenda di molti di noi. La sua rivista,testimonianze, di cui Martini stesso è stato per alcuni anni tra i protagonisti, è come poche nella nostra memoria. Un filo che abbiamo tutti incrociato, chi più che meno.. Ripercorrere questa storia è come fare un bilancio della nostra memoria, di noi stessi, a quaranta anni dal Concilio, in un’avventura umana ed ecclesiale per molti versi inquietante e piena di lacerazioni.
Fatte queste premesse veniamo al volume. Dico subito che è un volume a spirale. Cosa voglio dire? Il libro ripercorre l’itinerario di Ernesto Balducci, lo stesso itinerario, sempre quello, a partire da quattro punti di osservazione: la sua predicazione dagli anni cinquanta alla morte; la dimensione della Laicità e profezia, dagli anni cinquanta alla morte; lo svolgimento del suo umanesimo planetario dagli anni cinquanta alla morte, la storia della biblioteca di Balducci dagli anni cinquanta alla morte. Un’unica vita e quattro piste di ricerca che si scandiscono in qualche modo con gli stessi ritmi: gli anni cinquanta, il Concilio, la crisi del Concilio, l’uomo planetario. Questa struttura, per cui finita una vicenda, essa riprende da un altro punto di vista, e così ancora, rende avvincente la lettura.. E’ come approfondire in continuazione lo stesso percorso e alla fine traguardarlo insieme da sfaccettature diverse, con uno sguardo complesso che ne esalta la profondità, le sconnessioni, i rimandi, il movimento.
Non sta ovviamente a questa breve introduzione riassumere un testo così complesso per la struttura che vi ho illustrato. Vorrei solo tentare una sorta di mappa di problemi, almeno per quelli che sono riuscito a capire. Vi assicuro che non è un segno di umiltà mia, ma la dichiarazione preventiva di una certa mia incapacità di calarmi empaticamente nel personaggio (ne ho molta di più con l’autore del volume) a mettermi in sintonia, a sentire la sua problematica.
Io partirei dal titolo del libro. E’ vero, è una frase di Balducci che poi riporterò per intero. E’ un titolo complicato: la laicità nella profezia. Cultura e fede in Ernesto Balducci. Lasciamo il sottotitolo, che è evidente e in qualche modo scontato. Perché laicità nella profezia? Voi avete letto il titolo del depliantino, che è sbagliato: si parla di laicità e profezia in Ernesto Balducci. Martini me lo aveva dettato esatto. Io l’ho interpretato male. Nella vulgata di tutti i giorni parliamo di laicità e profezia. Martini vuole sottolineare, invece, che la vicenda di Balducci si riassume nel pensare laicamente la profezia. La sua è una profezia laica. Ci troviamo così, solo leggendo la copertina, buttati in un problema, anzi nel problema, forse la chiave di lettura più interiore del volume.
Ma cosa vuol, dire laico? Laicità? Io partirei da questa domanda che non ci è nuova. L’anno scorso, o due anni fa, abbiamo incontrato, sempre in questa sala, padre Pio Parisi a proposito di fede e politica. E anche lì, la parola chiave, la parola esplosiva era laicità.. Ebbene, se non leggo male, Pio parlava della laicità in un modo esattamente opposto rispetto a quello in cui nel parla Balducci. La dimensione della laicità di Pio nasceva dal cuore della fede, ne era interiormente animata, strutturata. Non si dà laicità che nella fede. Ciò ribalta di 180 gradi il senso di questa parola. In Balducci il termine laicità indica l’oltrepassamento della dimensione religiosa, indica, dome dice Martini, un vero e proprio esodo dal recinto religioso. In fondo tutto il libro di Luciano Martini è la descrizione di questo oltrepassamento. Balducci negli anni cinquanta utilizza le armi classiche dell’apologetica cattolica, certo in modo avvertito, culturalmente aggiornato: la fede è il paradosso di Kierkegaard, l’esistenzialismo ecc. Non dimentichiamo che Balducci si era laureato con una tesi su Fogazzaro con Attilio Momigliano. Poi dagli anni sessanta vive la grande stagione del Concilio: la Chiesa come “popolo di Dio”, la Chiesa come capace di un rinnovamento del mondo e non solo di se stessa. La Chiesa che sa pronunciare, sull’esempio di Giovanni XXIII, le parole profetiche. E’ il momento in cui è enfatizzato il ruolo ecclesiale, comunitario.
Poi negli anni settanta la crisi. Le chiese gli appaiono sempre più ripiegate su se stesse. Diventano una sorta di prigione della speranza. Bisogna andare oltre. E’ la famosa svolta antropologica.
Non ne parlo, ovviamente, in termini generali, ma in riferimento alla peculiare iniziativa di Balducci. Al centro è l’uomo. La fede ha in un certo senso la stessa funzione che aveva nella filosofia kantiana il noumeno: esprimere l’interminabilità dell’uomo, la sua incessante trascendenza. Non un trasumanare, ma un trascendersi incessantemente.
Io credo che vada vista nella sua radicalità questa scelta che fa Balducci per superare la crisi del Concilio, il ripiegamento delle chiese, il ritorno della dimensione gerarchica ed istituzionale che schiaccia e soffoca quella profetica. Superare il recinto delle chiese e del religioso.
Scrive Martini: “ Egli era ormai pervenuto alla convinzione che la figura storica del cattolicesimo avrebbe dovuto in un certo senso morire, per potersi profondamente rigenerare, insieme alla più globale e necessaria rigenerazione che ormai si impone a tutta la civiltà occidentale” (15)
Svolta antropologica. La fede ha al suo centro l’uomo, la speranza umana di evadere dall’ingiustizia, dalla violenza, dall’oppressione. Ernest Bloch e il marxismo critico, oltre alla teologia della speranza: sono le nuove letture di Balducci, il nuovo carburante che mette nel suo pensiero per realizzare questo oltrepassamento. Luciamo Martini lo dice bene: più che un’alimentazione teologica, la sua è un’alimentazione culturale, antropologica (Ernesto de Martino). La fede è lo sfondo, essenziale, certo di una ricerca che ha altre parole.
Sentiamo Luciano Martini: “Così l’originario riferimento al vangelo continua ad avere un ruolo dominante, però più come fonte di ispirazione che come fonte di contenuti determinati, che invece Balducci ricerca attraverso criteri di analisi razionale della società e delle trasformazioni storiche, e delle tensioni utopiche che in esse si manifestano”.
Ecco allora che la parola laicità deborda dalla dimensione della fede per approdare nella dimensione dell’umano, di un cristianesimo anonimo, deistituzionalizzato, di una prassi di liberazione cui sono chiamati tutti gli uomini di buona volontà.
Racconta Martini, proprio nelle pagine iniziali del suo libro: “Un amico ha detto: quello di Balducci non è un itinerario mentis ad Deum, è un itinerario mentis ad hominem”(5). Non voglio con questo dire che siamo ad un superamento della fede. Martini giustamente contesta questa conclusione. Solo, che come ho detto, la fede diventa uno sfondo, un non detto importante, ma essenzialmente incapace di linguaggio. Balducci distingue nettamente fede e religione. La prima sopravvive alla seconda. Ma è proprio questa distinzione, il non percepirne i confini mai chiari e sempre drammatici, gli intrecci inestricabili, il lato forse più fragile della sua proposta.
Io credo che queste cose avrebbe detto a Balducci, molto probabilmente, un nostro grande amico, Edoardo Benvenuto, di cui abbiamo presentato sempre in questa sala, il volume Fede e ragione.
Ma andiamo avanti nell’analisi del titolo. Laicità nella profezia. La profezia di cui parla Balducci è una profezia laica. Non attiene al linguaggio della fede, ma al linguaggio dell’uomo come tale. In cosa consiste questa profezia laica? E’ l’uomo planetario.
Qui non posso che rimandare all’importante capitolo IV del libro che dissoda questa profezia dell’uomo planetario in due direzioni complementari: una storica, facendola emergere passo passo dalla biografica culturale di Balducci; l’altra sistematica, facendocene cogliere le articolazioni interne. Storia di un percorso e sistemazione teorica di una proposta.
Cito solo l’indice di quest’ultimo aspetto:
- il recupero e la valorizzazione di una memoria sommersa
- la costruzione di un ethos cosmopolitico planetario
- nuove forme della politica
- la critica delle culture religiose
Non starò a riassumere questi paragrafi mi accontento di riportare una lunga citazione di Balducci che riassume tutto il suo discorso:
L’uomo planetario non è di per sé antireligioso, solo che egli si confronta alle religioni dell’umanità come alla propria preistoria. Non è anticristiano, è post cristiano, così come è post buddista e post islamico. Situatosi sulla linea di frontiera egli si è voltato e si è messo di faccia alla religione che lo ha partorito. Non per rifiutarla, ma per costatarne i limiti in rapporto alla totalità umana di cui è ormai fatto responsabile. Rimanendo nell’ottica cristiana, mi domando: un evento del genere significa proprio eclisse e fine della fede?(180)
Sottolinea Luciano Martini come Balducci avesse ben presente che l’unificazione delle culture religiose non era una sintesi da costruire a tavolino. Era un processo lungo, irreversibile, che avrebbe visto stare insieme universalità del messaggio e pluralità delle singole memorie. E’ interessante notare a quali strumenti ricorresse Balducci per immaginare questa possibilità dell’uomo planetario. Sentiamolo:
Le categorie in cui si esprime l’esperienza religiosa sono proiezioni dell’inconscio individuale e collettivo che veicolano, sotto le spoglie della verità intangibile, interessi costituiti….. E’ qui che prende preciso profilo la differenza tra religione e fede: la religione è l’universo simbolico in quanto è immanente un sistema culturale, la fede è il trascendimento di quell’universo nelle zone silenziose in cui abita il polo assoluto che chiamiamo Dio. La religione scrive il nome di Dio, la fede lo cancella. Dinanzi all’occhio rigoroso della fede, Dio non è che il simbolo di Dio. La classica disputa tra atei e credenti è un capitolo della storia delle ideologie per la posta in gioco non era propriamente Dio, ma il suo simbolo iscritto dentro il sistema sociopolitico degli interessi organizzati.. Come dire, dunque, che ogni autentica fede è atea e l’ateismo, se si basa sull’affermazione d’un interesse supremo, è religioso.
E’ evidente che in questo discorso la figura di Cristo fa parte di quell’uso ironico del mito di cui parla sempre Balducci. E’ una domanda che pongo a Luciano Martini e che pongo anche a Salvatore Natoli.
Io credo che discorsi analoghi abbiamo sentito nei nostri corsi di formazione. Mi riferisco, per esempio, all’incontro con Pier Cesare Bori su Per un consenso etico tra culture. Eppure anche qui io vedo una differenza sostanziale. La convergenza etica nel discorso di Bori nasceva dal lavorio delle tradizioni, era una tensione incessante, mai un fatto compiuto. Non c’era questa frattura tra religione e fede, per cui incessantemente la fede è una evadere dalla forma del religioso. La fede era impastata nella forma del religioso e proprio per questo gli consentiva una lavoro di lunga lena per trovare una accordo di fondo sui grandi temi etici della storia umana: la pace, il rispetto dell’altro, il rispetto della natura. In Balducci l’uomo planetario è oltre questo lavorio delle tradizioni religiose, è una proposta filosofico culturale, certo non compiuta, ma compibile. Rappresentabile. In questa direzione si è mossa almeno la sua attività fino alla morte improvvisa.
Io finisco qui questa presentazione del libro. Luciano Martini, che è qui con noi, che lo ha scritto e che ha conosciuto bene Balducci, ci racconterà qualcosa di più delle mie impressioni. Volevo però prima di lasciargli la parola fargli alcune domande su aspetti che mi hanno particolarmente incuriosito della sua ricostruzione storica.
Una prima osservazione riguarda una paragrafo intrigante del terzo capitolo: Profezia e apocalittica nella cultura cattolica fiorentina del secondo dopoguerra. Insomma il cattolicesimo fiorentino dagli anni che vanno dal 1940 al 1950. Qui appaiono due parole che indicano strade diverse per approccio alla modernità: profezia ( o escatologia) e apocalittica. Non so perché, ma ritengo che questo decennio fiorentino abbia con sé qualcosa di nascosto, di non ancora scandagliato: la figura dell’ultimo Papini con quelle lettere di Celestino V, la figura di Tartaglia, quella del giovane Sergio Quinzio che collabora all’Ultima, quella di Cristina Campo, quella di La Pira, di Barsotti, quella dello stesso Balducci e di Turoldo a Firenze. Perché Milani nasce lì. Siamo come dentro a una fornace in cui si mescolano lave incandescenti che avranno esiti diversissimi. Un filone è certamente quello profetico. La ridondante figura di Papini non deve farci dimenticare gli esisti imprevisti dell’avventura modernista che non vivono solo nel volto di Ferdinando Tartaglia. E’ il vomere della profezia che solca la storia e la feconda. In fondo l’approdo di Balducci ha alle spalle il sogno di Buonaiuti: un cristianesimo che feconda la storia fino a dissiparsi.
L’altro filone è quello apocalittico. Ancora Tartaglia, ma sopratutto Quinzio, che in questi anni scrive il suo Diario profetico. Qui non c’è un vomere che feconda, ma un rasoio che recide. Non si feconda la storia, se ne attende la fine. Nessuna escatologia presente o futura.
La seconda osservazione riguarda La Pira. Balducci è stato a suo modo un allievo di La Pira. Per alcuni versi ne mutua perfino il linguaggio. La Pira parlava di un crinale apocalittico della storia. La sua speranza era pura speranza teologale. Se Cristo è risorto, ed è risorto (chi ne può dubitare?) questa resurrezione ha una rilevanza interiore sul piano della storia. Il suo era il sentiero di Isaia. Ma proprio perché tutto era appeso alla resurrezione in un mondo che non ne percepiva neppure l’eco, egli, come diceva Baget Bozzo, quando ancora pensava, poteva esprimersi solo nella forma del clown, del buffone. Fare ridere mentre dicevano cose essenziali. Dopo la risata qualcosa rimaneva. Di sconcertante. Era scoccata una parola imprevedibile. Impossibile. In La Pira il tema apocalittico è alimentato incessantemente dal linguaggio religioso. Starei per dire mariano. Mai, nessuna svolta antropologica. C’è in lui spesso la fragranza dello stupore del linguaggio biblico che si affaccia sulla storia e la vede, la sogna. Messaggio e parola coincidono. La Pira è tutto dentro il linguaggio religioso. La sua laicità è tutta interna alla sua confessione di fede.
Balducci abbandona questa linguaggio di La Pira. Non dico che lo oltrepassa, perché a me non sembra un oltrepassamento. Prende una direzione diversa. Ecco, anche su questo, mi piacerebbe sentire qualcosa da Luciano Martini che ha fatto in tempo, credo, anche a conoscere l’ultimo La Pira.
Quando incontro Luciano Martini vorrei che mi studiasse tante cose della sua amata Firenze. Tanto più ora, dopo avere letto le belle pagine di questo libro
Trascrizione della relazione di Luciano Martini
I pubblici balducciani
Prima dei ringraziamenti vorrei dire una cosa, quello che dicevano un tempo i corridori ciclisti (ora si sono messi a dire altre cose): sono contento di essere arrivato primo, sono contento di essere qui. Questa è la prima presentazione del libro. Il libro è uscito alla fine di dicembre a Firenze, ma nelle altre librerie italiane, ammesso che mai esca, non c’è, perché “Storia e Letteratura” è una bellissima Casa Editrice, ma la distribuzione è faticosa, anche se mi dicono, e io lo spero vivamente, che oggi hanno perfezionato il sistema. Sono contento che avvenga in una sede come questa, non solo per la simpatia che provo verso amici storici come Giovanni e Pino, ma anche per un’altra cosa. Voi sapete che gli autori scrivono i libri e poi si devono occupare della gestione della presentazione.
Se penso alla presentazione del mio libro, mi vengono in mente tre tipi di pubblici. Un pubblico accademico, lo dico tra virgolette, posto che n’esistano di specificatamente tali; un pubblico “balducciano”, che ha apprezzato il mio libro, ma che alla fine Balducci più o meno lo sa chi è stato e, magari, se lo immagina in un certo modo ed è difficile che poi un libro gli cambi l’immagine; un pubblico in ricerca di alcune ipotesi di lavoro, che ripensa e non si distacca dal proprio passato, dalla propria tradizione. Quest’ultimo pubblico probabilmente Balducci ha visto e conosciuto, ma non ha mai, oltre un certo limite (salvo alcune persone, per carità, che lo hanno capito meglio di me) avuto modo di vedere la complessità della figura. Un pubblico come questo che mi immagino voi siate e come Pino Trotta me lo ha descritto prima, è il pubblico che mi interessa di più.
Ringrazio Giovanni del modo in cui ha collocato la figura di Balducci. Tra Balducci e Giovanni, lo confermo, c’era una lunga relazione, c’è stata negli anni della mia direzione di Testimonianze, c’è l’esperienza di Balducci qui a Milano, a Sesto S. Giovanni… Dico che quello che Giovanni ha detto di sé e Balducci è poco in confronto allo spessore di quello che è stato.
In una lunga consuetudine
Allora io riprendo un po’ alcune cose che Trotta ha detto. Ha accennato a come questo libro non è il frutto di una ricerca fatta a freddo. Io mi sono trovato davanti a due ipotesi. Avevo scritto, per occasioni, avendo avuto la storia che ho avuto con Balducci, sono stato chiamato, qua e là, a parlare di lui sotto varie angolature e con vari profili. Potevo quindi riscrivere il libro mettendo in ordine i temi. Oppure pubblicare i saggi così come erano. Non ho seguito né l’una, né l’altra strada. Questo libro, oltre che essere figlio della mia fantasia e delle occasioni in cui mi è capitato di scriverlo, è anche figlio del computer, nel senso che il computer, specialmente rispetto alla mia pigrizia che ben conosce Pino, mi ha permesso di fare alcune cose che altrimenti non avrei potuto fare: inserire, tagliare, incollare e riscrivere. Riscrivere nel tempo: c’è una stratificazione interiore nel tempo e c’è una stratificazione permessa dal computer. Credo che questo non sarebbe dispiaciuto a Balducci perché era uomo che diffidava delle ideologie e della tecnica, ma amava la tecnologia come possibilità dell’uomo. Semmai su questo ritornerò.
Di qui questa costruzione a spirale del volume che Pino ha capito benissimo, ha illustrato e su cui io non ci sto a tornar sopra. Potrei dire del discorso che Pino ha fatto qualcosa che diceva Balducci quando lo intervistavo all’epoca dell’uomo “del cerchio che si chiude”. Diceva: “ma tu mi riveli a me stesso”. Ecco, un pò Pino ha rivelato anche a me stesso, ha reso più chiaro qualcosa che ho fatto.
Ecco, il titolo. Anche questo titolo è frutto per l’appunto di questo processo di stratificazione e maturazione. Da che cosa nasce? Nasce da un Convegno in cui mi fu chiesta una relazione e un intervento sul tema della “profezia”, fatto alla Fondazione Pellegrino sotto la guida e la responsabilità di Giovanni Filoramo, uno studioso tra i più seri, di maggiore spessore in Italia di Storia del Cristianesimo primitivo, ma sopra tutto di Storia delle Religioni con grande attenzione anche alla religiosità contemporanea. E a me fu appunto affidato un discorso su Balducci che io, in prima battuta, come noi facevamo allora, intitolai “La profezia laica di Ernesto Balducci”.Poi nella prima stesura, quella apparsa negli Annali dell’Istituto di Trento, era appunto “La profezia laica di Ernesto Balducci”. Riscrivendo questo capitolo, ampliandolo, modificandolo, ecc. mi sono imbattuto in una frase che avevo provocato io nella mia intervista. L’ho riscoperta per così dire.Questo libro è stato per me anche un’occasione di successive e, via via stratificate, riscoperte di aspetti della figura di Balducci. “Il mio, in fondo, così diceva, non è un itinerario alla laicità, come spesso mi capita di dire (ora cito a memoria ma più o meno il senso è questo) è piuttosto un’immersione della laicità nella profezia”. Allora questo mi ha dato una chiave di volta un po’ diversa, un esprimere meglio tutto quello che intendevo dire. Per cui qui forse un pochino di correzione, scusami Pino, alla tua lettura io la darei.
Solo razionalità laica?
In realtà uno degli scopi della mia lettura di Balducci era un po’ questo: Balducci per una serie di ragioni e per molte sue espressioni, talune delle quali le ha lette stasera Pino, aveva dato di sé e del suo messaggio una impressione di razionalità laica, di morte della fede. Devo dire che anche un uditorio che ascoltava le sue predicazioni, le sue conferenze, usciva molto spesso con questa impressione.
Balducci era anche suscitatore di emozioni contrastanti. Io, rileggendo e ripensando a questa figura, mi sono reso conto che era una figura a più strati, che si modificava in modo da apparire camaleontico, secondo i vari uditori. Ecco, alla fine lui aveva un forte uditorio laico, quasi portando a fasi molto avanzate la sua laicizzazione.
La svolta antropologica. Lui ne dava una lettura Feuerbach. Svolta di laicità, distinzione fra fede e religione, e via di seguito. Tutto portava a questa rarefazione della professione di fede. Questo certamente è un aspetto reale in Balducci e tuttavia … E su questo tuttavia io ho cercato di capire meglio, specialmente per quel che riguarda l’interpretazione del Balducci dell’ultima fase. Per ultima fase intendo gli anni che vanno dal 1982 al 1992, l’anno della sua morte. Insomma dalla fine degli anni ‘70. Mi sono reso conto che questa è un’interpretazione che rischia di essere riduttiva del pensiero e della figura di Balducci.
Una fedeltà ascetica
Intanto pensate ad una cosa. Balducci aveva una sua fedeltà di prete notevole, non solo per il modo con cui ha mantenuto e ha voluto mantenere, qualche volta in polemica, qualche volta con convinta dissidenza, la fedeltà ai suoi impegni ascetici (problema del celibato su cui aveva cambiato idea nel passato), ma sulla cui forza e sulle cui modalità non aveva cambiato idea. Lui ha mantenuto questa esplicita fedeltà. Lui non mancava nessuna domenica dal celebrare messa nella sua chiesa, anche a costo di percorrere centinaia di chilometri. La domenica è il tempo dell’Eucaristia con la comunità e la massima manifestazione della chiesa è la comunità. Naturalmente si possono dare di questo interpretazioni psicologiche, teologiche, umane; tuttavia, è un fatto che dice qualche cosa. Balducci non è un puro intellettuale che elabora delle cose e poi su quelle si attesta.
I limiti della ragione laica
Laicità della profezia. Lui ad un certo punto, in una critica che fa ai modelli di ragione dominante, intende andare oltre la strettoia della ragion laica. Parla di strettoie della ragion laica. Per attingere a che cosa e per ritrovare che cosa? La mistica e la profezia. Queste sono le due dimensioni dell’esperienza umana, una fondamentalmente religiosa, di cui Balducci cerca di recuperare la forza. Questa allora è la ragione del titolo. Cioè non tanto una correzione della laicità, ma un’animazione della laicità, un recupero pieno della dimensione laica ma, al tempo stesso, la constatazione di un’insufficienza radicale di molte sue versioni, specialmente le versioni di carattere connesse ad un modello di ragione strumentale di dominio tecnologico, ecc. Questa esigenza di dimensioni altre lui chiama “uomo inedito”, “uomo planetario”, “Dio nascosto”. C’è una coniugazione misteriosa e paradossale tra l’uomo nascosto ed il Dio nascosto che si rivelano, che si comprendono e alla fine si rivedono faccia a faccia. Ma dove? Nella storia o nell’escatologia? E in quale escatologia? Ecco questo è uno dei punti, sono d’accordo con Pino Trotta, che restano forse oscuri, non adeguatamente definiti, e così via.
Ma su questo vado ora un pochino a spirale anche nella mia presentazione.
Ho cercato di fare anche un’altra operazione. C’è una vulgata nella lettura del Balducci conosciuto che è di vario tipo. Anche qui sarebbe interessante rivedere e ripercorrere le varie generazioni di balducciani… Balducci era un uomo molto abile nel captare i fermenti culturali, le istanze culturali, le novità, le riproponeva, ma, alla fine, c’era un’eccedenza retorica. Egli non è trattato né da teologo, né da filosofo. Balducci è un poeta d’occasione. Sulle varie occasioni, sulle varie cause che sposava sapeva scrivere la grande poesia. Me ne sono convinto strada facendo. Forse per alcuni aspetti di Balducci questo libro è stato anche un modo di riscoprirne la figura.
Due cose mi paiono assodate. L’uomo è stato fedele non solo ai suoi impegni, alla sua misura spirituale, ma fedele alla sua impostazione culturale. Questo sarà possibile dimostrarlo meglio prossimamente, in cose successive a questo libro. C’è una continuità che lega la sua formazione di ventenne nel collegio degli scolopi a Monte Mario, dove stava negli anni dal 1939-40 e il 1944, al momento della sua professione. In Balducci già allora si modellano queste problematiche dell’umanesimo, da un lato, e del raffronto cristianesimo, fedi religiose e civiltà. C’è un rapporto con la storia che lo accompagna costantemente. E’ un’elaborazione dell‘attenzione alla centralità dell’uomo e alle istanze dell’uomo e al primato, in qualche misura, dell’antropologia o dell’impossibilità, direi meglio, di concepire una teologia fuori dalle immagini dell’autocoscienza, delle autopercezioni dell’umano. Ecco questa è una fedeltà costante, declinata in molti modi.
Trascendenza nell’immanenza: le grandi continuità
Pensiamo ad una frase che in sottofondo accompagna Balducci costantemente: la trascendenza nell’immanenza. Questa frase ha, negli anni del seminario, origine in una sua lettura semiclandestina di Blondel. Blondel ha filosofato tra la fine dell’800 ed i primi del 900 ed è stato interno alle polemiche del modernismo, riuscendo a sottrarsene. Blondel è stato il maestro di un’apologetica post-kantiana, di un’apologetica che non dimenticasse il primato dell’immanenza e della soggettività umana, ma dentro di quella recuperasse le dinamiche del trascendimento e della trascendenza. Questa influenza di Blondel lo accompagna fino agli anni ’50, poi si perde nel fiume di altri autori, di altri problemi. L’espressione “trascendenza nell’immanenza” riappare negli ultimi 15-20 anni, attribuita però ad altri autori, in modo particolare, per es., ad Ernest Bloch, autore della corrente calda del marxismo, uno dei più amati in questa fase storica, autore del libro “Ateismo nel cristianesimo”.
Il salto da Blondel a Bloch è notevole e tuttavia sono autori diversi, diversissimi ma che lo aiutano a rispondere in termini analoghi al declinarsi delle problematiche nel tempo storico con profondissime diversità. E’ indicazione di una modalità di fondo di essere, di vivere l’esperienza del cristianesimo che lo accompagna fin dai primi momenti. E se si vuole persino di una vera apologetica che costantemente attraversa Balducci.
Il mio tentativo è stato quello di riproporre un’organicità dell’itinerario di Balducci, anche organicità teorica. Ho cercato di far vedere come le stesse problematiche siano nel tempo declinate diversamente, ma abbiano dei nuclei di fondo comuni. Questo ho cercato di dire sommessamente, senza riferimenti polemici. Di Balducci, purtroppo, la pubblicistica si è occupata poco, proprio perché lo consideravano, nella migliore delle ipotesi, un divulgatore di pensieri altrui o un abile conferenziere propagatore di fermenti nati in altre realtà, per es. quella del Concilio. Un profeta, quello che sapeva prendere le posizioni giuste al momento giusto e via di seguito. Questo, evidentemente, io non lo nego, però sottolineo che c’è qualcosa di più. Questo qualcosa in più, se mi è riuscito a dirlo, ho cercato di proporlo all’attenzione di chi avrà la benevolenza di prestargliela.
Per questo io mi auguro di coinvolgere nella lettura di questo volume non solo gli storici della Chiesa, ma anche i filosofi, gli storici della cultura ecc.
Nelle contraddizioni, che poi sono state anche le contraddizioni del suo itinerario, le tensioni con cui egli si è dovuto anche misurare, Balducci c’è pienamente, con analisi che possono persuadere o meno, ma che tuttavia, restano di una vivissima attualità. Certo, in ciascun aspetto delle visioni balducciane, noi possiamo citare una bibliografia più lunga di quella che lui usava. Io ho fatto un saggio sulla biblioteca di Balducci: è interessante vedere come lui leggeva i libri. Non li leggeva in biblioteca, li leggeva in treno, li leggeva durante le vacanze, li leggeva sul prato, li leggeva alla sera dopo cena. Ci sono libri nei quali sono sottolineate quelle decine di pagine che gli servivano sul momento. In questo c’è, più che gli studi sistematici, la capacità captatrice che entra in gioco e, tuttavia, viene organizzata.
Vorrei tornare a riprendere alcuni momenti della vita di Balducci. Il primo, dicevo, è questo dei suoi diari. Di questo mi sono occupato meno nel libro. I diari sono in corso di pubblicazione. C’è una lunga introduzione e molto commento a cura di una giovane studiosa, Mariella Pogliano. Per altro, si terrà un Convegno proprio sui Diari di Balducci, alla Fondazione Pellegrino a Torino nell’ottobre prossimo. E lì mi è stato chiesto di parlare della sua cultura filosofica attraverso i Diari. Ora sarebbe lungo fare un discorso sui Diari. Emergono due cose. Emerge intanto una condizione ecclesiale estremamente angusta. L’uomo, fin dal primo momento, dai primi vagiti, come diceva la vecchia geografia, si dovette misurare con le difficoltà che lo accompagneranno per tutta la vita. Sono una sorta di Vangeli dell’infanzia. In che modo? L’uomo ha istanze culturali, prima di tipo letterario, poi, come del resto avevano molti scolopi del suo tempo o della sua tradizione, si voleva poeta. Poeta apostolo. Ad un certo punto, nel 42-43 questa prevalenza letteraria si trasformerà in una prevalenza filosofica, filosofico-spirituale. Ci sono presenze e assenze particolarmente significative. Tutto questo va contro le impostazioni programmatiche sia dei documenti ufficiali della Chiesa, sia proprio del Padre Righetti, che era il Padre Maestro e insieme Rettore dello Studentato. Allora gli impediscono di leggere, cercano di censurarlo, addirittura ritengono che non abbia la vocazione. Lui resiste, tiene duro, orgogliosamente duro, nel senso che lui stesso è consapevole del suo orgoglio, e va avanti, sia pure con estreme limitazioni e quindi anche con una notevole carenza di strumenti, per la sua strada.
Di lì veramente comincia l’Historia calamitatum, perché questo problema del suo rapporto con il suo Ordine e con la Chiesa ritornerà in vari momenti della sua vita. A queste cose io vi faccio cenno. Ne parla più diffusamente il libro di Bruna Bocchini Camaniani intitolato “Balducci, la Chiesa, la Modernità”, che è un profilo biografico di Balducci. Ha detto bene Pino Trotta, più biografico del mio in questo senso. Tra l’altro, noi due siamo anche colleghi e lavoriamo in stanze attigue all’Università di Firenze. Consideriamo i nostri due libri complementari. Per capire Balducci si legga l’uno e poi l’altro. “Il cerchio che si chiude” che rimane la madre di tutte le battaglie, su questo sono d’accordo con Pino.
La cosa interessante è la cultura filosofica che è elaborata con strumenti poverissimi: antologie scolastiche, cose trovate nella biblioteca dello studentato, libri che arrivavano. Mai edizioni critiche, edizioni integrali, il meglio delle possibilità editoriali. Ci sono scelte di una sintomaticità paurosa. Fare i conti con il modernismo. Evidentemente ancora negli anni ’40 nei seminari italiani c’era questo fantasma. Scrive in una nota del suo diario: “Ho paura di essere kantiano”. L’accusa di kantismo era una delle accuse dominanti nei confronti del modernismo. Il tentativo di uscire da questa strettoia, di uscire anche dalle strettoie delle teologie egemoni nei seminari, cioè quelle di carattere neo-scolastico, o addirittura scolastico, perché nemmeno la neo-scolastica era egemone nelle scuole romane.
Nei Diari non c’è mai un cenno alla cultura e a ciò che i suoi maestri gli dicevano nel corso del liceo. Ecco, è solo autoformazione, formazione autodidattica. Questa, tra l’altro è una specificità della tradizione fiorentina. Balducci guardava a Firenze come si guardava ad una specie di miraggio. Lui viene da Santa Fiora, da un paese vivo della Toscana i cui protagonisti erano allora i minatori. Va a Roma, mandato certo con l’aiuto di un avvocato di Santa Fiora, ma che stava a Firenze, un certo avvocato Bulgarini che conosceva bene Papini. Firenze era più un mito che un’esperienza in quella fase. Resta presente questo: che lui cercava da un lato di superare la strettoia kantiana, la chiamo io così, quella che lui percepiva come tale, anche perché questo glielo imponeva l’itinerario religioso, ma dall’altro anche la strettoia scolastica, l’intellettualismo.
E i suoi teologi-filosofi, i suoi maestri, i suoi santi… Lui aveva tre santi, come li chiamerà. S. Paolo, S. Agostino e S. Francesco. E guardate questa fedeltà a S. Francesco… Quello che gli aveva finanziato lo studentato, Bulgarini, ha una “Vita di S. Francesco” grossa così, che credo nessuno legga più o forse abbia mai letto. Tuttavia c’è, esiste. Uno dei libri più belli ed emblematici scritti alla fine della sua vita è la vita di S. Francesco, o meglio un ritratto di S. Francesco. Per dirvi la continuità della fedeltà balducciana.
Poi la lettura di Blondel, come abbiamo visto, dall’altro Croce e Gentile. Croce e Gentile proprio perché nella Storia, nell’Estetica e nell’analisi dello spirito rispondevano a quello che lui chiamava “la mia fame di immanenza”. Ancora la centralità della dimensione del soggetto e dell’immanenza di carattere antropologico. Non è un acquisto degli ultimi anni, ma è originaria in lui.
In una prima fase centrale è la cultura cattolica. E’ la “Teologie nouvelle” e incessante il bisogno di razionalità, di connettere costantemente le esigenze della soggettività, con un bisogno di razionalità, di evitare il puro soggettivismo sentimentale. Questa è un’istanza persistente in Balducci.
Se noi rileggiamo le omelie di Turoldo, io un po’ lo sto facendo, vediamo che anche quelle sono attraversate da un’istanza di razionalità maggiore di quella che non ci si aspettasse alle origini. D’altra parte anche Turoldo era di buoni studi filosofici perché aveva studiato all’Università Cattolica, si era laureato con Gustavo Bontadini che non è, come dire, un filosofo dell’emotività
In Balducci il tessuto ragionativo, retorico, ma anche di ragione retorica che sta dietro alle sue omelie è di una robustezza profondissima tanto che se voi prendete la bobina, la trascrizione e la pubblicazione di molti suoi testi, i passaggi di correzione sono minimi. Così, come si dice a Firenze, parlava come un libro stampato. Ma questa non è soltanto un’abilità, è un grande dominio dello strumento linguistico.
L’eclettismo balducciano
Altra sua caratteristica era quella di mettere insieme autori diversi: coniugare Blondel, Pascal e Maritain. Metterà insieme anche Balthasar e Teillard de Chardin. Balducci legge Theillard di notte, anche sui ciclostilati, ma legge anche Von Balthasar. Sono due autori che in modi completamente diversi gli comunicano il senso di una novità e di una strada da percorrere. Li mette assieme. Un eccletismo che però era consapevole delle contraddizioni cui andava incontro e che poi non aveva tempo di stringere sistematicamente in una sintesi organica con il lavoro che stava facendo. Non aveva tempo perché girava come una trottola.
Spendo gli ultimissimi minuti per cercare di intendermi con Pino, ma con tutti e anche con me stesso, su quest’ultima questione. Questo libro potrà sembrare a qualcuno mancare di istanza critica nei confronti di Balducci. Io ho cercato di fare un’opera per dirla con un termine latino di pietas nei confronti di Balducci. E’ un autore molto conosciuto, è stato molto frequentato, molto visto, da vicino o da lontano, udito, ecc., ma poco approfondito in queste sue dimensioni che io ho cercato ora di esprimere. Io ho voluto fare questa operazione, che qualcuno potrebbe giudicare descrittiva, ma che io dico di penetrazione del suo spirito: mostrare lo spirito per aprire poi le piste a una critica che sappia andare in profondità.
L’uomo planetario
Vorrei chiudere con qualche riflessione sull’uomo planetario. E’ certamente l’ultima risposta che lui da agli scacchi della speranza storica. C’è questa istanza che da un lato lo porta a dire che la storia così com’è non va bene perché porta alla catastrofe e l’umanità al suicidio (questa del resto è un’idea che aveva anche La Pira); la storia dovrebbe essere in un altro modo per l’uomo. Quest’altro modo è un’istanza che nasce da alcuni moti presenti nella storia ma che devono convergere verso una novità sostanziale che Balducci in una certa fase chiama “uomo planetario”. L’”uomo planetario” non è una caratterizzazione antropologica descrivibile, è piuttosto un’idea regolatrice in senso kantiano. In alcuni passaggi cerca di dargli contenuti empirici, di uscire dal formalismo. Qui il discorso si fa un po’ più complicato. Non ho tempo di illustrarlo. E’ l’uomo inedito, o il puer secondo anche un’accezione psicologica che derivava da Hillmann. L’uomo inedito è l’uomo che non ha espresso se stesso perché le culture, le esigenze della razionalità strumentale, le esigenze della civiltà hanno compresso questo tipo di possibilità, ma alla fine una diversa civiltà, un diverso salto, un diverso uso della ragione possono esprimere. Questo poter esprimere è un continuo oscillare tra l’utopia storicamente realizzabile e l’escatologia,. Si ha come l’impressione che c’è un costante oscillare tra l’esigenza della fine di una storia, ma di una certa storia, e la necessità di una storia completamente nuova che lui crede verificabile, che possa realizzarsi, ma di cui non dà i contenuti. Qui il discorso veramente resta incompiuto, incerto. E questo, intendiamoci bene, secondo me ridonda anche sulle analisi storicamente empiriche che Balducci proponeva, per es. le analisi del Cristianesimo e della Chiesa. Alla fine c’è una cristologia costantemente riemergente che non è soltanto una cristologia di un Cristo storico, messianico, di una messianicità storica, e quindi di una figura relativa, grandissima, ma relativa ad una certa cultura. E’ la cristologia della Resurrezione. Alla fine c’è in Balducci questo primato della cristologia Per cui la svolta antropologica, e si ritorna al punto di partenza, la laicità della profezia non può essere interpretata in senso feuerbachiano. Quella di Balducci è una teologia che non può non partire dalla risposta all’esigenza dell’uomo, del creato, della storia, in una visione sempre più dilatata, in cui cristologia e teologia, dimensioni superiori e dimensioni storiche, si fondono. Guai a pensare che la svolta antropologica sia una pura riduzione all’umano, o addirittura all’umano empirico. E’ vero che c’è un primato della specie, e tuttavia anche questo primato della specie è poi immerso in un primato della creazione. Tutto questo è più intuito, è più come dire tratto a disegnare a schizzo rapido, che non ad articolata riflessione.
Sono contento che qui ci sia Natoli. Non so quanto Natoli conoscesse Balducci e quanto lo abbia letto, ma in generale mi domando: le istanze con cui stanno misurandosi una serie di filosofi e teologi in questo momento, specialmente in Italia, ma anche in Francia, non sono per l’appunto questi problemi?