La questione della flessibilità è stata ed è tuttora uno degli argomenti principali del dibattito socio – politico, o almeno di quella parvenza di esso che viene praticata in Italia dove in genere si preferisce il monologo o l’ invettiva piuttosto che il ragionamento problematico e finalizzato ad una vera comprensione del bene comune. Questo perché il nostro scenario sociale e politico è vissuto come di riflesso ed interpretato secondo categorie di “vecchio” e di “nuovo” che sembrano aver sostituito la dicotomia giusto/ingiusto, utile/dannoso su cui si dovrebbe basare l’ analisi sociale.
1. leggi il testo dell’introduzione di Lorenzo Gaiani
2. leggi la trascrizione della relazione di Luciano Gallino
Testo dell’introduzione di Lorenzo Gaiani a Luciano Gallino
L’ uomo e la macchina.
La questione della flessibilità è stata ed è tuttora uno degli argomenti principali del dibattito socio – politico, o almeno di quella parvenza di esso che viene praticata in Italia dove in genere si preferisce il monologo o l’ invettiva piuttosto che il ragionamento problematico e finalizzato ad una vera comprensione del bene comune.
Questo perché il nostro scenario sociale e politico è vissuto come di riflesso ed interpretato secondo categorie di “vecchio” e di “nuovo” che sembrano aver sostituito la dicotomia giusto/ingiusto, utile/dannoso su cui si dovrebbe basare l’ analisi sociale. Pertanto la flessibilità del lavoro è il nuovo che avanza (quella famosa espressione che a Michele Serra ricordava più che altro un tramway su cui non aveva voglia di salire, ma che piuttosto desiderava scansare ) e, da strumento di razionalizzazione dei costi , è stata elevata a feticcio di una nuova era dell’ oro.
Con essa, altri due feticci – pilastro di quest’ epoca sono stati la Globalizzazione e la New Economy, adottate anche dai Governi di centrosinistra –soprattutto dopo l’ottobre 1998- come punti di riferimento ineludibili quasi essi bastassero per il solo fatto di essere enunciati a colmare il vuoto di un pensiero politico ed economico che non si riducesse all’adorazione dell’esistente. Venne persino varato un Sottosegretariato alla New Economy che, prima di essere affondato dalla crisi strutturale che ha colpito il settore informatico, ha trovato un autorevole concorrente nelle “tre i” berlusconiane, coronate dalla creazione di un Ministero dell’innovazione informatica a tutt’oggi altrettanto innocuo ed immobile del Sottosegretariato di cui sopra.
E tuttavia, ci dice Luciano Gallino, al di là dell’esaltazione ideologica e della rincorsa dei perdenti, la flessibilità esiste, ed è un motore potente della razionalizzazione neo capitalistica in corso, quella che si esercita attraverso scelte imprenditoriali ed economiche ben precise le quali vengono a configurare un modello di società, e fors’anche di civiltà per il tempo a venire.
Infatti, dice Gallino, di fronte al problema dell’incremento della produttività richiesto dall’aprirsi di nuovi mercati, cui farà poi seguito inevitabilmente una contrazione della domanda, un imprenditore può seguire la strada di un aumento delle ore lavorate con il ricorso agli straordinari, esigenza che verrà meno nel momento in cui la domanda calerà. Oppure, si può seguire la strategia di tenere una quota di forza di lavoro stabile relativamente ristretta ricorrendo a manodopera assunta con contratti precari e (per l’appunto) flessibili per tutta la durata del picco della domanda, salvo poi congedarla quando non più necessaria.
Al fondo, afferma Gallino, il nocciolo della questione della flessibilità è tutto qui, e si sostanzia nello scegliere una modalità di organizzazione imprenditoriale piuttosto che un’altra: solo che a questa scelta soggiacciono alcune precise conseguenze in termini di modello sociale e politico. Anche perché, al di là della giustificazione in ordine all’organizzazione imprenditoriale, la diffusa diceria per la quale la flessibilità porterebbe all’aumento in termini assoluti e relativi dell’ occupazione pare essere infondata se è vero, come dimostra Gallino, che gli Stati con un maggior sistema di protezione del lavoro (e l’Italia, secondo le statistiche OCSE, è ai primi posti almeno fino al 1992 con 4.1 punti) non producono un minore job turnover di quanto non facciano Paesi a bassa protezione, tipo l’Irlanda che ha uno 0.9 di protezione ma ha perso posti di lavoro nella media del 3.9% l’anno, in modo tale che il nostro Autore può affermare che “la correlazione fra la flessibilità del lavoro e job creation, nei Paesi europei, si può al massimo definire presunta”.
In queste condizioni appare chiaro che la flessibilità ha cessato di essere un semplice obiettivo di massimizzazione del profitto d’ impresa ma è diventata qualcosa di più complesso ed ambizioso, un progetto per ridisegnare la società ed i rapporti di forza economici e politici. Infatti, nel suo procedere la flessibilità va ad intaccare, additandoli come elementi del “vecchio che resiste”, l’insieme dei diritti che il movimento dei lavoratori, nella versione sindacale ed in quella politica, ha strappato per evitare i licenziamenti facili, per ottenere le ferie pagate, i congedi per malattia e gravidanza, e più in generale per tutta l’ articolazione del welfare, che disegna uno scenario rigido e non flessibile.
Un altro elemento di resistenza alla flessibilità si trova evidentemente nel vincolo sociale che dà vita alle organizzazioni sindacali, e il lavoro flessibile è un potente incentivo allo scioglimento di tale vincolo parcellizzando il lavoro e rendendo impossibile la vicinanza quotidiana e prolungata nel tempo dei lavoratori. Di conseguenza la flessibilità incentiva la deresponsabilizzazione dell’imprenditore rispetto alle persone che lavorano per lui, seppellendo per sempre l’ideale olivettiano del superamento della disoccupazione involontaria intesa come la peggiore sciagura che possa capitare ad un essere umano.
In pari tempo il diffondersi della flessibilità disegna una nuova organizzazione delle funzioni lavorative che farà ruotare masse di lavoratori poco o nulla qualificati intorno ad un nucleo sempre più ristretto di occupati stabili, inducendo forme di precarietà di massa. Fanno il resto l’ avidità degli investitori e degli azionisti e il comodo albi costituito dalla flessibilità per parlare d’ altro rispetto a problemi inerenti l’ organizzazione aziendale non affrontabili ideologicamente (ad esempio la qualità dei prodotti e l’ innovazione tecnologica…).
Più in generale, e Gallino lo ha rimarcato anche nei suoi sempre stringati e succosi articoli su “Repubblica”, a rimanere occultati sono i costi umani che il diffondersi della flessibilità implica, che si riverberano su persone che non sono per nulla liete di passare da un lavoro all’altro in una condizione contrattuale sempre penalizzante per loro e favorevole all’azienda in un eterno gioco che per il lavoratore non sindacalizzato né qualificato è sempre a somma zero. Non vi è dubbio che il procedere della flessibilità in un mondo globalizzato tenda in prospettiva ad uniformarsi a quel modello americano che Barbara Ehrenreich, che già avemmo modo di citare in questa sede, ha tratteggiato a tinte forti e veritiere nel suo libro tradotto da Feltrinelli con il titolo “Una paga da fame” : indottrinamento ideologico negli interessi dell’ azienda, nessuna copertura sindacale, scarsa igiene e poche norme antinfortunistiche e, appunto, una paga da fame.
Il punto è che la presenza della flessibilità non appare reversibile rispetto agli scenari più plausibili, e la questione centrale rimane quella delle risposte concrete che ad essa si possono dare per ridurne al minimo l’ impatto sociale ed umano. Già, perché quello che giustifica l’ esistenza dei sindacati e delle forze politiche democratiche è per l’appunto la capacità di cercare soluzioni non definitive ma non per questo rinunciatarie rispetto ai problemi posti dallo scenario sociale, e non è detto in alcun modo che non vi siano rischi involutivi. Al contrario, proprio la vicenda della flessibilità dimostra come sia in atto un attacco ai diritti sociali acquisiti dalla precedenti generazioni che premurosi intellettuali organici ai nuovi poteri dipingono come ingiustificabili privilegi dei padri a danno dei figli.
Quel che è peggio è che anche coloro che si pretendono riformisti – come può ben sapere chi si sottopone alla dura ed improba fatica dell’ omonimo quotidiano- non sembrano trovare altra strategia che il conformarsi progressivamente al pensiero unico dominante magari con un po’ più di riguardi rispetto ai neoliberisti. Diventa allora necessario uno sforzo ulteriore per pensare una strategia alternativa che coinvolga i mondi sociali e la politica per la ricerca delle modalità di contenimento e di riconduzione a dimensione umana della flessibilità allo stesso modo in cui venne contenuto e ricondotto, per quanto possibile, a dimensione umana il lavoro seriale proprio dell’epoca taylorista- fordista.
Il parlare di flessibilità sostenibile diventa allora qualcosa di più di uno slogan, ossia un progetto autenticamente riformista capace di coinvolgere nella richiesta differenti attori sociali in una prospettiva comune, che parta però dal riconoscimento di dati specifici.
Il primo è che la flessibilità ha molte facce, e che pretendere di intervenire su di essa significa conoscerle tutte e soprattutto presumere che interventi siano possibili, tenuto conto che si sta parlando di un universo di circa 7-8 milioni di persone nel nostro Paese. La flessibilità, dice Gallino, può dividersi in due grandi settori, il primo di tipo funzionale, legato cioè alla possibilità per l’ imprenditore di adeguare volta a volta la forza lavoro alle dinamiche produttive, il secondo di tipo qualitativo.
Il primo si realizza essenzialmente attraverso la pluralità di forme contrattuali (introdotte, detto per transenna, in ispecie dai Governi di centrosinistra con il “pacchetto Treu” ) che vengono ad erodere la generalità del diritto del lavoro tradizionale, configurando realtà diverse e non immediatamente sovrapponibili fra di loro, in quanto riferite a fattispecie lavorative assai diverse.
Ma l’attenzione di Gallino si concentra in particolare sul modello qualitativo, in quanto afferente alla situazione particolare degli occupati in azienda, ossia all’articolazione differenziale dei salari, alle modificazioni degli orari di lavoro in relazione al ciclo produttivo, alle variazioni delle condizioni di lavoro anche in rapporto all’innovazione tecnologica. E’ chiaro quindi che ad essere toccati da questa forma di flessibilità sono molti milioni di lavoratori, anche con contratti a tempo indeterminato, configurando in ogni caso per essi oneri pesantissimi sotto il profilo personale. In sostanza, e senza voler vedere nelle fasi precedenti dell’organizzazione del lavoro un insistente età dell’oro, è da ritenere che l’era della flessibilità sia anche quella della precarietà.
Infatti, si che si tratti del lavoro rigidamente mansionato e definito negli orari e negli scatti di carriera, di quello a qualificazione medio – bassa ma richiedente una grande quantità di forza lavoro, di lavori semi autonomi basati soprattutto sull’organizzazione e la sorveglianza del lavoro altrui (quadri intermedi, capi ufficio…) o, infine, di lavori di alta qualificazione come quelli di certe categorie di professionisti e dirigenti, per un motivo o per un altro ciascuno di essi è gravato da oneri ben precisi – e assai pesanti- in ordine al tema della flessibilità.
Infatti, la generale pretesa per cui l’obsolescenza del lavoratore rispetto alla capacità di riciclarsi in nuovi saperi veda ormai il suo limite abbassato intorno alla soglia dei quarant’anni d’ età viene a costituire un elemento di discrimine molto forte sia nel campo del lavoro razionalizzato che in quello del lavoro a bassa qualificazione, giacché incide sulla più parte della forza lavoro in termini di crescente marginalizzazione dei soggetti interessati all’aumento dell’età e al crescere di nuovi soggetti disposti (o costretti) ad adattarsi a soluzioni di lavoro insoddisfacenti in termini di carriera e di retribuzione che vengono a fornire una sorta di manodopera servile di riserva capace di supplire progressivamente alle pretese dei resistenti nuclei sindacalizzati.
Anche i quadri dirigenti, confrontati con il modello della flessibilità, si troverebbero di fronte ad un declinare del proprio ruolo e della proprie aspettative professionali ed umane, e ciò vale a maggior ragione anche per le competenze più elevate di ordine professionale. Certo, nel breve periodo essi potranno vantarsi della propria capacità di adattamento ai tempi nuovi, giacché la loro divisa preferita è quella della orgogliosa valorizzazione della propria autonoma professionalità, secondo il motto: “a ciascuno il suo contratto”.
Con il passar del tempo però la logica impietosa dell’ invecchiamento del soggetto lavoratore fa sì che anche queste categorie altamente professionalizzate siano esposte al rischio della marginalità soprattutto in ordine alle conoscenze tecnologiche le quali ad esempio hanno ormai spazzato via i residui di quelle che fu la cosiddetta “aristocrazia operaia”.
Se ne conclude quindi che sempre più i tipi di lavori che verranno individuati nelle quattro tipologie individuate saranno di natura tale da sottoporre la vita (non solo lavorativa) delle persone alle tensioni proprie della flessibilità, alla quale non dà alcun sollievo nemmeno il diffondersi dei saperi informatici, i quali non estinguono minimamente i lavori a bassa qualificazione (i quali al presente riguardano circa 7 milioni di persone, quasi la metà degli occupati nel loro insieme), che sono anzi una delle travi portanti della struttura economica e non accennano di voler diminuire (e Gallino dimostra come ad esempio le figure di operai qualificati avviati al lavoro fra il 1994 ed il 1999 siano aumentate nell’ordine di circa cinquantamila unità).
Diventa così necessario enucleare i cardini di una reale politica di sostenibilità della flessibilità, che Gallino sintetizza e specifica in questi termini: far sì che perdere, magari ripetutamente, il lavoro non sia una forma di esclusione dal mercato del lavoro. Ciò è possibile nella misura in cui al lavoratore vengono affiancate quelle che Gallino, riprendendo la terminologia di due studiosi americani, definisce come “gilde” dei lavoratori, ossia luoghi cui i lavoratori possono far riferimento nel periodo di disoccupazione, e che siano anche luogo formativo e di cooperazione mutualistica;
introduzione di forme di certificazione delle competenze del lavoratore nella sua fase di nomadismo da un’azienda all’ altra, permettendo così di ricostruirne la carriera ed evitando penose peregrinazioni che si rifletterebbero sul lavoratore soprattutto nella fase della quiescenza. Facendo riferimento ai cosiddetti “crediti formativi”, Gallino propone di istituire forme similari di crediti lavorativi tenendo contro delle raccomandazioni dell’Unione europea;
ripensare le forme dell’organizzazione del lavoro, le quali, nella vigenza della flessibilità totale, sono di natura tale da richiedere un dispendio di energie psicofisiche che può essere retto solo a condizione di eliminare ogni altra forma di vita sociale dall’orizzonte esistenziale delle persone. Qui è chiamata direttamente in causa la responsabilità sociale dell’azienda, che può avere un interesse specifico nel mantenere giovani le professionalità dei lavoratori, anche mettendo in conto costosi interventi di natura formativa, tenendo presente che il concetto di usuramento delle risorse umane nasce nell’ ambito imprenditoriale per rifrangersi sulla società nel suo insieme e che quindi spetta alle aziende in primo luogo l’ onere della prova che la flessibilità non è solo un danno per i lavoratori e per la società nel suo complesso;
la questione della “placeless society”, della società, e quindi anche del modello lavorativo, privo di precisi riferimenti spaziali e territoriali non è esattamente una scoperta dei nostri tempi, come dimostra la vicenda dei commessi viaggiatori, ma pare essere uno dei miti inventati dai cantori della flessibilità per renderla più attraente, per togliere cioè la stessa idea in se stessa pesante del recarsi al proprio scagnu, come direbbero i genovesi, ossia il rusco dei torinesi ed il boulot dei francesi. Solo che anche qui il diavoletto si insinua nei particolari, e in specifico per il semplice fatto che la stessa organizzazione del lavoro è basata su precise coordinate di spazio e di tempo, né pare opportuno, per quel che concerne i rapporti interpersonali, che vi possano essere dubbi e discussioni in merito all’utilizzo da parte di più persone dell’utensile che il lavoratore considera come proprio;
infine, l’ nnosa questione formativa, che Gallino considera importante ma in forma interattiva rispetto all’ insieme delle politiche di organizzazione del lavoro, giacché presa di per se stessa essa potrebbe divenire uno strumento di ulteriore frustrazione per una massa lavorativa costretta ad inseguire eternamente un “domani” che si muove sempre oltre di lei. In questo senso la formazione può essere un’ occasione di stabilizzazione di lavori precari se si inserisce in materia continuativa rispetto alle conoscenze già maturate dal lavoratore, tenendo conto che non sempre le competenze scolastiche corrispondono a quelle che sono le esigenze effettive dell’ impresa, per cui, specie nell’Italia settentrionale, molti diplomati possono solo fare gli operai.
Ma più in generale, in conclusione, Gallino ci invita ad alzare lo sguardo e a domandarci se non sia giunta l’ora, con apparente paradosso, di pensare a come rendere meno rigida la flessibilità, a ripensare cioè il modello di organizzazione dei tempi di vita e di lavoro che sta sempre più sfuggendo di mano alle persone per essere ricondotto unicamente alle dinamiche meccanicistiche dell’impresa, la quale ultima cessa di essere uno dei tanti soggetti dell’attività economica e sociale ma diviene la pietra di paragone della salute o della rovina del Paese. Anche qui, una forma di idolatria che ricorda quella di Moloch, il dio fenicio assetato di sacrifici umani.
Qui si pongono però tre interrogativi che volentieri giro all’ Autore:
Il tema delle “gilde” è sicuramente interessante, anche se in esso, come nota Gallino, vi può essere il ricordo semantico del non felice periodo corporativo legato alla dittatura fascista. Quel sistema corporativo fallì essenzialmente a) perché nessuno ci credeva, a partire da Mussolini, e alla grande industria servì semmai a meraviglia come barriera protezionistica contro il mercato internazionale e b) perché ad onta delle speranze di quelli che ci credevano sul serio come Bottai e qualche altro le corporazioni non furono un attore economico ma semplici, pletorici terminali di uno Stato autoritario ed altamente burocratizzato. E’ chiaro che “gilde” del genere non hanno per noi alcun interesse, ma quello a cui dobbiamo tendere è altro: sono piuttosto soggetti, non necessariamente sindacali, che abbiano in sé una spiccata dimensione sociale che tenga insieme il momento formativo con quello assistenziale e magari anche previdenziale (penso ad esempio, e non solo per ragioni di provenienza, alle ACLI), che siano quindi veri attori della concertazione. Qui però vedo un duplice rischio: da un lato che in tal modo si consenta a coloro che, come i nostri attuali governanti, puntano alla liquidazione ed alla corporativizzazione (e magari alla devoluzione) dello Stato sociale, di scaricare i costi di tale altrimenti dolorosa operazione sulle “gilde” facendone gli spazzini del sociale a buon mercato. Vi è poi la domanda se tali “gilde” debbano limitarsi ad un ruolo di mediazione sociale o non debbano (e possano) divenire dei soggetti anche politici in senso lato prefiguranti un nuovo assetto sociale.
La questione formativa è anch’ essa centrale, e forse l’errore di molti, anche nell’area del cattolicesimo sociale è di farne uno strumento di per sé risolutivo, nel momento in cui, come ci dimostra Gallino, la dinamica formativa si accompagna anche ad altri interventi per essere realmente efficace.
E’ evidente che la retorica berlusconiana delle “tre i” non serve, ed anzi è strutturata in modo tale da rendere anche più ampio il gap non solo formativo ma anche effettuale fra i diversi soggetti del mondo del lavoro. La riforma Moratti, poi, avrà l’unico effetto di creare nuove forme di disparità sociale per l’accesso al sapere che tende ad una restaurazione classista dell’impianto della nostra società. In che misura, quindi, la logica della riforma del sistema formativo (comprendendo in esso, beninteso, anche la formazione professionale) può andare incontro all’idea di una flessibilità sostenibile?
la questione dell’ equilibrio fra tempi di lavoro e tempi di vita è assai antica e dibattuta: pensiamo alla campagna “lavorare meno per lavorare tutti” sulle 35 ore lanciata alla fine degli anni Settanta dalla CISL, e ripresa brevemente fra il 1997 ed il 1998 su stimolo del PRC. Naturalmente è oggetto di discussione stabilire se tale riforma dell’orario debba giungere per via di legge o per via di contrattazione, ma il punto vero è quello di stabilire la funzionalità di un simile approccio. Se, come abbiamo visto, la flessibilità è una scelta possibile fra tante altre per l’ organizzazione del lavoro nelle imprese, è altrettanto vero che tale scelta è sottoposta a variabili politiche generali in cui può rientrare anche un approccio che sia più interessato alla tutela della persona del lavoratore e all’ allargamento della base lavorativa: due opzioni che, nonostante l’ideologia corrente ce lo voglia far credere, non sono per nulla contrastanti fra di loro.
Trascrizione della relazione di Luciano Gallino
Gli effetti del lavoro precario
Ringrazio per l’invito, mi fa piacere essere qui. Mi scuso ancora per la volta scorsa, ogni tanto mi capitano dei giorni “no” che mi rendono difficile viaggiare. Il mio medico mi dice che dovrei leggere meno quotidiani e non guardare mai i telegiornali: cerco di farlo ma non è possibile seguire alla lettera questa ricetta.
Prima di rispondere alle domande molto impegnative di Gaiani, e anche di dire qualcosa sulle flessibilità femminile, vorrei in un certo senso delineare la bozza del Capitolo IV del libro, che nel libro non c’è, ma che nella prossima edizione ci potrebbe essere. Sono riflessioni che ho maturato seguendo i dati e le ricerche che cominciano ad essere parecchie sulla flessibilità sia nel nostro paese, sia in altri. Non bisogna mai dimenticare che il lavoro flessibile è un aspetto del lavoro contemporaneo in tutti i paesi avanzati. Nei paesi in via di sviluppo ha un altro nome, il lavoro informale, anche se le due specie cominciano ad assomigliarsi molto. Sta di fatto che è persino sorprendente andare in paesi che sono vicini a noi in chilometri ma da noi lontani per statuto, condizioni, sistema, come la Svizzera o l’America latina e scoprire situazioni che sono assolutamente simili, straordinariamente coincidenti.
In questo Capitolo IV quello che pensavo di scrivere era qualcosa del genere: nell’insieme del mondo del lavoro si sta preparando, a medio periodo, uno scenario che presenta alcune caratteristiche.
In primo luogo i mercato del lavoro rischia di diventare semplicemente ingovernabile. Rischia, cioè, di diventare un sistema sociale che non si riesce più a controllare e a indirizzare verso qualche scopo.
Secondo: una massa di lavoratori dipendenti, valutabili in circa un quarto della forza lavoro, che dichiarano di essere occupati, diciamo 4 milioni di persone, stanno scendendo verso la soglia di povertà relativa e se le cose procedono come paiono procedere al momento, la supereranno nel giro di pochi anni.
Inoltre una quota molto rilevante di questi 4 milioni potrebbe contare su una pensione corrispondente a circa un 30%, o meno, di un salario medio, quali che siano i loro risparmi, impegni, ecc.
I guasti economici della flessibilità
C’è un altro aspetto paradossale che voglio sottolineare e che è questo: le organizzazioni produttive, incluse, quindi, le pubbliche amministrazioni, rischiano di diventare esse stesse difficilmente gestibili, controllabili con riflessi negativi sulla loro stessa efficacia ed efficienza. Tra queste stesse organizzazioni ve ne sono molte che esprimono imprenditori, uomini politici, esperti, economisti che richiedono a gran voce maggior flessibilità.
Anche dal punto di vista economico la flessibilità sta diventando irrazionale. La causa principale dell’emergere di queste caratteristiche nel mondo del lavoro prossimo è il proliferare eccessivo delle tipologie dei contratti di lavoro, flessibili, o atipici combinato con fattori di grande rilievo, come le attuali forme reticolari di organizzazione della produzione che sono fondate su catene a geometria variabile, di subappalti, di sub-subappalti, ecc.
Attenzione, parlo di tipologie di contratti e non tanto di numero di lavoratori con contratti flessibili o atipici. Non escludo che anche il numero di lavoratori con contratto flessibile potrebbe essere anche più alto, ma con minori costi umani, sociali e persino economici qualora la tipologia dei contratti fosse meno frastagliata.
Diciamo qualcosa su questo tema. Le tipologie dei contratti di lavoro flessibile sono attualmente almeno 35; qualcuno ne ha censito 37 o 38, si tratta di vedere specie o sottospecie, ma siamo in quell’ordine di grandezza.
Tra i più grandi produttori di computers nel mondo è la Dell: parecchi milioni di computers venduti. La Dell non produce neanche una vite o un tasto dei milioni di computers che vende. Più del 90% degli ordini li riceve on line e un sistema centrale provvede a smistare a Taiwan, in Islanda, in Irlanda , in cento paesi del mondo la quantità di pezzi da fabbricare, dopo di che qualcuno assembla il computer, qualcuno che può stare a Milano, Detroit o Tolosa o da altre parti.
E’ un caso estremamente indicativo di flessibilità e di ciò che essa comporta, per intanto dal punto di vista dell’impresa. Questa flessibilità dell’impresa-rete si fonda su migliaia o decine di migliaia di fornitori sub-appaltanti, sub-sub-appaltanti, nessuno dei quali ha la minima possibilità di prevedere il futuro. E’ nella totale impossibilità di prevedere se la Dell che gli ha ordinato, poniamo, 100 tastiere questa settimana, la prossima settimana gliene ordina 100, 500, 2000 o nessuna, per due motivi: perché la domanda è variabile nel mondo, le domande di PC salgono, crescono di mese in mese, si modificano, ecc.; ma ancora di più perché attraverso l’uso onnipresente di Internet, è possibile che la Dell abbia scoperto che per la tastiera, il monitor, il disco rigido, l’alto parlante, un qualche pezzo del computer c’è una fabbrica in Islanda che lo produce con la stessa qualità e minor costo della fabbrica che fino a ieri era il suo fornitore, la sua fornitrice.
Quindi, moltiplicati per n imprese, n corporations di grandi dimensioni, significa milioni di fornitori piccoli e medi nel mondo che non sanno assolutamente che cosa la settimana prossima gli riserverà il destino produttivo. Hanno un bisogno assoluto di avere flessibilità per quanto riguarda l’impiego di forze lavoro perché se la Dell ordina 200 tastiere quando loro pensavano di produrne 2000, allora hanno una quantità di mano d’opera eccedente. Se la Dell gliene ordina 2000 invece di 200, avranno un enorme problema di recupero, di reclutamento immediato di mano d’opera.
Il mercato mondiale di lavoro flessibile è stato inventato in questo modo, è stato progettato con un’ottica neo-liberale, con il progetto industriale specifico di fornire all’azienda, il più rapidamente possibile, la forza lavoro che ha interesse ad utilizzare e a pagare in quel momento, perché nessuno può prevedere il futuro. Ciò che il disegno neo-liberale implica è che l’impossibilità di prevenire, interpretare il futuro che prima era responsabilità primaria dell’impresa, è stata trasferita per intero sulle spalle dei lavoratori. Non è più l’impresa che deve far fronte all’imprevedibilità del futuro, è il singolo, la singola persona, il singolo giovane, il singolo laureato, il singolo cinquantenne che non sa se lavorerà ancora tra qualche mese, a dover far fronte alla imprevedibilità del futuro.
L’imprevedibilità del futuro sulle spalle dei lavoratori
Il punto, che al tempo stesso è economico, ma anche politico, anche etico, è dove si possa interrompere e che cosa si possa fare per evitare questa transizione della difficoltà di prevedere il futuro dall’impresa al singolo, con la differenza che l’impresa è relativamente forte, mentre il singolo dinnanzi al futuro è estremamente debole, è estremamente solo. Bisogna tener presente che questo modello mondiale di impresa-rete, che non esisterebbe senza Internet, per il quale la flessibilità produttiva è tutto, tende a scaricare sul lavoro in generale le oscillazioni dell’impiego della forza lavoro che ciò rende necessario.
Nel caso italiano, come è stato giustamente ricordato, dato che noi non produciamo tecnologie, non produciamo brevetti. Produciamo poco più di 70 brevetti per milione di abitanti; la Svezia, la Finlandia, la Norvegia producono 350 brevetti per milione di abitanti, cioè 5 volte tanto. La Francia, la Germania e il Regno Unito si accontentano di 2-3 volte il tasso italiano, i finlandesi sono 5 volte avanti. Rimane il costo del lavoro, e allora vengono fuori i D’Amato e le richieste di flessibilità in entrata e in uscita, che sono un modo per ottenere flessibilità movendo l’unico fattore che l’azienda italiana sia in grado di muovere, di comprimere, cioè il costo del lavoro. Però l’insieme del disegno è al tempo stesso industriale, economico, tecnologico (perché senza Internet non esisterebbe), ma al tempo stesso è anche politico: va tenuto presente perché altrimenti molte cose si stentano a capire. La responsabilità sociale dell’impresa avrebbe questo punto su cui esercitarsi.
Come saprà la persona che ha toccato questo tema, esiste un Libro Verde della Commissione Europea sulla responsabilità sociale delle imprese in cui ci sono molti interessanti precetti suggeriti per dare operatività alla concezione di responsabilità sociale dell’impresa. Io ho visto questo Libro Verde quando è uscito nel luglio 2001 ed ho trovato due cose curiose. La prima che la Commissione Europea richiamasse le imprese della Unione Europea, non della Nigeria, dove i diritti del lavoro, le leggi sulle imprese non sono ancora altrettanto sviluppate, ma richiamasse le imprese europee a rispettare alcuni aspetti della responsabilità sociale dell’impresa quali non discriminare tra i generi, non discriminare nelle assunzioni tra coppie o religiosi, badare a coltivare positivamente i rapporti con la comunità, rendersi utili alla comunità, ecc. Se la C.E. fa un richiamo di questo genere significa che gran parte delle aziende europee da questi criteri sono molto lontane, altrimenti non faccio un Libro Verde su aspetti di questo genere.
Quando c’era Olivetti
La seconda cosa che mi ha colpito, ma questo è solo un dato biografico, è che quei precetti erano posti in essere, giorno per giorno, in modo concreto nella Olivetti del 1932, dove c’erano delle precise norme per l’attivazione del personale che dicevano: attenzione all’assunzione tra uomini e donne, attenzione al livello dei salari, scuole, formazione, servizi sociali per la comunità e così via. L’Olivetti non è stata la sola, vi sono state altre imprese italiane, oggi forse il numero è diminuito, ma ci sono state altre imprese italiane che si sono fatte carico, anche per generazioni: costruivano abitazioni per dipendenti, costruivano asili, biblioteche, fondazioni culturali, ecc. Oggi tutto questo viene dipinto come un aspetto di un’economia che non ci può essere.
Come governare la flessibilità
Per liberare le energie della mente, del lavoro, e così via, mantenendo gli aspetti positivi, anche per le persone, della flessibilità ci sono altre strade che probabilmente andrebbero percorse, anche in termini politici. Una è quella della riduzione delle forme di tipologia contrattuale, altrimenti non si connette più, né fisicamente, né mentalmente, l’insieme. Ci sono anche altri dispositivi di cui si comincia a parlare, tipo la così detta “flex security”, una normativa per cui un giovane che abbia ottenuto un certo numero di lavori precari, perché non ne trovava altri, dopo un certo ammontare di ore passate in un lavoro flessibile, ha il diritto di avere un lavoro a tempo indeterminato e a orario pieno. E’ l’idea del doppio mercato con libertà e possibilità concreta di passaggio. Naturalmente è più facile a dirlo che a farlo, però come obiettivo politico potrebbe avere un certo interesse. L’insicurezza del singolo e l’insicurezza degli strati sociali, delle classi sociali, è stata uno dei motori della storia, dei movimenti sociali, dall’inizio dell’800 in poi, cioè da quando esiste un movimento sociale ad oggi e potrebbe ridiventare un grande tema quando non sia visto soltanto in termini difensivi.
Sulla questione delle pensioni
Avvicinandomi alle importantissime domande finali, per quanto riguarda le pensioni c’è stata la presa ideologica, oltre che chiari interessi finanziari, a favore della pensione privata, del pensionamento privato. Ci sono stati studiosi e studiose che hanno teorizzato la superiorità dei fondi pensione ancorati all’andamento delle borse perché documentavano, andamento alla mano, che se uno avesse investito in borsa nel ’90, nel 2000 avrebbe avuto una pensione molto più elevata che non dandola all’INPS, o all’INPDAD, come l’ho data io e credo molti di voi.
Questo è un discorso che fatto nel luglio 2000 poteva avere ancora una platea di persone attente e consenzienti, fatto nell’agosto del 2000 o nel marzo 2001(non parliamo dell’11 settembre ma del marzo 2001), destava risatine sommesse o scuotimenti di capo, o ironie ad alta voce, e così via. Dopo che sono passati quasi 4 anni di recessione, i poveretti che hanno, anche in Italia, fondi pensione ancorati all’andamento delle borse possono piangere lacrime amare. I loro fondi pensione erano ancorati, sia pure in quote percentuali, all’andamento del NASDAQ che era nell’agosto 2000 a quota 5000 punti, oggi è sotto quota 800, cioè ha perso l’80% di quello che valeva, e così la quota in quel fondo pensione.
Quello che occorre smontare è l’ideologia neo-liberale: non esiste sistema pensionistico superiore a quello della ripartizione, questo patto tra generazioni, che esiste da molti decenni, per cui i giovani pagano le pensioni agli anziani e sono certi che con quel sistema, garantito dallo stato, al loro momento avranno la certezza di un’equa pensione, forse non più del 90-95 % per chi va in pensione con 50 anni di lavoro, ma almeno intorno al 70% o giù di lì.
La scomparsa dell’Italia industriale e la centralità dell’industria
Mi motiva, in modo particolare la questione del declino industriale avendo appena scritto questo saggio il cui titolo non è una cosa blanda come declino, ma è la scomparsa dell’Italia industriale, l’informatica, la chimica, l’elettronica di consumo (trovatemi un telefonino fabbricato in Italia, un PC, o un televisore, un sistema HF, ecc,), l’aeronautica civile… L’Italia ha prodotto quest’anno complessivamente 20 aerei executive. Aerei da 5-9 posti e una ventina di fusoliere da aeroplani da trasporto regionale ATR 401. Il Brasile ne ha prodotti 130 da 100 posti. L’Airbus ha prodotto lo scorso anno 330 aerei da oltre 200 posti. Insomma, abbiamo molto militare, ma l’aeronautica civile italiana è poca roba. L’elettromeccanica, la meccanica è stata privatizzata o smantellata, il Nuovo Pignone, la General Electric, la Fiat Avio, L’Ansaldo, grandissima impresa italiana nata nel 1853 a Sampierdarena è stata smantellata, ecc.
Se uno legge il mio saggio ha bisogno non di 2 bicchierini, ma probabilmente di mezza bottiglia, però l’ultimo capitolo è propositivo. Bisogna mettersi in testa che il peggiore dei miti circolanti in Italia, ma anche in altri paesi d’Europa, è il mito del post-industriale: fino a quando le persone useranno oggetti che vanno dai telefoni, ai microfoni, alle biro, ai tavoli, agli aerei o anche alle bottiglie di plastica, che sono prodotti di altissima tecnologia tanto è vero che tengono l’acqua potabile per 4-5 anni (in una bottiglia di questo tipo ci sono 8 tipi di plastica per poter mantenere la potabilità dell’acqua per 5 anni), fino a quando le persone avranno bisogno degli oggetti esisterà l’industria, che non sarà più fatta di 10 mila operai con la tuta grassa sotto un capannone, sarà fatta di mille fabbriche, sparse per le campagne, ma comunque ci sarà produzione. Quindi ritornare all’idea dell’importanza centrale dell’industria per l’occupazione, per i livelli di vita. L’industria è ad alta intensità di lavoro, anche se oggi si fanno più auto pro capite che 20 anni fa. Bisogna puntare sull’industria ad alta tecnologia, perché l’alta tecnologia di per sé è ad alta intensità di lavoro. Fare ricerca richiede olio di gomito, vista buona perché bisogna stare al computer 12 ore al giorno. Molti strumenti sono ad alta intensità di lavoro. La tecnologia genera intorno a sé lavori anche di tipo medio e basso: per ogni computer che entra in un’aula informatica ci vuole anche chi fa pulizia di quel computer, che è un tecnico specializzato, ci vuole la manutenzione, la sorveglianza, ci vuole chi costruisce quell’aula. La tecnologia genera intorno a sé anche lavoro a qualificazione medio-bassa di cui abbiamo comunque molto lavoro.
Bisogna che gli industriali per primi, ma anche i ministri, lo stato, coloro che fanno, o meglio non hanno fatto in questi anni politica industriale, si mettano in testa che la tecnologia bisogna produrla. Noi abbiamo tra i più bassi tassi nel mondo di brevetti prodotti in casa rispetto ai brevetti acquistati, la più bassa quota di PIL investita in tecnologie e abbiamo smantellato negli ultimi anni una grandissima storia, un grandissimo capitale umano di alta tecnologia industriale, vendendo ad imprese estere dei pezzi assolutamente pregiati della nostra industria.
Industria e localizzazione
I teorici della globalizzazione hanno voglia di cercare di convincere il pubblico che la localizzazione non è importante, è l’importante che ci sia sul posto l’occupazione, la produzione, ecc., poi se il padrone sta nel Kansas (posto orribile), oppure in Finlandia, o in Spagna, non fa differenza. Questa idea è da contrastare anche con esempi concreti. Ad esempio la DAEWOO, che è il nono-decimo produttore mondiale di automobili, è stata acquistata da General Motors, il cui nome forse vi suggerisce qualcosa a proposito delle vicende italiane dell’automobile. La General Motors ha lasciato bollire a fuoco lento la Daewoo per tre anni circa, dopo di che l’ha comperata per una frazione del suo prezzo iniziale (470 milioni di dollari invece di 2 miliardi), infine ha chiuso 13 stabilimenti su 16, di cui 12 in 12 paesi differenti, con 50 mila lavoratori interessati. Qualcuno di questi stabilimenti che produceva motori per automobili, adesso fa scatolette e le persone lavorano lo stesso, però sta il fatto che l’acquisto ha portato alla chiusura. Allora è difficile convincere gli operai della Daewoo che il posto in cui risiede il padrone, il proprietario, il centro di controllo, non è rilevante: gli stabilimenti non sono mica stati chiusi negli USA, sono stati chiusi in India, in Cina, in Corea del Sud, compreso lo stabilimento più importante vicino a Seul.
Occorre rilanciare una politica industriale forte, che punti a quei settori in cui l’Italia ha avuto una grandissima tradizione e dove in certe parti ha ancora dei talenti, delle memorie da utilizzare. Ad esempio nel campo dell’aeronautica civile, e anche nel campo della chimica esistono ancora quelli che facevano parte di grandi aziende che sono state disperse nel territorio e che oggi alimentano piccole aziende. Si deve favorire una politica di sviluppo che punti ad un’attività industriale ad alta intensità di lavoro e, per quanto possibile, ad alta intensità di conoscenza. Credo che in questo caso, non solo lo stracciarsi i panni, ma anche il puntare il dito sui gravissimi errori commessi potrebbe essere un elemento di presa politica molto significativa per uscirne in positivo, per recuperare terreno, per rilanciare.
Nei settori che ho indicato siamo stati i primi nel mondo, abbiamo buttato dalla finestra malamente gran parte di questi settori e ci sono ancora forse le forze, le possibilità per recuperare terreno e per fare uno sviluppo che non sia fatto di contratti di manutenzione a 4-5 euro l’ora, che puntano cioè al basso della fascia salariale. Se qualcuno sale in treno, come ho fatto io stamattina, e trova le carrozze in uno stato pietoso, per non dire altro, dovrebbe sapere che uno degli ultimi appalti per la pulizia dei vagoni ferroviari è stato vinto da aziende che mettevano nella convenzione paghe da 4,50 euro lordi l’ora. Hanno vinto l’appalto.