Dire “postverità” implica la questione: “che cosa è la verità?”. Ma se partiamo da questa domanda incontriamo subito difficoltà notevoli; come avviene per tutte le grandi questioni della filosofia apriamo una discussione che via via diventa più complessa. Sembra ovvio che io possa pensare e dire la verità di qualcosa solo conoscendo in qualche modo questo qualcosa (cosa, oggetto, evento, fatto…), e dunque che ciò che posso giudicare vera o falsa sia la mia conoscenza del qualcosa, e allora subito la questione “che cosa è la verità?” diventa preliminarmente: cosa è la conoscenza, cosa è il giudizio, come si esprime, in quale linguaggio ecc.
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Intervento di Paolo Masciocchi – 09′ 50″
Intervento di Marica Mereghetti – 06′ 55″
Introduzione di Roberto Diodato a Anna Maria Lorusso 24′ 43″
Relazione di Anna Maria Lorusso (prima parte) – 1h 03′ 42″
Relazione di Anna Maria Lorusso (seconda parte) – 41′ 42″
Domande del pubblico 19′ 24″
Risposte di Anna Maria Lorusso 20′ 22″
Domanda di Paolo Masciocchi e risposta Anna Maria Lorusso 11′ 24″
Introduzione di Roberto Diodato a Anna Maria Lorusso, Postverità, Laterza, Bari-Roma, 2018
Primo merito del libro è di correre il pericolo di introdurre nel titolo il termine “verità”. Apre così uno dei grandi problemi della filosofia: dire “postverità” implica la questione: “che cosa è la verità?”. Ma se partiamo da questa domanda incontriamo subito difficoltà notevoli; come avviene per tutte le grandi questioni della filosofia apriamo una discussione che via via diventa più complessa. Sembra ovvio che io possa pensare e dire la verità di qualcosa solo conoscendo in qualche modo questo qualcosa (cosa, oggetto, evento, fatto…), e dunque che ciò che posso giudicare vera o falsa sia la mia conoscenza del qualcosa, e allora subito la questione “che cosa è la verità?” diventa preliminarmente: cosa è la conoscenza, cosa è il giudizio, come si esprime, in quale linguaggio ecc. E qui si aprono problemi senza fine: cosa sono, se ci sono, i “dati sensibili”, e ammesso che esistano sono oggettivi o soggettivi?, e l’esperienza percettiva è passiva o è l’esito di una strutturazione cognitiva dei cosiddetti “dati sensibili”? inoltre cosa significa il termine “cognitivo”?, ha a che fare con i “concetti”? oppure con le “credenze”?… e così via. Potrà sembrare strano ma per i filosofi non è chiaro nemmeno se esistano i “dati sensibili” e nemmeno se esistano i “fatti” (le parole “dato” e “fatto” sono davvero difficilmente giustificabili per la maggior parte dei filosofi contemporanei), e per diversi rilevanti filosofi le parole “vero” e “falso” sono semplicemente ridondanti. E se il livello, diciamo così, elementare è già così difficile, figuriamoci allora quando abbiamo a che fare con giudizi valutativi complessi… Se asserisco per esempio che “la tortura è una pratica disumana” voglio dire che sto esprimendo il sentimento che in me suscita la pratica della tortura e insieme la mia raccomandazione di evitare quel comportamento, ma non vuol dire che sto affermando la verità di un “fatto”. Come facilmente si comprende, insomma, le cose sono difficili.
Ora Anna Maria Lorusso non si tira indietro rispetto a queste complicazioni, e le affronta in particolare nel terzo capitolo del suo libro, intitolato “La scomparsa dei fatti”. Il libro è tutto molto interessante, come senz’altro si vedrà questa mattina, anche perché porta anche tanti casi di studio e molte esemplificazioni, ma preferisco attirare la vostra attenzione su questo capitolo perché mi sembra preliminare rispetto al resto. Il titolo del capitolo deriva dall’allarme lanciato da Marco Travaglio in un suo libro omonimo del 2006: a partire dalla convinzione che i “fatti” esistono, Travaglio ne denunciava la “scomparsa”, dove, se i fatti esistono, per scomparsa è da intendersi il loro “tradimento”, che non è tanto, per Travaglio, la mancanza di obiettività, considerata un obiettivo impossibile, quanto quella di imparzialità, o di buona fede di chi i fatti li racconta. Quindi l’attenzione veniva da Travaglio spostata dall’oggetto, i fatti, al soggetto che li descrive, li comunica ecc. e alla sua responsabilità. Lorusso affronta invece la questione innanzitutto dal punto di vista dei processi di mediazione, e scrive «Il mio problema … non è che i fatti esistano ma che possiamo pensare di restituirli così come sono. Un conto è pensare che all’origine dei discorsi ci siano degli accadimenti del reale; un altro conto è pensare che nelle catene interpretative che costituiscono l’informazione questi accadimenti possano essere il nostro parametro di giudizio» (p. 72). Da questa posizione scaturiscono domande molto impegnative: scrive infatti Lorusso «cosa sono i fatti? Sono qualcosa di separato dai discorsi che li costruiscono? Se sono autonomi dai discorsi, come possiamo accedervi e restituirli? E se invece sono prodotti dai discorsi, come possiamo fidarci? Che rapporto c’è e deve esserci tra media e realtà?» (72). Lorusso si appoggia agli studi di Bruno Latour per affermare anzitutto che «non ci sono semplici fatti» ma «Ci sono sempre fatti interpretati» (75) che si elaborano e si formano in complessi contesti (sono quelli che Latour chiama fatticci, sintesi tra fatti/esistenze indipendenti e feticci/produzioni del desiderio umano). Ma che i fatti sono sempre interpretati non significa che essi siano interpretazioni, e quindi che esistano soltanto interpretazioni e dunque che, in ultima analisi, non essendoci una misura della loro verità, tutte le interpretazioni si equivalgano. Esistono appunto “i fatti interpretati”, e dunque saranno da esaminare i modi dell’interpretazione, i metodi con cui si costruiscono, i contesti, le tecniche che le rendono possibili ed efficaci, dibattiti e le discussioni che provocano, il consenso e l’accordo o il disaccordo che promuovono. Questo lavoro ci permetterà di comprendere per quali motivi non tutte le interpretazioni abbiano lo stesso peso, perché «Alcune saranno più solide, più condivise, diventeranno verità condivise, abitudini del pensiero: abiti interpretativi. Altre si estingueranno da sé … L’accordo sociale, comunque, non esimerà le interpretazioni più solide dal poter essere, in qualsiasi momento, passibili di revisione, perché nessuna interpretazione è garantita da alcuna corrispondenza alla “realtà così com’è” (che esiste … ma è inattingibile…)» (81). Il filosofo di riferimento per Lorusso è in questo caso Peirce, per il quale la realtà è “puro oggetto dinamico” cioè qualcosa che mette in movimento la semiosi, il nostro pensare attraverso segni, la nostra interpretazione: «I fatti, in realtà – scrive Lorusso – non sono per niente scomparsi. Sono piuttosto un motore, che poi però diventa inattingibile. Pragmaticamente, sul piano cioè dei nostri corsi d’azione, quel che abbiamo a disposizione sono le interpretazioni, e così dai “matters of fact” passiamo ai “matters of concern”, dai dati di fatto ai dati di dibattito, di disamina» (83). Possiamo quindi supporre che ci siano “fatti e interpretazioni”: «non è vero – scrive Lorusso in accordo su questo punto con Maurizio Ferraris – che non c’è distinzione e che non c’è una sequenzialità fra gli uni e le altre: se non ci fossero i fatti, non ci sarebbero le interpretazioni» (85). Da questo punto di vista secondo Lorusso la posizione “semiotica” che è stata del suo Maestro Umberto Eco e che lei stessa abbraccia non è molto distante da quella di Ferraris: data la distinzione ontologica tra oggetti naturali, oggetti sociali, che esistono come fatti in virtù di un atto “sociale” in senso lato linguistico (i matrimoni, i contratti, il denaro…) , e testi veri e propri (linguistici, visivi, sonori, multimediali…), non resta che sostenere una forma di “realismo negativo”, in qualche modo minimale, secondo il quale: «La realtà la incontriamo nell’esperienza del limite, nella negazione della nostra libertà» (85). L’idea è che esistano delle «linee di resistenza che la realtà ci pone, costringendoci ad adattarci e delle direttive che non possiamo aggirare … la realtà pone dei limiti» (86), e questi limiti diventano limiti anche per l’interpretazione. A questo proposito Lorusso cita il libro di Umberto Eco intitolato appunto I limiti dell’interpretazione; scrive Eco: «perché ci sia interpretazione, ci deve essere qualcosa da interpretare – e se pure ogni interpretazione non fosse altro che l’interpretazione di una interpretazione precedente, ogni interpretazione precedente assumerebbe, dal momento in cui viene identificata e offerta a una nuova interpretazione, la natura di un fatto» (86). (dico solo tra parentesi, perché il discorso ci porterebbe lontano, che non vedo come ciò sia possibile, né che senso possa avere l’espressione “la natura di un fatto” se dei fatti nulla possiamo sapere. L’interpretazione resta semplicemente interpretazione, all’infinito). Il punto dunque per Lorusso, come per Eco, sono le interpretazioni e non la forza inemendabile di una presupposta realtà, ciò che interessa è la loro negoziazione, poiché tutte le interpretazioni sono fallibili, e ciò che possiamo considerare “verità”, e quindi post-verità, è comprensibile solo in questo processo di mediazione tra interpretazioni differenti, e accade mettendole alla prova e costruendo in questo modo ciò che chiamiamo realtà. Lorusso scrive: «Questa differenza di priorità implica spostare l’attenzione dal piano ontologico (cosa sono le cose) al piano epistemologico e gnoseologico (come conosciamo le cose, entro quali quadri conoscitivi), in una prospettiva che tiene conto della intersoggettività, e in questo senso, potremmo dire, dell’etica: un’etica dell’interpretazione e della comunicazione. Ciò che conta è lo stabilizzarsi dell’interpretazione, la convergenza sociale e pubblica su determinati saperi, l’assestamento di certi quadri di riferimento, la multiforme organizzazione (multiforme ma pur sempre organizzata) delle enciclopedie umane» (87). A me pare del tutto condivisibile questa posizione, e molto interessante per l’accento posto sulla questione di un’etica della comunicazione, rilevo soltanto che a questo livello la questione non è più quella della verità ma quella del potere, almeno nell’ambito delle costruzioni mediate e complesse implicate dai casi in cui parliamo di “postverità”. Un potere che non è quello che riguarda solo le procedure tecniche di mediazione, in quanto la verità sarebbe comunque salvaguardata nella sua corrispondenza alla realtà (posizione di Ferraris), ma è un potere che coincide con la verità stessa.
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- Relazione di Anna Maria Lorusso (prima parte) – 1h 03′ 42″
- Relazione di Anna Maria Lorusso (seconda parte) – 41′ 42″
- Domande del pubblico 19′ 24″
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- Domanda di Paolo Masciocchi e risposta Anna Maria Lorusso 11′ 24″