Dal 6 agosto al 5 settembre lo scenario istituzionale italiano è radicalmente cambiato: all’inizio del mese dedicato tradizionalmente alle vacanze Matteo Salvini, leader della Lega ormai partito nazionale (e primo d’Italia, secondo i risultati delle elezioni europee alle quali aveva tuttavia partecipato poco più della metà degli aventi diritto), Vicepresidente del Consiglio e Ministro dell’Interno sembrava il padrone d’ Italia, dominando la debole resistenza degli alleati Cinquestelle e del (nominale) capo del Governo Giuseppe Conte.
Un mese dopo, lo stesso Conte giurava come Presidente del suo secondo Gabinetto in cui i rappresentanti della Lega erano stati sostituiti da quelli del Partito Democratico, in un’alleanza altrettanto inedita di quella precedente.
Vari elementi si sono mischiati per giungere a questo risultato impredittibile fino a qualche tempo prima se non da qualche isolato precursore come Dario Franceschini: la crescente esasperazione di mondi diversi nei confronti della “hybris” di Salvini, che pretendeva di volersi arbitro della vita e della morte della legislatura sulla base di dati parziali e di sondaggi, richiamandosi ad una concezione brada ed anti istituzionale del consenso, e dimostrando così di non comprendere le peculiarità della democrazia italiana basata più di altre su di una serie di delicati pesi e contrappesi. Fra questi pesi e contrappesi rientra anche il problema della collocazione internazionale del nostro Paese, del suo radicamento euroatlantico , che è ormai parte integrante della nostra Costituzione materiale e per certi versi di quella formale, e che Salvini è sembrato voler mettere in discussione da un lato accreditando come a maitres à penser economisti contrari all’euro e filosofi russi teorici del superamento della democrazia liberale (al di fuori della quale esiste solo l’autoritarismo), e dall’altro, a quanto sembra, cercando in Russia appoggi politici e finanziamenti dal regime di Putin.
Decisiva a sbloccare le resistenze interne al PD ad un accordo di governo con i Cinquestelle è stata la svolta a 180 gradi di Matteo Renzi, il quale – ora lo si vede – non poteva permettersi di andare ad elezioni anticipate senza aver tempo di consolidare il suo nuovo partito, e si trova ora nella situazione privilegiata di potersi sedere al tavolo coalizionale con la stessa dignità di Zingaretti e Di Maio, mantenendo ugualmente una presenza nel PD attraverso i parlamentari (e i componenti del Governo) a lui vicini che hanno scelto di non seguirlo nella nuova avventura di “Italia Viva”, potendo quindi condizionare in forma duplice le scelte politiche concrete del nuovo Esecutivo.
Fin qui abbiamo descritto quella che un osservatore maligno definirebbe come una “crisi di Palazzo”, un movimento autoreferenziale della politica politicante pur necessitato da un principio generale – quello per cui lo scioglimento anticipato delle Camere non è appannaggio di un capopartito sedotto dalla volontà di potere ma del Capo dello Stato in base a condizioni dettate dalla Costituzione – in cui sono preminenti le esigenze parziali e talvolta anche personali dei singoli leader.
Si potrebbe rilevare che da sempre in politica, come in qualsiasi avvenimento umano, l’alto e il basso, l’aspetto generale e quello personale, la generosità e la grettezza tendono a mescolarsi nel “guazzabuglio del cuore umano” di manzoniana memoria. Ma ciò è evidentemente insufficiente nel momento in cui da parte dell’opinione pubblica si è sempre più insofferenti nel confronto dell’incapacità della politica di dare risposte concrete e ragionevolmente rapide alle istanze che salgono da una società che la grande crisi del 2007 ha lasciato più debole, impaurita ed incattivita (e a quanto sembra si sta affacciando alle nostre porte un’altra fase depressiva), al punto tale che ormai il primo partito sembra essere quello di coloro che si astengono dal voto.
Il punto focale rimane quello del rapporto fra azione politica e azione di governo: non ha torto chi dice che, soprattutto nelle esperienze dei Governi Prodi e Renzi, l’attività oggettivamente riformista del Governo non è passata nel corpo vivo della società civile, anche in quei settori sociali che più ne avrebbero profittato. Si è parlato di un “riformismo dall’alto”, sebbene storicamente le riforme siano sempre stato il frutto dell’elaborazione di gruppi ristretti che solo successivamente ne richiedevano il consenso da parte di un corpo sociale più ampio.
Il problema, come sempre, è quello di come le forze politiche recuperano un rapporto con la società intesa nella sua forma più ampia, singoli e corpi sociali: la stessa pretesa di trasformare l’accordo d’emergenza fra Partito Democratico e M5S in un’alleanza organica deve essere qualcosa di più del legittimo timore di due partiti di essere estromessi dal potere o di tenerne lontani soggetti di dubbia affidabilità democratica .Questo vale soprattutto per il Partito Democratico, perché la restaurazione di una dialettica bipolare nel nostro Paese passa di necessità attraverso un drastico ridimensionamento del M5S, questo aggregato ibrido di istanze talvolta non spregevoli che però passano attraverso il collo di bottiglia di una società informatica che è la vera proprietaria del marchio e che esercita un controllo orwelliano su di un gruppo dirigente mediocre ed ampiamente manipolabile.
Le forze che chiamiamo populiste e sovraniste nel resto d’Europa sono chiaramente collocate all’estrema destra, e giustamente lì si colloca la Lega salviniana. Il superamento dell’equivoco grillino, anche attraverso l’alleanza competiva con il PD, potrebbe permettere la costruzione di un’alternativa democratica alla destra sovranista anche recuperando quelle energie positive che pure ci sono in quel confuso universo, ovviamente prescindendo da coloro che più si sono compromessi con l’attuale stagione.
Proprio per questo il PD dovrebbe evitare la trappola, rafforzata dalla fuoriuscita di Renzi e della sua pattuglia, di farsi rinchiudere nella logica della riedizione dei DS, del ritorno ad un sinistrismo tradizionale sconfitto dalla storia e mantenere il suo profilo di soggetto che si vuole sintesi delle principali famiglie riformiste del nostro Paese, che non nega l’esigenza delle domande, anche radicali, che salgono dalla società civile ma cerca di darvi una risposta di tipo non tradizionale.
Sarà il tempo, sarà l’impegno delle donne e degli uomini, a dire chi avrà più filo da tessere.
Lorenzo Gaiani