Sono tornato in Russia (Mosca e San Pietroburgo) da dove mancavo da qualche anno. L’invito era stato fatto ancora una volta dagli amici di una fraternità ortodossa che risponde al nome di Sretenie (“Presentazione al Tempio”). Vivaci nella fede ortodossa, ansiosi di diventare vivaci anche nel sociale. Da qui il rapporto più che decennale con le Acli.
Sono convinto che il grande possa talvolta essere letto a partire dal piccolo e l’universale dal particolare, se hai la fortuna di collocarti dal punto di vista giusto. La Russia di Putin ha migliorato il tenore di vita generale dopo le svendite e le disattenzioni di Eltsin, troppo attento alla vodka. Inoltre il nuovo zar ha ridato dignità geopolitica al più grande Paese del globo, attingendo alla memoria e all’orgoglio non ancora spento dei soviet. Quasi una reincarnazione di quello spirito imperiale e di quella volontà di potenza che da Stalin giunse fino alla mummia di Breznev. Credo siano essenzialmente queste le coordinate del successo elettorale dell’abile dirigente del Kgb.
Che cos’è questa Russia? Non la si intende estendendo con ottuso continuismo il legame con quella di Stalin. Neppure la si legge inseguendo le fortune e i fasti dei nuovi oligarchi, sguinzagliati in mezzo mondo ad acquistare squadre di calcio, in patetica concorrenza con gli sceicchi arabi del petrolio. Forse ci si avvicina un po’ di più alla sua verità odierna osservando i flussi del turismo di massa verso il Bel Paese, la riviera romagnola e altrove.
Non si governa un territorio esteso come la Russia, non lo si amministra negli interminabili inverni senza un apparato statale pesante. Chi paga e chi assumerebbe il numero infinito di donne e di uomini che spalano la neve e rendono transitabili i binari liberandoli dal ghiaccio? Il business non si è mai fruttuosamente cimentato con questi problemi collettivi.
È a partire da queste ataviche necessità che la nuova classe e le sue oligarchie di potere incrociano il dilagare inarrestabile del turbocapitalismo con gli organigrammi e i tempi da pachiderma di un’antica, estesa e necessaria burocrazia. Qual è dunque la vera sostanza sociopolitica della Russia di zar Putin?
Anche le sociologie dopo i fasti di Weber, Parsons, Sorokin e Wright Mills si sono svagate perché invaghite dei propri effimeri successi, del nuovo metodo, di una scientificità dalla corta radice destinata a danzare nel tempo breve. Dunque nessuna pretesa sociologica o sistemica nel mio rapido sguardo, ma la voglia ostinata di capire: quasi una sfida al bricolage della vita quotidiana, che tuttavia non è più in grado, neppure nella Russia postsovietica, di ignorare quelle “periferie esistenziali” che papa Francesco ha buttato negli ingranaggi di un turbocapitalismo globale che maschera la propria incoercibile avidità nella ideologia concreta del Pensiero Unico.
Anche in Russia? Anche in Russia, vecchio tovarish. Perché è sempre vero che se è rimasto indistruttibile e nostalgico l’antico richiamo della foresta, adesso la foresta non c’è più. Per tutti. Anche in Italia…
Dove va la Russia di zar Putin e del Gazprom non lo so dire. Dico solo che la vorrei più prossima all’Europa, magari più prossima del Regno Unito di Cameron e della sua City rapace, che tanti guai, più di Wall Street, ha procurato agli Europei. I quali hanno avuto la dabbenaggine di nominare finalmente il loro primo Ministro degli Esteri scegliendo per l’ufficio lady Ashton, che, come tutti i sudditi di Sua Maestà Britannica – da destra a sinistra – crede anzitutto nella sterlina. In piena crisi dell’euro. Come se a inseguire le magnifiche sorti e progressive del Vecchio caro Continente “detronizzato” (Carl Schmitt) siano rimasti soltanto i disperati ucraini.
Ma placo subito, anche per ragioni di spazio, gli ardori geopolitici per tornare al mitico colbacco. Gli incerti rigori dell’inverno italiano (anche in Russia il clima fa le bizze e stupisce) ne avevano imposto l’immagine nostalgica alla coscienza, essa sì infreddolita. Ma sono tornato a mani vuote per lo choc di avere trovato sulle bancarelle per turisti nella sezione souvenir dei supermercati – gli stessi che troviamo in Italia intorno alle stazioni ferroviarie e agli aeroporti, con gli stessi nomi scritti in cirillico – i “nuovi” colbacchi sintetici, dai colori incredibili, tutti con l’immancabile Stella Rossa in evidenza.
Quando il business e il kitsch si danno la mano, anche una gloriosa e non universalmente amata rivoluzione appare trasformata in patacca per rispondere alla domanda di un turismo non sempre obnubilato dalla vodka. Ma li vedete questi finti colbacchi color ciclamino, verde e fucsia, rigorosamente unisex, a dispetto dell’ostinazione di zar Putin a negare l’evidenza che impone al diritto di riconoscere universalmente che oramai i sessi principali sono due? Tutti serialmente con la Stella Rossa, ridotta a patacca passepartout. Gli unici a conservare un bel colbacco di pelo d’ordinanza sono i poliziotti e qualche raro anziano renitente alle mode e al progresso. E perché allora non piazzare sul nuovo colbacco sintetico, già che ci siamo, il Che Guevara, Maradona o la Madonna di Medjugorie? Scherzi della nostalgia? Macché! Scherzi del business, la cui avidità ignora le frontiere, a partire da quelle dell’utilità e del buon gusto.
E mi rimbomba nel capo – quasi un mantra forsennato – la previsione del Manifesto del 1848, quando Marx ed Engels scrivevano: Tutto ciò che è solido si dissolve nell’aria. Una profezia ripresa in sociologia da Bauman con la fortunata metafora della “società liquida” e da Marshall Berman nel titolo (in inglese) del più bel libro sul tema scritto a New York nel 1986, anticipando tutti i temi della crisi globale in corso.
E Berman si prende la libertà di dedicare il primo capitolo del libro al Faust di Goethe …