Le elezioni le ha vinte la Juve

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(Dentro il cuore e fuori dai denti)

Ho il fegato di dichiararmi juventino e di osannare il mesto Zaccheroni: credo nasconda senza pubblicità sotto la camicia un cilicio binettiano. Il mesto Zac infatti la domenica sera, dopo l’ultima sconfitta, ripensa in pubblico la formazione che le ha prese, al massimo maledice la malasorte per la sfilza degli infortuni che riempie di atleti l’infermeria. Ma si astiene dal criticare il tipo di formazione che gli avversari metteranno in campo al prossimo turno. Perché sa, il mesto Zac, che un allenatore è responsabile anzitutto dei propri schemi di gioco.

Non è andata così negli interminabili talk show che le televisioni di ogni calibro e tendenza hanno organizzato per dar conto della maratona elettorale delle regionali. I rappresentanti della mia parte, ossia dell’opposizione, parevano più interessati a discutere degli schemi di gioco della maggioranza che dei propri. Perché, a partire dai vertici, la parola d’ordine doveva essere: vietato parlare di sconfitta.

Considero la scelta deprimente a più di un titolo. Perché le proporzioni si vedono e si misurano facilmente, anche senza la calcolatrice. Perché superficialità e supponenza sconcertano il militante che assiste alla comparsata, dal momento che, oltre a sentire bruciare l’insuccesso sulla pelle dopo le tante fatiche dell’attivismo elettorale, ha anche l’impressione sgradevole di essere tonto, e considerato tale dai capi, perché non più in grado di leggere realisticamente le circostanze. Invece, senza aver perso le notti a studiare i libri di storia, tutti capiscono che se dopo Caporetto si fosse detto che con l’Austria avevamo riportato un pareggio in casa  o fuori casa, il Piave non avrebbe poi avuto modo di mormorare e non sarebbe arrivata Vittorio Veneto. Insomma, letto o non letto Gramsci, l’ottimismo della volontà non può essere confuso con l’edulcorazione della diagnosi.

Stimo e sono amico di Filippo Penati. L’ho votato e fatto votare. La “sestesità” ci unisce anche nell’amicizia. Ho sempre fatto campagna elettorale per lui, e lui l’ha fatta per me. Credo che Penati non sia andato a cercare la candidatura come avversario del celeste Formigoni. Filippo sa far di conto assai meglio e più rapidamente di me. Chi gliel’ha proposta non gli ha fatto un favore personale. Si è battuto facendo argine. Per il linguaggio calcistico viene in mente il milanista paron Rocco, inventore del “catenaccio”. Fa parte della antica mitologia olandese l’episodio di quello che mette il dito nel buco della diga per evitare l’alluvione. Anche se in Italia abbiamo meno dighe e meno passione per le dighe. Mi hanno favorevolmente colpito le sue dichiarazioni a caldo, post-risultato, dove afferma di aver tirato la volata a nuove e più giovani speranze entrate nella corsa elettorale. Insomma, siamo passati dal calcio al ciclismo, che è pur sempre sport di grande popolarità, e, nonostante l’impaccio del gessato blu che lo fasciava nei manifesti, Filippo ha speso un sacco di energie per tirare la volata al cattolicissimo e oratoriano Fabio Pizzul e ad altri talenti come lui. Non l’avevo capito, e per questo la rivelazione mi ha piacevolmente convinto. Mi piace il Partito Democratico che si occupa del futuro e soprattutto delle nuove promesse e dei rincalzi.

Ho letto, come tutti quelli del mestiere, lo tsunami di interviste dei giorni successivi. Condivido da tempo la diagnosi di Cacciari sulla Lega: partito delle piccole patrie, che sono la disseminazione del centralismo, alla faccia dei discorsi e delle bandiere di un federalismo che non abita più là e che, a voler essere pignoli, in Italia è soprattutto di cultura meridionale: Sturzo, Salvemini, Dorso, Lussu…: tutti lontani da Abbiategrasso e Vipiteno. La lega è diventata il partito della paura e quindi di una identità difensiva che mischia Alberto da Giussano con i Celti nostrani, dei quali purtroppo l’antropologia non sa dirci quasi nulla. Sono più aperti al futuro gli attori della Compagnia dei Legnanesi, fondata dal grande Musazzi, che sulle bocche della Teresa e della Mabilia rendono il dialetto della comicità un’artistica goduria. Non a caso troviamo la Lega Nord al 10% dei suffragi in paesini dell’Emilia dove non ha mai aperto una sede o piantato un gazebo.

Inascoltabili, per livore e malagrazia, le interviste televisive – sempre a caldo – della Bresso e del neogovernatore Cotta. Le urne hanno sepolto il Vecchio Piemonte e il suo stile; e temo non ci sia bicchier di vino rosso genuino in grado di risuscitarlo. Mentre il pragmatismo del sindaco Chiamparino si è esercitato nel minimizzare le proporzioni della sconfitta.

Non mi riesce invece di seguire il ragionamento che molti fanno buttando la croce sulle spalle dei grillini… Penso che abbiano preso voti soprattutto nel mucchio in inquietante crescita di quelli che erano intenzionati ad astenersi, e tra i militanti anti-TAV, e comunque da Ross Perot a Nader il terzo incomodo funziona (pro o contro) in tutte le democrazie, comprese le elezioni per il Presidente degli Stati Uniti d’America.

La Bonino, senza mai smettere i panni della radicale di lungo corso, tirata una frecciata nel bersaglio del cardinale Bagnasco e del Vaticano, ha sparato le bordate dall’artiglieria sul sistema mediatico dominato dal Sultano di Arcore. Un approccio tutto sommato convincente.

Ma l’intervista che mi ha più colpito è quella di Nichi Vendola, che va ben al di là delle sparate di Beppe Grillo. Mi picco di conoscere il rieletto Presidente pugliese. La nostra amicizia data dalla guerra nella ex Jugoslavia, quando, subito dopo la spedizione cui aveva preso parte, già distrutto dal tumore, don Tonino Bello, vescovo di Molfetta e Ruvo, ad entrambi amico, ci recammo con Rasimelli, Marina Sereni, Raffaella Bolini, il giovanissimo Gianni Cuperlo  e l’indimenticabile Tom Benetollo a Sarajevo, in un Capodanno caratterizzato da 26° sotto zero, in una città senza luce e acqua corrente, bersagliata dai cecchini serbi.

La sua intervista mi ha colpito perché senza mezzi toni parla dei partiti e di questi partiti al passato. È poeta Nichi, ma nell’intervista ha certamente evitato i petrarchismi. Dice: “Io penso invece che siano finiti i partiti. Consumati, inadeguati, fuori dalle virtù civiche. Non voglio più essere scambiato per uno degli esorcisti che tentano di far vivere chi è defunto”. Incalza Antonello Caporale, l’intervistatore di “la Repubblica”: Il partito che non c’è più. Risponde Nichi: “Partito: participio passato. Cioè e anche: fuggito, sparito. Scomparso”. Il partito democratico. “Il fuggito democratico”. Poesia pura. Conclude Vendola: “Berlusconi lascia solo solitudini. E noi che siamo dall’altra parte non abbiamo strumenti, non capiamo, non agiamo. Competiamo. Sappiamo unicamente competere tra noi”.

E allora, pover’uomo?

Quale è  allora il laboratorio? E dove? In Liguria, come dice Bersani, o in Puglia, come reclama Vendola? Non è un problema di latitudine: Nord e Sud devono restare ancora una volta (mi pare) uniti nella lotta. Semplifico: con Pierferdi Casini, o con una nuova interpretazione dell’Ulivo? Dico subito, per sgomberare il terreno, che avrei votato, con un trasporto solo in parte minore a quello che ho dedicato a Penati, un candidato presidente  in Lombardia che rispondesse ai nomi di Savino Pezzotta o Bruno Tabacci, se la coalizione ci avesse messi nella stessa barca. Due politici credibili, dai quali mi sarei sentito rappresentato. Altro discorso la strategia dell’UDC. Non è tanto la diversa valutazione sul bipolarismo (non bipartitismo) che mi divide, ma la specie di centrismo che Casini intende rappresentare. L’ultimo tentativo di risuscitare quel passato credo debba essere attribuito alla coppia Andreotti-D’Antoni. Il resto mi paiono volenterosi e robusti residui numismatici. Questo reiterato conato di centrismo pare a me non discendere né da Sturzo né dalla storia della Democrazia Cristiana.

Incomincio dalla Dc, che nelle rappresentazioni giornalistiche correnti viene presentata come un grande partito dei ceti medi. Le cose non stanno così. La Dc fu un grande partito popolare – ceti medi ovviamente inclusi – e non a caso poggiava socialmente sul cosiddetto “quadrilatero”: Acli, Cisl, Coldiretti (quella di allora), Maestri Cattolici. Per un Pella e un Merzagora avevamo Dossetti, Pastore, gli ottanta della Bonomiana, La Pira… Insomma, questa Dc era partito di centro perché al centro dei problemi del Paese, e non già per la politica andreottiana dei “due forni”.

Veniamo a Sturzo, che molti sedicenti seguaci non hanno trovato il tempo di leggere e rileggere perché troppo assorbiti dai flash delle agenzie. Il partito di centro infatti è in Sturzo una realtà eminentemente dinamica, tesa a sgomberare il centro dello Stato e a proporre una nuova visione della unità nazionale. La lotta politica, per lui, dovrebbe avvenire tra partiti tutti di centro, programmaticamente alternativi. Con ciò Sturzo sconvolgeva la rappresentazione consueta della lotta politica dell’età giolittiana. Il partito di centro non è la mediazione degli estremi, è l’esatta fuoriuscita da quella contrapposizione attraverso uno strumento politico nuovo. Uno strumento adatto per uscire dal trasformismo, dalla pratica del partito-istituzione o dall’uso dello Stato da parte di un partito. Ciò voleva dire ridisegnare complessivamente la geografia politica e istituzionale del Paese. Scrive Sturzo in Il nostro centrismo(agosto 1923): “Il nostro centrismo non è una linea mediana fra destri e sinistri, come a dire un colpo alla botte ed uno al cerchio, ovvero una specie di giudizio di Salomone, un’altalena di teoria e di pratica politica, atta a scontentare tutti o a contentare un po’ per uno. Politica da equilibrista che si ridurrebbe in fondo a non sapere che pesci pigliare ed essere a Dio spiacente ed ai nemici sui. Questa concezione è semplicemente esclusa; sia perché sarebbe un vero nullismo o un semplice opportunismo; sia perché mancherebbe della logica programmatica, che fa discendere da alcuni principi ideali e da valori postulati fondamentali, le ragioni pratiche dell’azione e le posizioni politiche di lotta e di realizzazione”. Tantomeno il centrismo come natura politica del nuovo partito può essere letto in termini “parlamentari”, “esso non è una pura posizione parlamentare, come elemento di equilibrio tra una destra reazionaria e una sinistra socialista, o come semplice integrazione di governi liberal democratici”.

Dunque per trovare invettive contro il centrismo, invettive feroci, non c’è bisogno di attingere a Gramsci, o a Togliatti e neppure a Pietro Nenni: basta e avanza il prete di Caltagirone, fondatore del Partito Popolare Italiano.

Quanto al progetto si tratta di rifare, a mio modesto avviso, un pensierino all’Ulivo, così come nacque principalmente nella fervida mente di Nino Andreatta. Nessun nuovismo, anche perché credo abbia fin troppo nuociuto una confusione: partito giovane e partito nuovo non sono la stessa cosa, e non necessariamente la carta vincente. Qualche volta sì: il Partito Nazionale Fascista fu infatti insieme partito giovane (contro i “labbroni” ottantenni giolittiani, così si diceva) e partito nuovo. Ci vogliono naturalmente i giovani. Ci vogliono le donne, ma questa è la fisiologia del ricambio in un partito sano, non l’obiettivo politico, che è invece costituito dal progetto e dal programma. Altrimenti i giovani all’anagrafe ripetono i vecchi schemi, per il tipo di filtro che li ha scelti e fatti passare, e per il perpetuarsi della metempsicosi di un decrepito funzionariato: l’anima burocratica passa cioè da un vecchio a un giovane funzionario, o notabile. La ragione per la quale, anche nel centrosinistra, auspice un porcellum mai seriamente aggredito, ci troviamo con un ceto politico che, pur di conservarsi, ha rinunciato a farsi classe dirigente. Basterebbe una semplice scorsa alle pagine del socialdemocratico Michels per rendersi conto di come l’ingessatura oligarchica possa benissimo instaurarsi nei partiti della sinistra. È qui che nasce tanta parte della disaffezione che genera  un astensionismo che non può essere ulteriormente letto come qualunquismo. Qui il ceto politico si assicura la perpetuità, ma anche la minoranza perpetua. E infatti il vero problema del PD è la natura del partito, la sua passione, la sua identità, la classe dirigente, non il meccano delle alleanze e i laboratori in vitro al seguito.

Resta l’immagine vincente dell’Ulivo. Mauro Corona ne dà in un suo libro una descrizione accattivante: sto parlando della pianta, non dalla formazione politica. Nell’ulivo sembrano radunarsi tutte le difficoltà del vivere, anche per un vegetale, nel Belpaese del sole. L’ulivo sa resistere perché  è un legno duro e nodoso, che forse dovremmo tornare a scolpire, al di là del nome che l’occasione politica potrà porgere. Proprio perché tutti gli esperimenti in vitro e i tatticismi stanno alle spalle e l’andare per territori è diventato – a parole, per tutti – il dovere dell’ora. Se la meta non è ancora chiara, il metodo però lo conosciamo per antica abitudine e la strada chiede di essere percorsa, anche se non si ha totale contezza del traguardo. Ha ragione Machado, il poeta: solo a chi cammina s’apre il cammino.

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