Analizzando il dettato costituzionale il lavoro è uno dei diritti fondamentali garantiti dalla legge, nonché un dovere del cittadino il quale con il suo contributo concorre “…al progresso materiale o spirituale della società…”[1]; pertanto ciascuno secondo le sue attitudini dovrebbe poter essere messo nelle condizioni di svolgere una attività dignitosa, alla quale è necessario che sia corrisposta però una giusta retribuzione.
Si è scritto e detto tanto intorno al lavoro da giuristi, economisti, politici, per finalità diverse dimostrando magari tesi contrastanti, così è piuttosto difficile oggi vergare qualche cosa di nuovo dal punto di vista dei principi generali.
È certamente un dovere individuale nel senso che con il lavoro si assicura il sostentamento del singolo ma anche il benessere della collettività, ed è forse la modalità più importante attraverso la quale gli occupati conseguono “…l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese…”[2], al netto però degli “…ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana…”[3], il cui compito di rimozione rimane in capo alla Repubblica.
In buona sostanza si tratta di uno di quei fondamentali diritti/doveri che non possono essere considerati una mera somma di sforzi isolati diretti soltanto alla soddisfazione di bisogni contingenti, ma come una attività complessa, che è in grado attraverso azioni diversificate di modificare la società nel suo insieme.
Così diverse riflessioni sul concetto di lavoro accolto nella nostra Carta Costituzionale si sono concentrate intorno ad un significato ritenuto più ampio, che comprende ogni attività appunto rivolta al progresso materiale o spirituale del Paese, ed uno forse un po’ più ristretto, che lo riduce alla prestazione d’opera in condizioni di subordinazione economica, con riferimento quindi all’emancipazione delle classi sociali svantaggiate, cioè alla funzione assegnata al lavoro come motore di liberazione dal bisogno.
Quindi la riproduzione della vita avviene spesso mediante la fatica, il sudore, il lavoro manuale, sempre però sotto il sovraintendimento dell’intelligenza umana. Per milioni di abitanti del nostro pianeta il lavoro è ancora oggi prosaicamente tutto questo, ossia la difficoltà di procacciarsi l’indispensabile per sopravvivere.
Non sono trascurabili comunque gli aspetti che attengono alla realizzazione della persona, per la sua dignità, per la sua cittadinanza ed anche per l’inclusione sociale. Il lavoro pertanto non è necessario soltanto per l’economia. La Festa dei Lavoratori che si celebra il 1° maggio di ogni anno ci ricorda tra le altre cose, che ogni uomo e donna dovrebbe poter vedere realizzati i propri desideri ed aspirazioni, e valorizzati magari i talenti posseduti.
A questo punto sorge spontanea la domanda di cosa ne è del lavoro nel terzo millennio, com’è cambiato in Italia? Quali sono i contenuti valoriali che si collegano alla prestazione nella congiuntura attuale, consapevoli peraltro dei danni che il Covid-19 ha provocato a molte attività? Il lavoro è ancora un diritto concretamente esigibile oppure ci si barcamena tra privilegio e sfruttamento?
La trasformazione assai repentina dei mezzi di produzione è passata sotto gli occhi di tanti già a partire dagli ultimi anni del secolo scorso, dove si sono chiaramente appalesate le nuove tecnologie nella forma di Internet ed affini, degli smartphone e della robotizzazione in fabbrica sempre più spinta.
Queste mutazioni organizzative sono state in grado di cambiare la composizione della forza-lavoro, da un lato richiedendo maggiori competenze intellettuali e dall’altro riducendone il numero e flessibilizzando al massimo la prestazione. Il contesto produttivo contemporaneo è infatti caratterizzato da una profonda innovazione digitale e dalla conseguente utilizzazione di “macchine intelligenti”, e disegna gli scenari della cosiddetta Industry 4.0, che non è più lo stabilimento Fordista del passato, mentre è di tutta evidenza il tema in generale della distruzione/creazione di posti di lavoro connessa alle logiche legate alla robotizzazione, dinamiche che rendono rapidamente obsoleta la professionalità del lavoratore, oltre che manifesti i limiti della sua capacità di resilienza in relazione sia alla sua anzianità lavorativa che anagrafica.
Contro questi processi a nulla servono atteggiamenti “neo-Luddisti”, se non magari nel voler seguire la suggestione di quel movimento, che invitava a rivedere gli aspetti negativi connessi all’industrialismo, ed a rimettere al centro l’uomo e non l’economia.
Infatti la tecnologia è governata dalla volontà politica e dalle relazioni di potere, non è perciò esterna alle decisioni umane, ad essa non è necessario cedere sic et sempliciter quote di sovranità; abbiamo invece bisogno di più responsabilità e controllo, di più partecipazione democratica, di più processi etici e condivisi.
Quello che serve è una politica industriale di ampio respiro dove siano evidenti gli investimenti nei settori trainanti, anche quelli pubblici, mentre molte più energie e soldi dovrebbero essere spesi nelle sperimentazioni di Ricerca & Sviluppo. Se non fosse che in questi ultimi anni pare che sia girato all’indietro l’orologio della storia del lavoro, dopo l’acme in termini di diritti raggiunto con lo Statuto dei Lavoratori, sembra di ritornare ai tempi in cui lo stesso veniva venduto dal soggetto proponente come qualsiasi altra merce.
Ma il “lavoro non è una merce”[4] – per dirla con le parole dell’indimenticato sociologo Luciano Gallino, che per molti anni è stato relatore presso il nostro circolo – si tratta semmai della “lotta di classe dopo la lotta di classe”[5], già ampiamente vinta però da quella “razza padrona” rappresentata dal ceto dominante, il quale agisce per rafforzare la propria posizione e per difendere i propri interessi.
Infatti l’Italia del lavoro non ha beneficiato della maggiore flessibilità, la stessa non ha aumentato significativamente l’occupazione, stimolato l’economia e accresciuto la competitività del Belpaese; semmai ha determinato la precarietà di molte vite, con tutte le pesanti ricadute in termini sociali che questo fatto comporta. Probabilmente neanche Marx avrebbe preconizzato una società nella quale l’accumulazione sarebbe stata capace di crescere evitando di pagare il lavoro, così come avviene frequentemente in questa fase con il cosiddetto “lavoro gratuito”, cioè mediante stage non remunerati, prestazioni d’opera senza corrispettivi ab origine, tirocini vari aventi questa natura.
La trasformazione epocale del mercato del lavoro che consegue ad una ristrutturazione del capitalismo evidenzia una cospicua riduzione numerica dell’occupazione subordinata a tempo indeterminato, a favore invece delle cosiddette “collaborazioni” e “lavoretti”, cioè forme spesso mascherate di inesistenti contributi professionali autonomi, certamente meno onerosi per le imprese, e comunque in generale ad una estesa svalutazione della prestazione.
Contemporaneamente la narrazione pubblica mainstream ha creato una cultura di sostegno di questo modello organizzativo, fatta di critiche all’istruzione che risulterebbe assai scollegata dall’ambito produttivo, ecco quindi la necessità di tirocini in azienda curricolari (tanto meglio se a gratis), di giovani bamboccioni incapaci di mettersi in gioco ed essere artefici del proprio destino, dalla ideologia assolutistica del merito.
A parità di titolo di studio conseguito aumentano le disuguaglianze retributive mentre il background familiare con il suo corollario di conoscenze e legami sociali, le capacità sviluppate nel tempo e acquisite grazie alle possibilità messe in campo dal contesto in cui si è cresciuti, fanno la differenza.
Da qui anche l’utilità impellente del divide et impera, cioè l’agire con fermezza da parte di alcuni quella “guerra” tra i poveri così funzionale a chi detiene il potere economico, additando alla bisogna i responsabili delle crisi tra gli immigrati, i dipendenti pubblici, gli operai in lotta, ecc. ecc.
Il tema centrale per opporre resistenza a queste dinamiche senza la paura di rispolverare concetti che puzzano di formalina, è ancora quello della “coscienza di classe”, cioè dell’acquisizione della consapevolezza di essere inseriti in un certo contesto sociale, che ha nello stesso tempo caratteri ricorsivi e di nuovo conio, così che per alcuni segmenti del mondo del lavoro si può ancora parlare di neo-proletarizzazione, mentre contemporaneamente un gruppo ristretto di persone continua ad arricchirsi.
Quindi è impellente che il diritto al lavoro – ad un buon lavoro – non rimanga confinato soltanto sulla “Carta”, esso deve essere concretamente esigibile, tuttavia l’esperienza quotidiana mette a confronto gli italiani con la penuria occupazionale, con le difficoltà di esercitare una professione dentro le restrizioni della pandemia, con la scarsa valorizzazione delle competenze acquisite e con condizioni oggettive di sfruttamento.
È urgente che vi siano maggiori tutele per tutti gli occupati, gli stessi che hanno sostenuto la produzione durante la fase emergenziale, e che in alcuni casi ora stanno subendo le ricadute penalizzanti di un progressivo allentamento del blocco dei licenziamenti; nel contempo l’auspicata riforma degli ammortizzatori sociali e delle tutele del lavoro in senso generale, è ancora in una fase di gestazione.
Su queste dinamiche non hanno certamente brillato nel tempo le diverse forze politiche, anzi è parso in Italia così come in Europa, che i governi abbiano avvallato un progressivo smantellamento dei diritti dei lavoratori. Si notino a questo riguardo le difficoltà che sta incontrando il vigente Esecutivo nel trovare misure di contrasto alle delocalizzazioni produttive, oppure quelle relative al Reddito di Cittadinanza messo sotto pesante attacco da taluni, misura sulla quale invece si è espresso in maniera convincente l’attuale premier.
È ancora urgente che per quelle generazioni di Millenials od Erasmus che possiedono spesso anche elevati gradi di istruzione, non vi sia come unica prospettiva occupazionale quella dell’emigrazione all’estero, oppure ridotte condizioni di impiego in Patria, con insufficienti diritti e da poche migliaia di euro all’anno.
Con riferimento poi al P.N.R.R. (Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza), attualmente in fase esecutiva, è da rimarcare il fatto che le riforme ad esso associate (del fisco, della P.A., del sistema dell’istruzione o pensionistico, solo per citarne alcune), abbiano il carattere dell’equità e siano condivise, cioè che gli eventuali effetti penalizzanti di questi processi, non ricadano sempre sui soliti noti, in particolare i lavoratori, i pensionati, i giovani.
In conclusione si può reagire alla assuefazione a questa deriva del capitalismo, con un maggiore impegno in una azione collettiva dove certo serve la politica e serve il sindacato, magari per conseguire finalmente l’abolizione del lavoro povero e svalutato, o la contrazione delle forme di precarietà ingiustificate, in definitiva per perseguire condizioni di miglioramento della qualità della vita per la maggioranza dei cittadini.
Andrea Rinaldo
[1] Costituzione Italiana art. 4
[2] Costituzione Italiana art. 3
[3] Costituzione Italiana art. 3
[4] L. Gallino – Il lavoro non è una merce, ed. Laterza, Bari-Roma, 2009
[5] L. Gallino, P. Borgna (intervista a cura di) – La lotta di classe dopo la lotta di classe, ed. Laterza, Bari-Roma, 2013
6 commenti
Vai al modulo dei commenti
Grazie Raffaela per le tue condivisibili sottolineature. Quest’anno tratteremo la tematica durante il corso con una relatrice di rilievo, pertanto ti invito a seguire gli incontri che si svolgeranno on line.
Grazie Andrea Rinaldo per la puntuale e chiara analisi che fai sui fondamentali della vita socio politica ed economica.
Resto convinta che lavoro e reddito sono i capisaldi imprescindibili per la tenuta sociale e garanzia del progresso “spirituale…” della società. Bene il riferimento al prof. Gallino.
Laicamente
Grazie a Lorenzo per la tua considerazione. L’attività principale del circolo si svolge nel “Corso di Formazione alla Politica”, giunto quest’anno alla 23 esima edizione, con l’obiettivo di avvicinare le persone all’impegno politico anche magari nell’attivismo nei partiti, mantenendo un carattere generale di pluralismo, e soprattutto cercando di costruire un riconoscibile “punto di vista”.
Grazie a te Alberto per il tuo commento. Il lavoro resta un tema cruciale per le sue implicazioni di carattere sociale ed in generale per la tenuta democratica del Paese. Carlo Cottarelli è stato relatore presso il nostro circolo nel dicembre 2019, i materiali relativi sono pubblicati sul sito.
Finalmente una svolta a sinistra dei circoli dossetti, ora però dovete smetterla di sostenere il PD e iniziare a parlare con altri soggetti, aiutandoli nella costruzione della sinistra
Ringrazio Andrea Rinaldo per l’amara acutezza delle osservazioni e per aver ricordato il pensiero sociale di Luciano Gallino: Lotta di classe, L’impresa irresponsabile ,ecc , che forse meriterebbe di essere approfondito in un’epoca in cui il Capitale torna a schiacciare i lavoratori dipendenti ,usando i dirigenti come mazza. Tra i tanti immeritevoli , penso che Cottarelli potrebbe essere d’aiuto per evitare futuri problemi .
A.Dafarra