Questa vita viaggia sempre troppo di fretta e i pensieri faticano a rincorrerla.
La nostra leggerezza esistenziale discende dunque da qui: da questo divario tra il vortice dell’esistenza e le pause di un pensiero che sempre più raramente viene a noi.
È la frenesia che ci uccide e ci lascia bambini in senso negativo: va bene lo stupore, ma non la superficialità come epidemia.
Raccontare è un modo per fermare il flusso del sangue e astenersi da una produzione continua di novità il cui contenuto, quando finalmente riesci a spacchettarlo, è inevitabilmente il vuoto spinto. Facciamo riempire anche ai nostri ragazzi i giorni e le notti con mille attività che li sospingono freneticamente fuori da se stessi e dalla gioia.
L’autore prova in queste pagine a narrare questa condizione e nel contempo a criticarla. I suoi racconti sono sestesi perché prendono le mosse da una città del lavoro che non c’è più e mettono la lente sul passaggio tra la potenza e i sogni di gloria del fordismo e la stizzosa decadenza di quello che continuiamo a chiamare post, senza capirci gran che.
La forma del racconto – lungo o breve – gli è parsa in tutti questi anni lo strumento più adatto e più duttile, nei generi come nelle prospettive, a cogliere il senso delle situazioni.
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