Con la consegna delle liste prende il via in maniera compiuta la campagna elettorale:
che per altri aspetti è iniziata con la sconfitta nel referendum costituzionale e le conseguenti dimissioni da Presidente del Consiglio di Matteo Renzi; ed è stata sancita con l’approvazione di una nuova legge elettorale, gli ultimi importanti lavori parlamentari in dicembre e lo scioglimento, a quel punto praticabile ed opportuno, delle Camere.
Tre cose, in merito a quanto ha preceduto questo momento:
1) la gestione politica ed istituzionale della fase: il conferimento dell’ incarico ad un nuovo esecutivo quando da più parti si chiedeva un immediato ricorso alle urne (con la stessa legge elettorale magari leggermente corretta secondo le indicazioni della Consulta), e l’immediato rinvio al voto una volta approvata la legge fondamentale per il nostro bilancio, indicano una gestione perfetta della crisi da parte del Presidente della Repubblica e delle forze politiche coinvolte: se da un lato questa legislatura ha ricevuto un mandato ed avuto un senso (anzichè cessare immediatamente) proprio in funzione dell’approvazione di una nuova legge elettorale, c’erano altresì altre fondamentali questioni che dovevano essere affrontate nel frattempo.
Approvarla era, dunque, un obbligo, ben più che una questione di moralità politica; affrontarle, una questione di responsabilità della classe politica nei confronti del Paese;
2) la legge elettorale: la XVII legislatura ha tratto una fondamentale legittimazione dal patto istituzionale contratto col Presidente Napolitano all’ inizio del suo secondo mandato: senza enfasi diciamo che nè lui nè il Parlamento, di fronte al popolo sovrano, potevano sottrarsi a quel patto, senza realizzare davvero quella ipotesi di illegittimità istituzionale arrivata, per altre questioni, fino alla Corte Costituzionale. Il primo ha ottemperato pienamente, il secondo con grave ritardo, ma lo ha fatto comunque. Come?
Eliminare l’abnorme premio di maggioranza e correggere le soglie di sbarramento al Senato è stato fondamentale: rappresentanti del popolo eletti su base proporzionale e senza possibilità alcuna di indicazione della persona da parte dei cittadini, in misura così fortemente non corrispondente alla reale rappresentatività delle singole liste, è stato un elemento di vera crisi che ha prodotto lo stallo istituzionale nel quale si è, ahinoi, reso necessario fare amplissime concessioni allo stato di eccezione.
Opportuno, a nostro avviso, reintrodurre un principio di autentica rappresentatività quale può essere il metodo uninominale: che reca in sè la possibilità di eleggere persone realmente legate ad un territorio, permettendo così di superare quel deficit di rappresentatività che i partiti, dotandosi della legge Calderoli, avevano ignorato in maniera arrogante, producendo fragilità nella democrazia e amplificando grandemente l’inefficienza complessiva del sistema istituzionale e del sistema-Paese: se infatti non esiste democrazia senza rappresentatività, è altresì vero che la fictio rappresentata dal voto al simbolo, nel XXI secolo, ha rappresentato il paradigma, ed una delle massime espressioni, della incapacità della politica di esercitare un qualsivoglia primato nel nostro Paese.
Con la stessa elasticità mentale e culturale con la quale riconosciamo che la rappresentatività può conoscere forme diverse rispetto e al voto di lista e a quello di preferenza, riconosciamo altresì che la (quasi) completa uniformità delle leggi elettorali di Camera e Senato rappresenta un elemento importante ma non qualificante: ciò che conta innanzitutto, massimamente sotto il punto di vista formale, e grandemente (nelle società del XXI secolo), sotto quello materiale, è che entrambe le Camere siano rappresentative del proprio corpo elettorale. La ricerca della uniformità delle maggioranze, come garanzia della governabilità è sì un elemento decisivo di garanzia per una effettività della democrazia, ma le precondizioni sono altre;
3) la coincidenza temporale del voto politico e regionale: al di là del risparmio economico nelle due Regioni interessate (le più popolose), cosa che ci sembra importante ma comunque meno rispetto alla bontà della consultazione, e delle implicazioni politiche concrete (vantaggi per le formazioni più pronte e strutturate, vantaggi e svantaggi connessi alla coincidenza delle due competizioni in un momento politico non neutro rispetto a chi si contende il consenso), una cosa è, a nostro avviso, chiara: costringere a definire posizioni, schieramenti e aspirazioni personali dei vari componenti il ceto politico, una volta per tutte, reca in sè la possibilità del prodursi di svariati effetti virtuosi: minor trasformismo, minor carrierismo politico, maggiore stabilità negli organismi eletti e una migliore qualità del lavoro che essi svolgeranno.
Alla luce di questi elementi ci pare quindi poter dire che la gestione della fase, da parte innanzitutto del Presidente della Repubblica, sia stata perfetta: seria, giusta, virtuosa, buona, cioè produttiva di effetti e dinamiche positive.
Il resto, com’è giusto che sia, è compito di quelle forze politiche, di quel ceto politico, le cui tante incapacità e miopie hanno prodotto una condizione di grave crisi istituzionale, amplificato una gravissima crisi economica, dalle quali non siamo ancora usciti.
Non disponiamo degli elementi necessari per valutare ad ampio spettro, da un unico punto di vista, le liste dei diversi partiti, e d’altro canto non tutti i programmi paiono chiari e coerenti:
talune irresponsabili promesse elettorali, talaltre inopinate corse alla miglior candidatura e al salvataggio delle posizioni di rendita, proprie e dei propri soci politici, non hanno dato, fin qui, segnali particolarmente incoraggianti.
Particolarmente preoccupante ci sembra, poi, la dura semplificazione del dibattito politico, ridotta alla diade sovranismo/europeismo: al di là della nostra personale opinione (per la quale tecnocrazia e demagogia siano due facce della stessa, cattiva medaglia, quella che priva di senso la politica e con essa la possibilità dei cittadini di creare da sè nuove buone scelte, una rinnovata coscienza ufficiale), ci sembra che questa dicotomia nasconda e/o privi di valore tante altre emergenze, tante istanze, magari non sempre univoche, certamente nessuna perfetta, ma tutte in linea di principio rappresentative di pezzi di società, di bisogni, che non possiamo permetterci di perdere per strada, senza poi vederli ricomparire ogni volta in forme diverse, magari peggiori.
Riprendendo un pensiero di Giovanni Bianchi, l’antipolitica occupa quello spazio che la politica rinuncia a presidiare: è politica in nuove forme.
Ribadirlo, prima del momento di massimo valore simbolico e fondativo per una democrazia, quale le elezioni, ci pare fondamentale.
Luca Emilio Caputo