Varia è la grammatica del “credere”. Credere, infatti, può significare “essere convinti di qualcosa secondo la formula abituale ” non c’è dubbio”; oppure “avere una propria opinione” nella forma “io credo che…”. Ma “io credo” può anche significare “avere fede in qualcuno” nel senso di concedere fiducia, di prendere per vero qualcosa in base alle parole di un altro ritenuto credibile, appunto, degno di fede. Viviamo da tempo nell’epoca della scienza. In quest’epoca è possibile più che in ogni altra avere opinioni. Ma questo è tutt’altra cosa che possedere verità. In un mondo siffatto, le opinioni sono tutte suscettibili discussione, di dibattito. E, però, difficile assumerle come vere. Tranne che non vengano sottoposte al cosiddetto “vaglio della ragione”. E nel mondo moderno “razionale per eccellenza” è la scienza. In questo tipo di razionalità – almeno secondo Popper – una teoria può essere assunta come valida fino a che non venga smentita dall’esperienza ( più esattamente dalla sperimentazione ). Da questo punto di vista nessuna teoria può essere in assoluto vera. Infatti è possibile solo confutarla, mai verificarla nella sua interezza. Questo modello allarga – e di molto – l’ambito delle ipotesi; restringe – e di molto – quello della verità. Ma gli asserti “validi” sono troppo pochi per aiutare a vivere. Se l’uomo dovesse vivere di quelle verità non vivrebbe affatto. Allora vale il contrario: l’uomo vive di fede. E in questo caso fede non in senso teologico, ma in quello generale di “credenza”. Ogni uomo, infatti, si trova immerso in un mondo di certezze che lo precedono, che eredita e non accerta perché ad esse appartiene: sono il suo linguaggio. Il più della nostra vita, nonostante la scienza, si svolge nell’ambito della credenza. La solidità del mondo, la sua sicurezza non si guadagna per prova – nel senso scientifico del termine – ma la si ha per “esperienza: ci si muove in essa. Questo lo aveva ben compreso Agostino. Nello scritto La fede nelle cose che non si vedono scriveva che la vita sociale, i legami di amicizia, di fiducia si fondano su cose che non si vedono. Sono atti di fede, allo stesso modo in cui lo sono le credenze abituali. ” Tralascio di dire – scrive Agostino – quante cose della tradizione, della storia, o riguardo ai luoghi ove non sono mai stati credano coloro che ci criticano perché noi crediamo ciò che non vediamo, e come essi, a tal proposito, non dicano: ‘Non crediamo perché non abbiamo visto’. Poiché se dicessero ciò, sarebbero costretti ad ammettere di non avere alcuna sicurezza dei loro genitori, dato che anche su questo punto, non conservando alcun ricordo della loro nascita, hanno creduto al racconto di altri”. Quel che dice Agostino è ripreso in altro modo da Wittgenstein – peraltro suo attento lettore – quando afferma che possiamo dubitare solo in quanto ci muoviamo già in un ambito di certezze: ” 341 Vale a dire: le questioni, che poniamo, e il nostro dub bio, riposano su questo; che certe proposizioni sono esenti dal dubbio , come se fossero i perni su cui si muovono quelle altre” ( Della certezza). Se si fa un esperimento non si dubita dell’esistenza dello strumento con cui si sperimenta; allo stesso modo se si fa un calcolo non si dubita che le cifre scritte sulla carta cambino da sè. Il dubbio assoluto è impossibile. Esso è sempre preceduto da una qualche certezza. Si possono trovare metodi vari per vivere, ma non si vive per metodo. Questo ragionamento modifica il modo pigro d’intendere termini come “verità” ed “evidenza”, “fede” e mette sotto altra luce il rapporto tra il visibile e l’invisibile. Senza che ancora sia qui invocata alcuna trascendenza.
Se la “fede” la si identifica con l’ambito della certezza si può dire che in essa si è da sempre istituiti. Si può dire che tra gli uomini pochi sono gli scienziati ma, a diverso titolo, tutti sono più o meno credenti. Operiamo senza verità: più esattamente verifichiamo per pratica, seguiamo regole di condotta che bene o male ci conduco a buon esito. Di ben altra natura è la fede in senso teologico e più specificamente quella cristiana. Di molti, infatti, si può dire che sono non cristiani e tuttavia credenti: e non solo in altre fedi, ma semplicemente in Dio. Dio, infatti, non è solo il Dio di Gesù Cristo? Può essere l’indeterminato, il misterioso, perfino il fondo “senza fondo” del nostro domandare, della nostra stessa incertezza. Nietzsche, che su questo terreno era smaliziato, individuava una nuova genia di credenti negli agnostici del nostro tempo, in quei veneratori dell’ignoto e del misterioso, che “adorano ora come dio lo stesso punto interrogativo” (Genealogia della morale). Hanno elevato a Dio la “X”. Riflessione importante questa perché credere nel Dio di Gesù Cristo non è la stessa cosa che adorare la X. Ma il pensiero di Nietzsche dice di più della lettera del testo: negli adoratori della “X” egli segnala un bisogno: l’inestinguibile volontà di credere. Per dare senso compiuto all’esistenza. Più profonda è la crisi, più ampia la deriva, più forte è la volontà di credere. E oggi le fedi prendono e si diffondono: si tratta spesso di credenti senza Chiesa, di un sincretismo religioso senza legge, ove piccole sette o ognuno per proprio conto sono guardiani della loro stessa ortodossia. La fede cristiana guardata da fuori è anch’essa una credenza; considerata per se stessa è affidamento. E un’affidamento incondizionato. Il cristiano più che credere in qualcosa presta fede a qualcuno: si abbandona a Cristo. Il Dio di Gesù, come per gli ebrei, è il “Dio dell’amen”. Amen è la parola decisiva dell’ebreo e del cristiano. In ebraico amen significa “dimostrarsi saldo”, “avere consistenza”. Il Dio dell’amen è tale: in lui si ha fede perché in lui ci si sente sicuri, a lui si dice “sì”, appunto amen. Nella struttura della fede Tommaso d’Aquino individuava tre momenti: 1. il “credere dio” ( Dio è oggetto della credenza, esiste); 2. il credere a Dio (a quel che lui rivela, al contenuto della fede); 3. il credere in Dio. Questo terzo momento si riferisce alla volontà. In questo caso l’uomo si muove con tutte le sue forze verso Dio, lo compre nde come fine. Qesta mossa è quella vera: iniziale, decisiva, nel cristianesimo fondante. Questo affidamento incondizionato è oggi ancora possibile? E’ difficile dirlo. Non sembra, però, svanito del tutto il bisogno di affidarsi. Ma la fiducia non è un’atteggiamento neutro dell’intelligenza, è al contrario un lasciarsi conquistare, è vivere un’esperienza. Il cristianesimo potrebbe non essere vero dal punto di vista della ragione critico-scientifica, ma resta un’offerta di senso. Per essere valutato deve essere sperimentato: non può a priori essere escluso. Tuttavia alla fede non c’è passaggio. Essa resta essenzialmente un salto. Come ogni atto di fiducia è un rischio. Per questo può essere sempre perduta, deve essere ad ogni momento guadagnata.
Il non cristiano è estraneo all’offerta di salvezza. Per lui non ha alcun senso. Ma ciò non è sufficiente per dire che è insensata. Il confine tra senso e non senso non è mai definitivamente tracciato. Il cristianesimo quando è apparso ha dissolto vacillanti certezze. Ha dato, però, nuove sicurezze: significato e destino alla storia e alle vite. Oggi le certezze cristiane volgono al tramonto. Non così il bisogno di credere. Anzi!
Ma in che cosa? Non più nel cristianesimo, almeno in quello della tradizione. Allora in un nuovo cristianesimo? O in altro? Forse questo solo è costante nelle credenze: vengono lacerate e si ritessono. L’umanità, fino ad ora, sembra non ne abbia potuto fare a meno.