Il funzionamento dei partiti tra democrazia e rappresentazione.
Le leaderships politiche sono un elemento tipico delle società contemporanee, ma non così nuovo: al di là dell’ importanza che la figura del leader ha sempre rivestito nelle organizzazioni politiche moderne, è la storia dell’ uomo in generale ad essere sempre stata caratterizzata dalla presenza determinante di questo elemento.
E’ tuttavia innegabile che, nel corso degli ultimi trenta anni, l’importanza della leadership a carattere personale sia progressivamente cresciuta; al punto da assistere ad un frequente riorganizzarsi dei partiti intorno ad alcuni uomini di punta, persino alle loro vite prese a paradigma di una intera esperienza politica. Per alcuni di questi è forse improprio parlare di “leaders”, ma essi esercitano comunque una funzione di guida per pezzi anche molto piccoli di ceto politico. E’ il fenomeno del c.d. leaderismo.
Del resto, non è che le organizzazioni politiche siano, o siano sempre, o siano sempre state, entità dotate di una propria vita, elaboratrici e produttrici di un pensiero politico a carattere generale. Spesso si è trattato, piuttosto, di meri assembramenti, anche occasionali, di simili a tutela di interessi di parte. Ed in qualche caso è ancora così. Eppure l’idea più diffusa di partito che abbiamo è proprio quella di un gruppo organizzato dotato di una propria ideologia, di una struttura organizzativa sufficientemente capillare, e regolato dai princìpi della gerarchia e della abilità politica. Che si traduce naturalmente nella scelta del migliore, e dei migliori, per il comando.
Questo attiene, probabilmente, al residuo di una immagine, tradotta poi spesso in organizzazione della società e dello Stato, che i partiti di massa hanno dato di sè nel Novecento; ma il mondo che cambia, il fluire sempre più intenso di interazioni trasversali rispetto ai confini geografici, culturali e linguistici delle società nazionali, hanno eroso le possibilità che dei “nuclei d’acciaio” ideologici, sull’ esempio dell’ esperienza leninista, possano continuare a svolgere quel ruolo che hanno esercitato, a prescindere dall’ ideologia di riferimento, per sette-otto decenni.
Si può dire, quindi, che la nostra idea di politica continui (cosa tutto sommato giustificabile) ad essere informata da quella immagine residua di sè che i partiti hanno lasciato in eredità alla coscienza dei cittadini e degli elettori: nuclei di pensiero capaci di concorrere elettoralmente e, una volta insediatisi al potere in forma legale e costituzionale, plasmare la società.
In effetti, alla prova del tempo, sotto il mutare delle forme e delle direzioni della comunicazione politica, e quindi anche della produzione di nuovo pensiero politico, il rapporto di forza interno tra i leaders e i gruppi, sociali e di pensiero, al cui interno le leaderships si formano, muta.
Ed è mutato: laddove abbiamo assistito in passato ad una capacità dei gruppi di generare senso politico e sostituire i leaders, più recentemente quelli hanno -di solito con poco entusiasmo- manifestato il bisogno di disporre di una persona capace di rendere una sintesi, semplificata ed appetibile sotto il profilo linguistico-concettuale, dei propri orientamenti politici (nei casi più miseri, delle proprie posizioni politiche), in grado di garantire, per mezzo del consenso elettorale, la sopravvivenza al gruppo.
Non impropriamente, qualcuno associa la figura ed il ruolo del leader di questa fase storica a quelli del c.d. “front-man” di un gruppo musicale: è perfettamente plausibile che il gruppo abbia la propria identità e che i singoli componenti siano anche più bravi del leader, tuttavia è innanzitutto la sua persona a caratterizzare nei confronti del grande pubblico i tratti artistici di quel particolare complesso. Ciò che conterà alla fine, insomma, sarà la capacità dell’insieme di funzionare: di produrre, cioè, brani coerenti con l’ idem sentire del complesso ed apprezzabili dal pubblico.
Personalmente ritengo si tratti di una mera contingenza della storia: nulla esclude infatti che un domani si renda necessario invertire ancora i rapporti di forza. D’ altro canto, per il loro essere più visibili, i leaders sono più esposti; e per questo più esposti all’ usura.
Intendiamo, perciò, soffermarci sulla sostituibilità, la rimozione e la sostituzione delle leaderships come momento cruciale nella vita di un partito e come criterio ispiratore nella sua conduzione.
Cosa accade ad un partito che si trova nelle condizioni di dover sostituire un leader?
Quale eredità rimane, a seguito della sua rimozione?
In sè, il momento della rimozione, se pure può essere significativo come indicatore di democrazia interna, non vale a sgombrare il campo di ciò che una vera leadership, caratterizzata, ingombrante, eccedente, lascia: nel momento in cui viene rimossa, nel bene o nel male questa lascia necessariamente dietro di sè una nebulosa di dinamiche, rapporti, e suggestioni, con i quali tocca fare i conti.
In qualche modo, pur nell’ evanescenza degli effetti della pop-politica, per qualche tempo questi elementi rimangono ed i loro effetti continuano a dispiegarsi, fino a che il conduttore del partito non venga effettivamente sostituito, nella funzione oltre che nel ruolo.
Questa problematica assume massima rilevanza quando si tratta di un partito a vocazione maggioritaria e improntato ad un principio democratico: se i partiti di nicchia, i “sindacali” e quelli “personali”, connotati da forte autoreferenzialità e rivolti ad un elettorato preciso, hanno maggiori possibilità di ritrovare coerenza interna semplicemente sostituendo una parte della macchina (diversamente, sono destinati alla dissoluzione), i partiti democratici e a vocazione maggioritaria, dovendo interpretare pezzi di società non “appartenente”, hanno la necessità di adoperare già al proprio interno le prassi coerenti con il loro obiettivo; vale a dire, che gruppo dirigente e leader funzionino insieme in una dinamica strettamente relazionale e interlocutoria.
L’ alternativa a questo è che, come due centri di gravità accoppiati, uno finisca per assorbire tutta la materia dell’altro, cambiando definitivamente forma e direzione al sistema-partito; che, cioè leaderships troppo forti assorbano la sostanza del partito, o che gruppi dirigenti troppo forti implodano dopo aver fagocitato il leader.
Privo delle dinamiche relazionali implicate dalla presenza di controparti in dialogo, l’insieme diventa insensibile rispetto a quanto accade al proprio esterno: cosa incompatibile con le esigenze di un partito a vocazione maggioritaria.
Continuare ad operare nuova sintesi politica, recependo l’ uno gli elementi positivi (ossia, migliorativi rispetto alla necessità del partito di continuare ad interpretare pezzi diversi di società), dell’altro, è fondamentale per:
1) evitare in ogni momento la deriva del sistema verso forme autoreferenziali incentrate sulla figura del leader o sulla stabilità dell’apparato di partito;
2) porre in essere le basi perchè i lasciti positivi permangano come un valore all’interno dell’ organismo-partito, facendo patrimonio comune delle dinamiche positive che l’azione del leader sostituito aveva generato e che, in qualche modo, continuano ad influenzare il sistema.
Solo a fronte di una adeguata crescita nella densità e nella qualità del pensiero politico di un gruppo è, insomma, possibile rielaborare i lasciti delle leaderships e costruirne di nuove, che non siano di mera rappresentanza ma di vera rappresentazione, e continuare così ad esercitare forza di attrazione al proprio esterno.