Qualche anno fa Lucio Caracciolo, delineando la diversa natura del potere in due Stati che si richiamavano ambedue all’ideologia del partito Baath, l’Iraq e la Siria, affermava che la corte di Saddam Hussein ricordava vagamente il Terzo Reich, con tutti quei politici travestiti da generali. Nello stesso tempo, quello di Damasco pareva invece un regime di tipo franchista, con generali travestiti da politici a partire ovviamente da Hafiz al Assad, a cui il doppiopetto presidenziale non aveva mai fatto venir meno il polso soldatesco, come si resero conto a loro spese molti malcapitati.
In ogni caso, nulla era più distante dai due regimi dell’ispirazione originaria del movimento baathista, nato ufficialmente nel 1940, che era panaraba e socialista, e se qualcosa si era conservato stava essenzialmente nella “laicità” dell’impostazione di fondo, peraltro rispecchiata dalla diversa origine religiosa dei tre fondatori, il cristiano ortodosso Michel Aflaq, il musulmano sunnita Salah ad Din al Bitar e l’alauita Zaki al Arsuzi. In fondo il messaggio del Baath (che in arabo significa “resurrezione”) era proprio questo: l’unità degli arabi prescindendo dalle divisioni religiose ed in nome di un messaggio unificante che più che alla sharia guardava agli ideali socialisti rielaborati secondo una prospettiva araba. Gli stessi ideali, al fondo, erano in sostanza condivisi da altri movimenti dell’area mediorientale e nordafricana come il socialismo desturiano di Burghiba in Tunisia, il FLN algerino ed il movimento dei “giovani ufficiali” egiziani che faceva capo a Gamal abdel Nasser.
Tutti questi movimenti avevano in comune una forte animosità nei confronti del colonialismo europeo, in particolare quello inglese e francese; agli Inglesi soprattutto rimproveravano l’essersi rimangiati la promessa fatta per il tramite del tenente colonnello Lawrence ai potentati arabi di favorire la nascita di un’unica nazione araba se si fossero uniti alle potenze dell’Intesa contro l’Impero Ottomano durante la Prima guerra mondiale. Non solo ciò non accadde, e francesi ed inglesi succedettero ai Turchi nei loro “protettorati” in Palestina, Libano, Siria ed Iraq, ma la dichiarazione da parte britannica di voler favorire la nascita di un “focolare ebraico” in Palestina parve (ed era) il prodromo della nascita di uno Stato ebraico , il che iniziò ad alimentare una tensione fino ad allora sopito fra cristiani, ebrei e musulmani.
Questo spiega ad esempio le ragioni delle simpatie per il Terzo Reich di molti capi arabi, che nella politica antinglese ed antisemita di Hitler trovavano un’eco della loro esasperazione. D’altro canto, la sconfitta dell’Asse e la nascita (favorita da tutte le Potenze vincitrici, URSS compresa) dello Stato d’Israele non fecero altro che gettare discredito sulle classi dirigenti tradizionali dei Paesi arabi provocando una ventata di nazionalismo che portò alla detronizzazione dei sovrani di Egitto ed Iraq e alla nascita di regimi impregnati di panarabismo, oltreché al crescere della lotta armata del popolo palestinese per ottenere la creazione di quello Stato che era stato promesso dall’ONU all’atto della costituzione di Israele (solo che nella versione originaria dello Statuto dell’OLP, costituitosi nel 1964 nella Gerusalemme sotto sovranità giordana, si auspicava la distruzione dell’”entità sionista”).
Sta di fatto che almeno fino agli anni Ottanta tutti i Paesi e le forze politiche che incarnavano il nazionalismo arabo, al cui fianco si era alfine schierato il blocco orientale nel contesto della Guerra fredda, erano essenzialmente laiche ed indifferenti al richiamo dell’Islam radicale, il quale ebbe la sua prima rivincita nel 1978 in Iran (Paese come è noto a maggioranza sciita) con l’abbattimento dello Scià da parte dei fedeli dell’ayatollah Khomeini. Fu in quel periodo che USA ed Israele presero due decisioni esiziali: i primi sostennero in ogni modo il regime baathista iracheno guidato, dopo una sanguinosa lotta interna, da Saddam Hussein, la seconda aiutò l’ascesa del movimento radicale sunnita di Hamas in funzione anti – OLP.
Diciamo che i due Paesi alleati si crearono da sè i loro futuri nemici, come dimostrò il prosieguo degli avvenimenti.
In queste ore l’Amministrazione Obama sta valutando la possibilità di un intervento “limitato” (qualunque cosa ciò significhi) di tipo aereo nei confronti del regime siriano, il quale sul campo sta piegando dopo due anni di violenze di ogni tipo e da ambo le parti un movimento di ribelli in cui sembra prevalere l’elemento qaedista. Dopo il fallimento iracheno e il perdurare di una guerra civile strisciante in Libia ed in Egitto il rischio vero è quello di una conflagrazione in cui alla fine nessuno più potrebbe controllare la situazione sul campo.
“Violenza chiama violenza, guerra chiama guerra” ha detto Papa Francesco all’Angelus di domenica 1 settembre, rifiutando implicitamente ogni distinzione (del resto impossibile) fra buoni e cattivi ed appellandosi al dialogo come via per la giustizia e la pace. Sarebbe il caso di ascoltare questo appello.