La vicenda politica di Mino Martinazzoli iniziò sotto il magistero di Aldo Moro, e non poteva essere differentemente perché le due figure erano simili sotto il profilo umano ed intellettuale: due nature schive, animate da una fede profonda e da un’altrettanto profonda curiosità intellettuale, un’attenzione alla politica come professione nel senso più alto della parola, una malinconia di fondo che gli derivava dalla laica presa d’atto della circostanza che la politica non è tutto, anche se è importante.
Questa lezione fu sempre presente a Martinazzoli, il quale aggiungeva alle doti mutuate dal suo maestro un vivissimo senso dell’umorismo che attingeva ad una cultura eccezionale e ad una visione disincantata della politica che però non era estranea alla suggestione delle idealità e dei “pensieri lunghi”. La sua carriera politica, iniziata nella peculiare realtà di Brescia, dove si è realizzata una delle poche esperienze di una borghesia cattolica di sentimenti liberali e democratici e pensosa del bene comune (quella dei Montini, dei Bazoli, dei Trebeschi …), per poi svilupparsi a livello nazionale con importanti incarichi senza che mai una macchia, o una voce di scandalo, infangasse il suo nome.
Proprio questo faceva aumentare fuori e dentro la Democrazia Cristiana la considerazione per questo personaggio tanto strano e diverso rispetto ad un ceto politico che andava sempre più ingaglioffendosi, e molti nel 1989, all’atto dell’uscita di scena di Ciriaco De Mita – con il quale non sempre andava d’accordo – dalla guida della DC deprecarono che egli avesse scelto di non candidarsi contro Arnaldo Forlani, esponente delle componenti più moderate. Tuttavia fu lui in quel Congresso, l’ultimo del partito scudocrociato, a svolgere l’intervento che riscosse il maggiore interesse dentro e fuori la platea, ricordando le ragioni fondative del partito e ricordando che la sua capacità di futuro stava nella sfida di reinventarsi su basi etiche più solide facendo fronte ad un cambiamento annunciato dallo sgretolarsi dei regimi comunisti dell’Europa orientale.
La dirigenza uscita dal congresso, basata sull’asse di ferro Forlani-Andreotti, preferì continuare come se nulla fosse crogiolandosi in un’illusione di eternità nel rapporto privilegiato con il PSI craxiano, e venne travolta dal rimettersi in movimento di un sistema politico bloccato attraverso la crescita impetuosa di nuovi soggetti politici come la Lega Nord e l’esplodere delle vicende di Tangentopoli. Fu così che nell’autunno del 1992 Martinazzoli venne chiamato alla guida del partito come extrema ratio: qualche tempo dopo Pierferdinando Casini – che pure era stato fra quelli che lo avevano invocato come salvatore della patria – lo definì in tono sprezzante il “curatore fallimentare” della DC, e Martinazzoli ricordò sommessamente che il curatore arriva quando i precedenti titolari hanno fatto fallimento.
Di fronte ad una crisi di sistema pensare di conservare intatto il ruolo della DC, che del sistema era l’architrave, era a dir poco aleatoria, e Martinazzoli se ne rese conto subito: da qui la scelta di tornare alle radici dell’impegno politico dei cattolici democratici attraverso la riscoperta del popolarismo, separandosi dall’idea del “partito – stato” per tornare a quella del “partito – programma” così cara a Sturzo. La rifondazione del PPI avvenne nel gennaio del 1994 parallelamente alla nascita di Forza Italia, e la progressiva scelta delle componenti clerico moderate della DC di raggiungere il campo berlusconiano segnava in qualche modo un confine che era nelle cose e che, dopo il ritiro di Martinazzoli, venne definito da coloro che lo seguirono. D’altro canto, lo stesso Martinazzoli, accettando la candidatura a Sindaco di Brescia offertagli da PPI e PDS sul finire di quello stesso 1994 segnò il cammino degli anni a venire.
Dopo la sfortunata campagna per le elezioni regionali lombarde del 2000 Martinazzoli si ritirò progressivamente dalla politica attiva per dedicarsi allo studio, riprendendo la parola quando lo riteneva necessario, come quando nel 2006 fece attiva propaganda per la bocciatura della riforma costituzionale voluta dal tandem Berlusconi – Bossi.
La sua memoria rimarrà viva fra coloro che ancora credono nella politica come esigente scelta di vita.