Ha ancora senso discutere di classi sociali?

Il dibattito pubblico sul tema delle “classi sociali” non coinvolge più da tempo la parte politica progressista poiché non sembrerebbe essere prioritaria la ricerca di una sintesi sull’ineludibile concetto ad esse collegato di “lotta di classe”, in una società che è soventemente immaginata come piattamente inter-classista, o forse sarebbe meglio dire a-classista.  Certo secondo il lessico corrente quando si invocano locuzioni diventate arcinote come “classe operaia o meglio working class, middle class (l’inglesismo è d’obbligo si sa), proletariato, padroni, borghesia, élites”, in realtà si utilizza una terminologia che non ha più un significato univocamente riconosciuto. Quindi non si tratta soltanto di una mancanza di rappresentanza dal punto di vista eminentemente politico, ma anche da quello sociologico, essendo mutata (e di molto!) la realtà contingente, e parvendosi sfarinate le precedenti categorie di pensiero cosiddette “novecentesche”.

Potrebbe sorgere spontaneo l’interrogativo se nel terzo millennio abbia ancora senso parlare di “classi sociali”? O forse ci si concentra su un concetto che allo stato appare oramai superato? D’altro canto la suddivisione tra le due classi egemoni che hanno contraddistinto l’epopea industriale, cioè la borghesia (che deteneva per postulato i mezzi di produzione) ed il proletariato (ovvero chi aveva da offrire soltanto la propria forza lavoro) è oggettivamente insufficiente per comprendere la temperie attuale.  Che cosa è successo allora al glorioso termine di “classe sociale” che per molti anni invece è stato al centro dell’attenzione politica?  Oggigiorno infatti è diventato normale constatare che nelle società avanzate i cittadini complessivamente non risultano quasi mai in una posizione di eguaglianza, senza evocare però le differenti classi sociali di appartenenza, giacché di default c’è chi ha a disposizione molte più risorse e chi ne ha assolutamente di meno, e questa discrasia di partenza condiziona marcatamente il destino delle persone.  Poi per rendere meno indigeribile l’analisi si tende a preferire l’utilizzazione di termini come “diseguaglianza”, quello di “compagine sociale”, oppure di mancanza di “giustizia distributiva”, che assegnano alla questione un’aura più neutrale: sì perché lo scopo è quello di non fare i conti appunto con il concetto ritenuto obsoleto e passatista di “classe”.

Ecco quindi che ricorsivamente emerge il pensiero che le classi non esistano più, giustificando tale asserzione con diverse spiegazioni:  ad esempio una marcata crescita del  “ceto medio”,  come effetto di una adesione generalizzata a stili di vita che in precedenza erano appannaggio soltanto di pochi privilegiati. Per questo motivo ci sono opinionisti che affermano che il concetto di classe sarebbe oramai del tutto fuori luogo, a causa dell’omologazione indotta dei bisogni e dei consumi. In parte ciò potrebbe essere vero, tuttavia si assiste parallelamente anche ad una crescente polarizzazione delle diseguaglianze complessive, ed al fatto che non può esistere una classe sociale in assenza di una forte coscienza collettiva dei propri diritti.  Secondo diversi opinion leader quindi, saremmo diventati quasi tutti classe media, mentre la working class sarebbe in forte contrazione. Tale dato però è sovrastimato, il lavoro esiste ancora nonostante le ampie riverberazioni causate dai processi di digitalizzazione e dall’implementazione dell’Intelligenza Artificiale. La distinzione di classe è però ancora poggiante essenzialmente sul possesso o meno dei mezzi di produzione, il che non significa che i “proletari” (un altro modo per definire i lavoratori) non posseggano dei beni personali, come una casa, la televisione, lo smartphone od il computer.  Non hanno però il controllo dei “mezzi di produzione” quali i macchinari, gli edifici, gli strumenti che sono in possesso invece di chi detiene il capitale.

Questo cambiamento di paradigma però ha determinato la marginalizzazione del conflitto storicizzato tra la “borghesia” ed il “proletariato” della prima fase dell’industrializzazione, poiché sono divenute entrambe le categorie molto più sfumate; sono compagini sociali ormai accomunate precipuamente soltanto dal consumo e dal profitto. In questo sistema però la middle class è sempre più spesso aspirata verso il basso, andando a rimpolpare la congerie dei nuovi poveri. La società nel suo complesso appare bloccata, l’ascensore sociale si è rotto, non c’è più quella possibilità di mobilità che consentiva di poter sperare nel miglioramento delle condizioni di vita di molti lavoratori. In tale dimensione mercatista totalizzante è molto più difficile riconoscersi in questa o quell’altra frangia della società civile. In un contesto dove (in teoria) tutti sono eguali e tutti hanno le stesse ambizioni, la differenza è marcata da un complessivo giudizio di tipo meritocratico: da una parte c’è “chi ce l’ha fatta”, dall’altra semplicemente “chi ha perso”.  Il concetto tradizionale di classe va quindi ridefinito:  il proletariato oggi non è più soltanto la classe operaia, ma comprende anche quelle categorie che sono state vittime negli ultimi anni della trasformazione dei processi produttivi nelle società avanzate, e sono risultate quindi alla fine “perdenti”. Contemporaneamente vi è stato anche uno slittamento del focus politico dai “diritti sociali” per concentrarsi sui “diritti civili”, in quanto la contrapposizione non ha più alla base soltanto le ragioni dell’economia che connotavano le diverse fazioni; non più quindi il conflitto tra “padroni ed oppressi”, ma l’identità che scaturisce magari dall’orientamento religioso, da quello sessuale, dalle molteplici posizioni sulle questioni etiche. 

Comunque la querelle non può ridursi ad una semplice diatriba lessicale ed è urgente una presa in carico sul piano politico. Nel corpo tumultuoso della sinistra nostrana si dibatte intorno alla necessità di superare le vecchie nomenclature per identificare le nuove perimetrazioni dell’ineguaglianza, delle questioni razziali, di quelle di genere, essendo impossibile restare fedeli ad una visione che mantiene il suo centro prevalentemente soltanto sul dato economico. Quel che permane ancora un problema sul tema della classe è la sua interpretazione politica, le opinioni sono diversificate poiché è difficile darne una definizione univoca. Se tale concetto sia associabile poi ad una qualche forma di “coscienza di classe”, e se sia possibile sperare in una possibilità di “emancipazione”, cioè di ancorare un forte senso di appartenenza relazionale ad un gruppo sociale, chiamando in causa l’azione politica collettiva.  In un contesto dove l’individualismo è incentivato, dilaga e prospera, sentire di non essere soli a gestire la paura per il futuro e di essere consapevoli di appartenere ad un corpo collettivo, è un fattore che permette di immaginare un argine al turbocapitalismo imperante; ma anche la possibilità di sviluppare l’unità e la solidarietà con chi magari “non ce l’ha fatta”, o ce la fa a malapena.  Qualcuno potrebbe anche avanzare l’ipotesi che le classi sono un concetto fuori dal tempo perché parte dell’interpretazione marxiana della società,  e quest’ultima sembra essere ormai sorpassata; fatto sta però che in relazione al malcontento diffuso, la classe operaia e la piccola borghesia sono oggi sicuramente più lontane in termini di soddisfazione non soltanto dal ceto dei dirigenti, ma anche da quello degli imprenditori e dei liberi professionisti.

Se enormi masse di denaro si possono spostare facilmente da una parte all’altra del mondo nel game finanziario, unite a politiche fiscali neo-liberiste, che hanno l’effetto di prosciugare i bilanci pubblici; se la delocalizzazione delle imprese dove il costo del lavoro è molto basso, aumentano i tassi già elevati di disoccupazione, il risultato è quello della contrazione di servizi e di benefici per i cittadini, specialmente per quelli meno strutturati.  Cambia così anche la geografia delle classi, se si analizzano in filigrana le grandi disuguaglianze, si può intravedere una “lotta della classe media” per non essere risucchiata verso la miseria; una “lotta tra poveri” esclusivamente per il fatto di poter sopravvivere; ed infine una “lotta delle grandi major multinazionali” per difendere le loro posizioni monopolistiche.

La questione comunque continua ad attraversare il dibattito pubblico politico seppure sottotraccia, con una destra che imbonisce le masse popolari e contemporaneamente favorisce spesso le élites, mentre la sinistra sembra vivere ancora in una profonda fase di ristrutturazione, anche se il fatto di mettere al centro questioni come la sanità e la scuola pubblica, la tematica della casa,  il salario minimo e la lotta allo sfruttamento nel mondo del lavoro, rappresentano di per sé delle precise “scelte di classe”

Andrea Rinaldo

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2 commenti

    • Andrea Rinaldo il 10 Settembre 2024 alle 13:24

    Grazie Nicola Vitale per il tuo commento, i cui rilievi condivido pienamente. La “letargia” che affligge il pensiero critico e spesso quello proveniente dal campo progressista, è un “virus” molto difficile da debellare.

    Noi alimentiamo il sito web proprio per suscitare un dibattito, per uscire dall’ abbraccio soporifero con Morfeo, e per costruire invece nella realtà che accomuna la gran parte dei cittadini un punto di vista “altro”. È anche questo uno degli scopi del nostro Corso di Formazione alla Politica, che partirà il prossimo 12 ottobre, al quale ti invitiamo a partecipare, per continuare una analisi non convenzionale della fase.

    • Nicola Vitale il 10 Settembre 2024 alle 12:16

    Analisi costruita con rigore logico e adeguato approfondimento . Scuote l’albero del pensiero indolente o pigro, incapace da anni di immergersi nei problemi reali se non in modo generico e spesso superficiale.
    O anche occasionale. Se è difficile coniugare le categorie del pensiero critico e delle rivoluzioni del XIX-XX sec. alla luce delle società diverse e nuove del tempo nuovo, si vive oggi una fase letargica quasi di attesa catartica. Per dire, in sostanza, che fatte poche lodevoli eccezioni sembra mancare la robustezza del pensiero critico e creativo che interpreti i nuovi bisogni delle masse globalizzate. Si annunciano i grandi problemi, li si analizza talvolta non senza acume, ma spesso permane accademia o retorica concettuale, mentre il turbo capitalismo continua imperterrito il suo percorso divoratore e ingordo. Il ‘pensiero debole’ è estenuato, permane la nostalgia dei grandi maitres à penser e la speranza di una difficile palingenesi.

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