“Dossetti visse la politica nell’ottica con cui visse la Resistenza: un dovere contingente dell’ora per rendere credibile agli uomini che la fede non era fuga dai loro problemi”. (Pombeni) Un dovere contingente dell’ora. Non altro. L’impegno politico non poteva configurarsi nè come un mestiere nè come una vocazione. Esso si iscriveva nello spazio di una occasione, di un kairos. Manca alla contingenza la dimensione della durata, la dimensione del permanere.
Sentiamo Dossetti:
Il Signore si può servire per un momento di noi. A questo dobbiamo essere prontissimi. Però nonostante tutto dico: non c’è incompatibilità di principio tra fede e politica, può accadere che a volte siamo chiamati a fare politica, in una circostanza, in un determinato momento, per un certo breve periodo, episodicamente. E’ un servizio che in un certo momento può esserci chiesto, purché noi siamo ben convinti che il servizio deve poi durare poco.
E’ nello spazio aperto dalla contingenza che esplode l’anteriorità e l’intensità dell’impegno, il caso serio del politico, lo sguardo panoramico sul tempo. C’è un carattere frenetico nell’impegno del Dossetti politico, una intensità sconvolgente, come se nell’attimo della storia si aprisse l’ansia di un problema, la definitività di un approccio.
La storia della Chiesa è come una commedia che si svolge nel tempo; ma quella di ogni cristiano è una tragedia. Il cristiano vive il senso drammatico della sua epoca. Oggi noi abbiamo il senso delle urgenze: non è tanto un problema politico, quanto di temperamento. Abbiamo il senso delle possibilità non afferrate. Questo non tanto per vedere negativo, quanto per una critica costruttiva.. Oggi noi cristiani siamo ammalati del senso della rinuncia, del senso del rinvio.
C’è in Dossetti una urgenza, un assillo, quello dell’opportunità che si affaccia sulla contingenza del tempo. E poi si chiude, quasi irreparabile, in una vicenda storica che è un intreccio di pieni e di vuoti, di presenze e di assenze. In questo senso possiamo dire che Dossetti vive il politico come stato d’eccezione. E’ un atteggiamento che ritroveremo anche altrove, per esempio nel 1965, in una lettera al suo vescovo nell’imminenza di un importante dibattito al Concilio sulla pace:
Ho pregato e faccio pregare per Lei e per tutti: mi sembra proprio che questa sia per tutti un’occasione unica, che per ognuno si dà una sola volta nella vita: o diciamo queste cose ora o non le potremo dire mai più.
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Ma cosa lega in modo così intimo contingenza e politica? La percezione via via più chiara della fine della cristianità.
La strada che percorreva Dossetti era esattamente contraria a quella che teorizzava in quegli anni Carl Schmitt: non era tanto lo Stato moderno ad avere introiettato categorie teologiche, ma piuttosto il contrario, era la Chiesa cattolica che aveva finito per autorappresentarsi con le categorie della politica moderna.
In sostanza, da secoli una concezione, che vede la Chiesa quasi soltanto come un analogo della polis (e si badi non nel senso biblico, paolino e giovanneo, ma nel senso aristotelico), coglie la Chiesa soprattutto nella sua formalità di societas perfecta e quindi di ordinamento giuridico pubblicistico, gerarchico, dotato di giurisdictio e precisamente della triplice potestà legislativa, giudiziaria, esecutiva( cfr per questo certe pagine della Enc. Quas primas sulla regalità di Cristo): quindi imposta tutti i problemi – e fra gli altri, in particolare, il problema dei membri e il problema dei rapporti tra gli organi costituzionali – nel senso di una analogia rigida e praticamente esclusiva con i problemi della società politica, dello Stato.
Quale domande poneva al politico una Chiesa che liquidava fino in fondo la sua autorappresentazione giuridicistica? In regime di cristianità la valenza spirituale della politica era in qualche modo già data, era concordataria, pattizia. Il sacramento del potere era una sorta di cosificazionedella dimensione spirituale del politico. La teologia scolastica ne dava una giustificazione per così dire metafisica. La spiritualità della politica era una sorta di status, mai un atto di creatività. Essa si riduceva ad una sorta di processo di sacralizzazione. Se si analizza il pensiero politico e sociale cattolico dopo l’esperienza sturziana non può non colpire la sua passività. E non già per un difetto di scuola, ma per uno stile argomentativo che è quello della assunzione, della sacramentalizzazione. Uscire da questo stile voleva dire affrontare il nodo ecclesiale. Solo questo avrebbe consentito di liberare il politico dal suo processo di sacralizzazione. In una riflessione del 1953, quando aveva ormai da due anni abbandonato la militanza politica attiva, Dossetti lo esplicitava con estrema chiarezza:
Il senso della fondamentale insanabilità della società civile si accompagnava con un senso sempre più crescente della criticità della situazione ecclesiale, accompagnato quest’ultimo da un desiderio di cognizione ed operazione..Io ricomincio da zero muovendo da quelle due fondamentali convinzioni che erano alla base della mia posizione del 1940: la catastroficità della situazione civile e la criticità del mondo ecclesiale e la convinzione che esistano dei rapporti tra i due termini..La criticità della situazione ecclesiale deriva dal prolungarsi per molti secoli, fino a raggiungere un grado molto avanzato, di un certo modo cristiano cattolico di intendere il cristianesimo e di viverlo, che se si dovesse definire in formula puramente descrittiva di dovrebbe definire attivistico e semipelagiano nel suo aspetto teologico. per sé il cattolicesimo non è questo, ma semipelagiana è gran parte della letteratura dottrinale e dell’azione concreta dei cattolici; cioè un semipelagianesimo accidentale e non sostanziale..
Il cattolicesimo italiano finiva insomma per attribuire all’azione e all’iniziativa degli uomini rispetto alla Grazia un valore di nove decimi”
Di qui l’urgenza di un profondo ripensamento delle basi della riflessione teologica.
Forse la nostra impresa si qualifica bene, se si dice che essa è un’impresa di ricerca intorno all’essere e al muoversi della Chiesa nella storia, assumente per asse conoscitivo la teologia biblica: sul presupposto che mentre la teologia speculativa comprende la rivelazione mediante la filosofia razionale, la teologia biblica la comprende nelle stesse sacre pagine.. E’ sotto la pressione dell’ autidus fidei che si impegna e si elabora l’ intellectus fidei
Era una strada completamente nuova, che si rifaceva alla grande Tradizione dei Padri, era la strada del primato della Parola. Non è la storia che interpreta la fede, ma viceversa è la fede che incessantemente interpreta la storia. C’è un primato dell’ascolto, il solo che consente l’intelligenza cristiana del proprio tempo. E non c’è intelligenza credente senza “sapienza”. Si apriva così la percezione di una libertà del cristiano nel tempo che se segnava nell’intimo lo stile politico. Il che voleva dire rimettere in discussione radicalmente la dimensione politica ed ecclesiale della cristianità. Il tema è centrale. La rilevanza del carattere semipelagiano della cristianità italiana andava al cuore del rapporto tra fede e politica, tra storia e Grazia. C’è un nesso strettissimo che lega il mito della “nuova cristianità” a questo vissuto semipelagiano della fede.
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Cosa voleva dire quella libertà nella fede? E come tale libertà intersecava la storia? Uscire da questo vissuto semipelagiano della fede voleva dire anche riscrivere le condizioni dell’impegno politico, riscoprirne insieme il carattere contingente e profondo.
Occorre che essa ( la comunità cristiana), perseguendo sempre più genuinamente il suo fine proprio con i suoi mezzi propri, lasci eventualmente ai singoli cristiani o a gruppi di essi di muoversi dentro il gran mare della storia in base ad un certo progetto di società. Occorre però che siano adempiute molto più di quanto sia stato finora tre condizioni precise:
– che questo progetto sia non solo nominalmente, direi per una “pia fraus”, ideato e perseguito anche praticamente, in modo totalmente distinto dalla comunità di fede;
– Che esso abbia una sua genialità creativa (cioè non sia una rimasticatura di dottrina e progetti altrove nati) e abbia una sua validità storica, risponda cioè ad un momento reale della storia, interpretando non solo con scienza (cioè con intelligenza), ma anche con sapienza (cioè con l’intuizione);
– e che infine esso nasca da un senso di giustizia disinteressata e soprattutto di carità genuina verso i compartecipi sociali, specialmente verso le categorie evangeliche privilegiate (i poveri, gli umili, i piccoli).
Se non fosse così i gruppi cristiani debbono piuttosto astenersi da un proprio progetto e riconoscere di non avere nessun titolo che li abiliti più di altri a costruire dottrine o a tentare di realizzare un qualunque progetto sociale.
La possibilità di un “progetto politico” di gruppi di cristiani è legato a condizioni precise che possono esserci e non esserci. Non esiste una specifica competenza cristiana per la politica, né questa è essenziale al rapporto tra fede e storia. Può accadere che, in determinati momenti, in alcuni passaggi d’epoca, gruppi di cristiani siano coinvolti nell’impegno politico. Le condizioni che Dossetti pone sono chiarissime: non solo non devono coinvolgere la comunità di fede, ma deve esserci un progetto originale, profondo, che a partire dagli ultimi, sappia dare soluzioni efficaci ai problemi del proprio tempo.
Quello che non può esserci è un impegno politico comunque, che non è, né può essere il proprium del cristiano. Tale proprium è spiegato in una pagina successiva:
La città -pur non potendo mai coincidere con la comunità dei credenti e pur con i suoi rischi paurosi – ha però una possibilità di non essere pura perdizione e di potere rinnovarsi secondo progetti – sempre inadeguati e sempre periclinanti – che tuttavia ne evitino le più tremende catastrofi: tale possibilità sta solo in questo che i cristiani (tanti o pochi che siano nella città) non ricorrano – né per difendersene egoisticamente, né per usarne strumentalmente, né per volerla presuntuosamente sanare – non ricorrano, dico, a dei mezzi umani che sarebbero sempre dei “mezzucci” grotteschi e disperanti, ma essi, i cristiani, vivano l’inenarrabile avventura di essere sanati e guidati, nelle loro persone e nelle loro comunità di fede, dall’Amore trinitario.
Esistono certo i progetti politici, sempre “inadeguati”, sempre “pereclinanti”, ma la libertà del cristiano nella storia è affidata all’”inenarrabile avventura” della loro vita trinitaria. La storia dell’uomo appare come un insieme di possibilità di perdizione e di rinnovamento proprio perché è attraversata dalla storia della salvezza che ne capovolge la logica e l’intenzione. La politicità della fede è nella propria capacità di testimonianza, dimarthuria.
Noi stiamo torturandoci, e giustamente, intorno al problema di una presenza efficace della Rivelazione e della Grazia, del cristiano nella pasta dell’umanità e della storia. E noi sappiamo che esso nasce dalla nostra fedeltà alla fede nel Verbo fatto carne, morto e risorto.. Il cristiano può adottare grosso modo due metodi diversi..; e cioè credere che la sua presenza sia in funzione di una presenza materiale, di una adeguazione quotidiana al quotidiano degli altri, preoccupandosi di una presenza quanto mai incessante me quantomai aggiornata, nel senso più letterale della parola, perché l’aggiornamento arriva precisamente al giorno per giorno. Altro tipo di presenza è quello invece del cristiano che vuole essere presente perché si assume le sue responsabilità cristiane ed evangeliche di fronte ai problemi veri dell’umanità, e se le assume fino in fondo, costino quel che costino, costino, per esempio, anche l’incomprensione da parte di chi giudica dal punto di vista del quotidiano, o il rifiuto da parte del mondo, o in un’altra misura, la perdita di ogni possibilità di potere, almeno in apparenza, sulla storia che si sta facendo in quel momento. (1966)
L’impegno politico non si sottrae a questo dilemma: esso non cade nella categoria dell’”aggiornamento” al mondo ma su quel crinale scosceso che lega profezia e storia. L’impegno politico è un’occasione per testimoniare la propria compagnia con gli uomini. Infatti l’”aggiornamento”:
finisce col non dire l’unica parola evangelica che doveva essere detta proprio per suo mezzo, finisce insomma per essere una presenza, che invece di mettere veramente il Vangelo dentro, lo caccia fuori. Indubbiamente questa mancata presenza si ricollega al problema del rapporto Chiesa-potere, in quanto in gran parte è dipesa da una considerazione preminente, consapevole o inconsapevole, di tale rapporto.
Il mancato approfondimento del rapporto tra Chiesda e potere ha i suoi affetti anche nei modi in cui i cristiani vivono la politica: aggiornamento di una presenza o testimonianza di un annuncio? Se il cristianesimo nella storia esige questa testimonianza, l’impegno politico non può che vivere tutta la sua profondità nella dimensione dell’occasionalità e della contingenza.
Un’occasione del tutto eccezionale, del tutto gratuita, non programmabile.
Nell’intervista del 1993 è l’idea stessa di progetto come inerente alla politica per un credente a venir posta in causa:
Io non dico che ci sia una incompatibilità assoluta tra fede e impegno politico..Ma ci sono mille e una ragione di cautela e di condizioni difficilissime. Una prima condizione è proprio questa: che non ci sia un proposito di impegno politico e che questo non sia in conseguenza di un progetto o nella convinzione di una missione a fare. Nego la missione a fare. Nella politica non c’è. Mentre abitualmente, e soprattutto nella esperienza concreta, la politica è stata pensata come una missione e fare. La seconda condizione è la gratuità, la non professionalità dell’impegno. Detto ciò ritengo che possa accadere per me, per dono fortuito in un certo senso di Dio, di fare qualcosa che non è destinato al puro insuccesso.. Per me è importante non negare un agire coerente e profondo con la fede e un agire politico. Ma è una conciliazione non sistematica, non consapevole, non in funzione di un progetto definito.
L’impegno politico per un credente “accade”, può accadere, è una prova tanto più seria e profonda quanto più consapevole dei limiti intrinseci di ogni progettualità. L’impegno politico vive in questa chiamata di grazia, come “momento opportuno” per testimoniare qualcosa nella compagnia degli uomini.
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Due cose colpiscono in questa nuova strada intuita da Dossetti, la prima è il configurarsi dell’azione politica per il credente come atto spirituale. Possiamo partire dalla sconvolgente chiusa di Funzioni e ordinamento dello Stato moderno.
Una cosa mi ha fatto impressione, in questi ultimi giorni, rileggendo quelle parole ( S. Paolo). Come tutti sappiamo, egli indica negli uomini che governavano lo Stato, anche se sono romani, anche se sono pagani, anche se si valgono di questa autorità contro Dio, i ministri. Nel testo greco, mentre per parecchi versetti ritorna la parola diacono, diakonos, alla fine, quando si tratta di inculcare ai romani che bisogna pagare il tributo, qualunque tributo, a chi si deve, allora si indicano coloro che esigono il tributo non più come diaconi, come ministri semplicemente, ma con una parola più forte, più comprensiva: leitourgoi theou. Gli <<operatori liturgici>>, per così dire, nel senso evidentemente dei liturghi che apprestavano i servizi pubblici nello Stato greco, ma operatori liturgici di Dio, leitourgoi Theou. A me pare che gli uomini i quali vedano profilarsi uno Stato capace di imporre loro dei gravi sacrifici di ordine materiale allo scopo però di avviare ad una reformatio del corpo sociale e ad una maggiore aequalitas fra gli uomini debbano vedere finalmente profilarsi i <<liturghi di Dio>>.
E’ una dimensione questa sempre presente nella sua breve e intensissima vicenda politica. Essa a volte scorre sulle pagine ed è quasi impossibile afferrarla. Vorrei fare soltanto due esempi. Il primo si colloca alla vigilia delle elezioni del 18 aprile, il 16 Giorno di festa sarà il 18 aprile per noi e per la grande maggioranza del popolo italiano, giorno pertanto al quale ci avviciniamo non con volto oscuro ed animo turbato, ma con la fierezza della nuova dignità conquistata e con la giuliva attesa che precede ogni festa. E’ questo il nostro stato d’animo, è questo lo stato d’animo che auguriamo a tutti gli italiani, anche agli avversari consapevoli di una loro sconfitta: manifestare liberamente la propria volontà con il voto è democrazia, e perdere con il volto sereno è democrazia intelligente.
La competizione elettorale si conclude con una “giuliva attesa”, il clima deve essere quello di una “festa”. La campagna elettorale che ha preceduto questo articolo è stata drammatica, forse la più drammatica nella storia del Paese. Un Paese spaccato in due da “una prova di forza”. Cronache Sociali aveva fatto di tutto perché il confronto elettorale non si esaurisse in una contrapposizione ideologica, perché emergesse la nuda e complessa realtà dei processi in corso con i suoi rischi ma anche le sue opportunità. Questa serenità di Dossetti non nasce da alcuna sicurezza nella vittoria, né tanto meno da un temperamento conciliante, essa ha una profonda radice religiosa. Le stesse parole, quelle della gioia e della festa, le ritroveremo circa otto anni dopo, in un’altra competizione elettorale, questa volta amministrativa, a Bologna:
Questa assemblea è anzitutto una festa, una manifestazione di letizia..festa cosciente, responsabile, dove ciascuno si impegna a scelte che conducano a motivi essenziali della sua vita..festa perché l’atto elettorale è una delle estrinsecazioni supreme dell’attività umana e va compiuto pertanto in intima gaudiosa comunione con le fonti profonde della grazia di Cristo.
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La seconda cosa è l’emergere a tutto campo della creatività della politica. E’ lontanissimo da Dossetti qualsiasi approccio pragmatistico alla politica. Lo sguardo politico è sempre in lui uno sguardo panoramico, essa s’apre sui processi lunghi della storia. Funzioni e ordinamento dello Stato moderno ne è un esempio ricchissimo. Sono letti e anticipati i grandi processi della fase: l’estinguersi degli Stati nazione, la crisi irrimediabile del parlamentarismo ottocentesco, le trasformazioni epocali del diritto, i nuovi rapporti tra Stato ed economia ed altro ancora. E’ una acutissimadescrizione panoramica che sorprende per profondità e intelligenza. Sorprende anche per la totale assenza di interpretazione ideologica. Lo sguardo spazia sui processi, così come sono, come emergono dalla concretezza delle determinazioni, degli stati di fatto. Questo sguardo panoramico non vale solo per il 1951, ma anche per il 1956 in quella straordinaria parentesi delle elezioni amministrative nella “città rossa”. Nel 1956 era iniziato per Dossetti il grande declino dell’ideologia comunista, del comunismo come religione. L’amministrazione bolognese guidata da Dozza sembrava a lui vivere in una sorta di bonomia mezzadrile rispetto alle inquietudini politiche dell’epoca.
Dossetti percepiva la valenza religiosa, starei per dire l’elemento di pietà della partecipazione di milioni di lavoratori al comunismo. Il senso della sua battaglia bolognese è proprio questo. Dossetti e la “sua” Democrazia Cristiana si facevano eredi di quest’ansia religiosa delle masse comuniste attraverso un programma di coraggiose riforme amministrative, urbanistiche, fiscali. L’esito socialdemocratico e conservatore del gruppo dirigente comunista trovava a contrastarlo una politica attenta alla riscoperta spirituale della città. Il Libro bianco di Bologna avrebbe segnato le vicende della città anche a prescindere dall’esito elettorale.
Ma lo sguardo panoramico è già uno sguardo contemplativo. Non c’è politica, per un credente, senza contemplazione. Vedere è diverso cheguardare. Senza questa capacità di visione non c’è possibilità di impegno cristiano in politica. E non è essenziale allora al cristiano fare politica, l’inenarrabile avventura dell’incontro tra la fede e la storia non necessità di questo passaggio, che rimane, deve rimanere, per essere autentico, un passaggio non cercato, non voluto. Un’ esperienza che accade. Altro, ben altro è richiesto ai cristiani nella storia.