“Il teologo non è un profeta, che parla perché ispirato da Dio e si scaglia. No, non è un profeta come è stato Padre Davide Turoldo per tanto tempo, non è un pastore che ammonisce il gregge, è uno che ha soltanto un po’ di competenza nella storia della teologia, si chiama la additio rationis, l’aggiunta di ragione all’esperienza della fede. Competenza di tipo storico, competenza un po’ di tipo filosofico. Fa questo, e quindi non può fare altro nella situazione che mettere un po’ di ragione.”
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presentazione di Giovanni Bianchi (5’28”) – introduzione di Salvatore Natoli (58’08”) – relazione di Giuseppe Ruggieri (53’55”) – prima serie di domande (6’05”) – risposte di Giuseppe Ruggieri (17’07”) – domande e risposte (47’45”)
Trascrizione della relazione di Giuseppe Ruggieri
Una volta stampato, il libro non appartiene all’autore e tutti hanno diritto a interpretarlo. Aggiungo: ogni interpretazione è legittima e cercherò di rispondere (Interruzione di: Scusa tu ti sei sentito interpretato oppure ti ho tradito ?) No, no, ci sono alcune sottolineature più forti nella tua interpretazione, ma niente assolutamente tradimento anche se resta la tua domanda fondamentale sulla fine o meno del tempo. Ti dirò per questo che io sono… Mi interrogava Giovanni prima di iniziare: cosa stai studiando adesso? Gli ho risposto: l’apocalittica, perché l’apocalittica è la dottrina della fine del tempo. Ma verrò… e sto scrivendo… mi hanno chiesto un libro di teologia per la collana Laterza “Prima lezione di”. E il capitolo finale è questo: la fine del tempo…. Anche questa domanda è pertinentissima, anche se è quella più critica che tu fai.
Ma prima vorrei dire alcune cose e fare altre sottolineature.
La prima: il motivo per cui ho scritto questo libro. Non c’è nulla di nuovo rispetto a quanto avevo scritto prima, da alcuni anni. Anzi, se volete, non ho fatto altro che un copia e incolla di saggi sparsi qua e là, copia, taglia e incolla, ecc. C’erano alcuni amici carissimi che mi dicevano: ma no, devi farlo assolutamente perché un saggio viene letto da 100-200 persone, un libro, bene o male, viene letto da molti di più. Mi sono fatto forza ma l’ho potuto scrivere non perché gli amici me lo chiedevano, ma per una sofferenza interiore come dichiaro nell’ introduzione.
Io ammiro molto Kant, in qualche modo è sempre dietro alle mie letture, e una delle cose più belle che Kant abbia scritto in quel manifestino pubblicato nel mensile di Berlino Berlinischer Monattsschrifth, non ricordo più esattamente la questione, era la risposta alla domanda su che cosa era l’illuminismo, Kant distingue un uso privato e un uso pubblico della ragione. E lui ha fatto sempre questo, ha sdoppiato, per così dire, se stesso: in quanto suddito fedele del re di Prussia lui, in pubblico, si è comportato osservando le leggi del re di Prussia. In quanto maestro universale, e ognuno che scrive diventa un maestro universale, lui fa un altro uso della propria ragione.
Ora, quando mi sono deciso a scriverlo, vivevo, vivo ancora adesso, una forte sofferenza interiore davanti alla banalizzazione del Vangelo in atto dentro la Chiesa, Cattolica in particolare. Perché nel discorso pubblico che la Chiesa fa non c’è il Vangelo, nel discorso pubblico che la Chiesa fa, in quello che potremmo chiamare in riferimento all’Italia all’epoca del ruinismo, perché le cose vanno dette con nome e cognome altrimenti diventano tutte confuse, ciò che viene presentato è un’altra verità cristiana rispetto a quella che voglio presentare io nel libro, quella del Vangelo di Gesù Messia.
Di fronte a questa banalizzazione cosa fa il teologo? Non è un profeta, il teologo, che parla perché ispirato da Dio e si scaglia. No, non è un profeta come in questo luogo dove è stato Padre Davide Turoldo per tanto tempo, non è un pastore che ammonisce il gregge, è uno che ha soltanto un po’ di competenza nella storia della teologia, si chiama la additio rationis, l’aggiunta di ragione all’esperienza della fede. Competenza di tipo storico, competenza un po’ di tipo filosofico. Fa questo, e quindi non può fare altro nella situazione che mettere un po’ di ragione.
E scopro, a 71 anni tra breve, in pensione, professore emerito – i professori di teologia non sono come i professori dell’università statale, diventano emeriti per diritto – e ormai sento il peso di una vita passata sui libri di teologia, mi accorgo che tutto sommato (comincio a entrare nel merito della risposta) nella mia vita ho cercato di rispondere, prima ancora di conoscerla, a un’obiezione ai teologi che veniva fatta da un autore protestante che non sapeva se essere o non essere credente, professore di teologia a Basilea, Franz Overbeck, che scrisse un atto di accusa terribile, ancora attuale, alla teologia. Lui era uno storico del cristianesimo primitivo e l’unico ad apprezzarlo fu Carlo Marx che lo considerava il Melchisedec della teologia dialettica.
Qual era la obiezione alla teologia? C’entra molto con la questione che ha suscitato, quella di fondo, Salvatore Natoli. Gesù credeva nella fine del mondo e tutte le prime generazioni cristiane, fino a una buona parte dei padri apostolici, credevano che questo mondo doveva scomparire e hanno negato questo mondo. Com’è sorta la teologia? La teologia è sorta invece per riappacificare questo mondo con il cristianesimo dando una fondazione, diciamo così, al racconto di Gesù. Ma per far questo ha dovuto dimenticare che il cristianesimo è l’annuncio della fine del mondo e la negazione di questo mondo.
Quel libretto è stato tradotto in italiano di recente dalla Pellegrino; purtroppo ha sbagliato il senso della parola, è una bella traduzione, meritevolissima perché il tedesco di Overbeck è quasi illeggibile, ma ha sbagliato perché il titolo di Overbeck è Űber die Christlichkeit unserer heutigen Theologie che alla lettera è “Sul carattere cristiano della teologia attuale” perché per Overbeck la teologia del suo tempo non aveva nulla di cristiano, sia quella ortodossa sia quella liberale, perché nascondeva i fatti, nascondeva il cristianesimo primitivo di Gesù. Purtroppo, la Pellegrino l’ha tradotto “sulla cristianità”, ma il termine cristianità è Christenheit in tedesco e non Christlichkeit e indica un preciso regime storico dei rapporti tra Chiesa e società, sia nella forma della sua realizzazione medievale, sia nella forma del mito e dell’ideologia in epoca dopo la rivoluzione francese. Ma a parte questo errore, una buona traduzione, val la pena di leggerlo e lo farei leggere a tutti i teologi perché Karol Math diceva: alla sua domanda, nessuna risposta.
È o non è così Gesù? È stato o non è stato Gesù un apocalittico? È interessante come anche l’esegesi attuale si divida in questo campo. No, il messaggio del cristianesimo è escatologico, non è apocalittico. Anche un famoso autore che ha avuto molti meriti nella storia della teologia recente, un discepolo di Bultmann, Robert Eisenmann, ha scritto un meraviglioso saggio sull’apocalittica come madre della teologia cristiana. Lui diceva: “Ma l’apocalittica fu la prima interpretazione di Gesù, non apparteneva a Gesù”.
Qual è il senso dell’apocalittica? È qui il punto.
Per esempio, credo che Salvatore Natoli abbia presupposto un senso dell’apocalittica che non è quello reale. Ma anche esegeti famosi vogliono togliere ogni traccia di apocalittica dal messaggio neo-testamentale, io credo per capire il senso della fine, perché ritengo essenziale aspettare la fine del mondo, che non significa conoscere la fine del mondo. Attenti, c’è una differenza fondamentale.
Nel capitolo 6 dell’Apocalisse di Giovanni Apostolo, cosiddetto di Giovanni Apostolo – poi che sia o non sia di Giovanni è un’altra questione – vi è ammesso che quando l’Agnello comincia ad aprire i sigilli, lui, il veggente, vede sotto l’altare i santi martiri che gridano a Dio di affrettare il giorno della sua vendetta, per vendicarli. Questo testo è ripreso nel commento al Padre Nostro di Tertulliano, con una piccola glossa però. Tertulliano riporta, parafrasa le parole dell’Apocalisse e aggiunge: “Gridano a Dio invidia”. Invidia in Tertulliano vuol dire rimprovero, rimproverare, disonorare. I martiri disonorano Dio e dicono: “Ma quando ci vendicherai?”.
Ho cercato di conoscere l’origine di questa glossa tertullianea, difficilissimo, non ci sono riuscito però, per esempio, era un uso della preghiera dei pagani di rimproverare gli dei un po’ come fanno a Napoli quando San Gennaro tarda a squagliarsi; gli dicono tutti gli improperi possibili, alcuni indicibili, volgari, a San Gennaro perché ritarda: invidiam clamant ad Deum.
È interessante, e sempre divertente, il compito dei traduttori. Emil Blaser, che è un famoso traduttore del visionario latino dei padri della chiesa, ha paura di tradurre questo passo e quindi introduce un “quasi sembrando che disonorino Dio”, ma il “quasi” non c’è nel testo. Ecco, la fine del mondo è la richiesta da parte delle vittime del mondo perché questo mondo finisca. Attenzione, “questo” mondo finisca, con l’altro mondo loro l’affermano la continuità, ma è la continuità della storia dei giusti, non la continuità della storia dei violenti.
Ora che cosa è il desiderio della fine? Anzi tutto eliminiamo il registro conoscitivo e descrittivo, che è un po’ quel tranello nel quale è caduto Salvatore Natoli, perché voleva sapere se c’è la fine del mondo, mentre Marco dice a riguardo di quell’ora, di quel momento: “Nessuno lo sa, nemmeno gli angeli di Dio, nemmeno il Figlio, ma solo il Padre”. Quindi siamo nel piano della totale inconoscibilità.
Come Gesù ha atteso il Regno? Perché che Gesù sia stato un apocalittico non ci sono dubbi e nella preghiera che ci ha consegnato noi ripetiamo: “Venga il tuo regno”.
Dice, portando il bellissimo testo di Tommaso, ma io sono un ammiratore di Tommaso quindi Natoli non mi ponga tra i denigratori di Tommaso, in quel bellissimo testo di Tommaso – che condivido – si dice che noi non conosciamo colui che viene, ma conosciamo il fatto che viene. Io lo traduco così: non conosciamo Pietro ma conosciamo il veniente, che è Pietro. Poi sappiamo che è Pietro, ma dopo. Ecco, qui c’è qualcosa di molto profondo: che cosa significa aspettare la fine di questo mondo?
C’è un particolare dei Vangeli che è quello che mi ha impressionato ed è quello che mi fa apprezzare il testo di Tertulliano ed è, purtroppo al solito, la traduzione come con upomené, pazienza, che pazienza! C’è l’impazienza nell’upomené davanti alla sofferenza del mondo. Ma nei Vangeli quando Gesù annunciava il regno, predicava il regno, facendo miracoli è questo è un legame che nel Vangelo non possiamo scindere, e quando manda i discepoli a predicare il Vangelo dà loro l’ordine di scacciare i demòni e di guarire dalle malattie. Questo è un dato dell’attesa del regno che noi con la nostra mentalità moderna non pensiamo, beh, ormai i miracoli appartengono a un paesaggio mitico, noi i miracoli non li aspettiamo. Cosa volete! Eppure il guarire dalle malattie è inscindibile dall’attesa del regno, non è molto diverso dal calarsi di Bonhoeffer nella contraddizione tedesca. Quello è un miracolo.
Ma all’origine del miracolo in Gesù nei racconti evangelici c’è la descrizione dei sentimenti di Gesù. Guardate: le traduzioni sono un qualcosa di terribile e viene tradotto così il termine: quando gli dissero di quel funerale a Naim del ragazzo morto di quella povera donna che ormai sarebbe rimasta sola, ebbe pietà o ebbe compassione. Il termine che usano i Vangeli e lo applicano per lo più solo a Gesù con qualche eccezione, ad esempio nel racconto del Samaritano, è splagcna; splagcna sono le viscere, le budella: la traduzione esatta è: “gli si rivoltarono le budella”.
Ed è interessante che spesso nel Vangelo, all’origine del miracolo di Gesù c’è questa reazione al male, cioè colui che aspetta la fine di questa storia, e a me interessa l’apocalittica come fondamento di un’antropologia, a un certo punto ha una reazione di rigetto totale, fisico, viscerale, perché il problema è viscerale, che fa il miracolo, che rende il bambino a sua madre. Adesso le modalità storiche evidentemente sono molto difficili da determinare per i miracoli di Gesù.
Ecco allora attendere la fine non significa conoscere la fine, e infatti negli studi sull’apocalittica a un certo punto una svolta importante è stata quando non soltanto ci si interrogava sul genere letterario dell’apocalittica, ma quando ci si è fatti la domanda: “Ma chi erano i gruppi religiosi che condividevano la visione apocalittica del mondo?”. Perché la radice del problema sulla fine del mondo sta proprio qui. Chi sono coloro che hanno un interesse alla fine di questa storia e che partecipano a questa. Le due cose non sono in opposizione perché nella visione chiamata escatologica deve l’éscaton è quello di fatto che realizziamo, non c’è negazione di questa storia. E a volte qui c’è un mito, che bisogna stare dentro la storia. Ma chi c’è stato più di Gesù dentro la storia? Chi c’è stato più di Gesù, dentro la storia del suo tempo, evidentemente. Colui che ne voleva la fine, perché il problema della struttura della storia, di questa struttura matrice di sofferenza che si perpetua, la struttura del potere, della forza, della menzogna, che è all’interno, è fondamentale per capire il concetto di verità.
Non so se quel brano lo interpreto lì. No, mi pare di interpretarlo. Il capitolo VIII di Giovanni dove Giovanni, Gesù-Giovanni, definisce cos’è la verità e cosa è la menzogna. La menzogna è il diavolo perché parla a partire da sé, Gesù è la verità perché non parla a partire da sé, perché qui è la differenza fondamentale tra coloro che desiderano la fine del mondo, anche se non ne sanno nulla, e sono consapevoli di non saperne nulla, e coloro che non l’aspettano. Non si tratta di fare il bene dentro un angolino di questo mondo, si tratta di partecipare alla sofferenza del mondo.
Forse allora le due cose che ha messo in opposizione Salvatore Natoli, le ha messe in opposizione in forza del desiderio della partecipazione alle sofferenze del mondo e non sono così diverse, sono strutture mentali evidentemente, ma forse non sono così diverse. E quel testo di Benjamin che lui ha citato, credo che vada letto, e poi gli altri testi che si trovano in quel meraviglioso scritto che è sul concetto di storia dove si dice che in ogni istante si può aprire la porta da cui entra il Messia, sono lì.
Ho detto il motivo, ho parlato della obiezione di Overbeck. Vorrei dire un’altra cosa su quello di cui Salvatore Natoli ha parlato a proposito della beatitudine, del desiderio di felicità, quindi di Dio: tutto da accettare. Il problema è però se la storia dell’altro può essere assunta dal cristiano anche quando si nega questo; anche quando questo si nega, il desiderio della beatitudine piena, finale, eccetera, perché al fondo io vedo l’ateismo come negazione di questa pienezza, di questo raggiungimento della pienezza del desiderio umano. Gli atei non sono stupidi, lo sanno, come dire, che non possono raggiungere quello che ogni uomo cerca.
C’è un passo ulteriore rispetto a questo impianto del desiderio. Io cito nel libro due articoli di Benjamin sulla traduzione e sulla lingua pura, presenti già nella traduzione italiana benemerita che Renato Solmi ne fece nella prima raccolta dei saggi di Benjamin in italiano, Angelus Novus, pubblicato mi pare da Einaudi a quel tempo. Perché quel testo mi pare più profondo di ogni considerazione antropologica o metafisica, di tipo metafisico, dell’uomo, di questo desiderio su cui poi si fonda il dinamismo, su cui si fonda tutta l’apologetica cattolica del Novecento. Ed è quando lui dice: “Che cos’è la lingua? Cos’è il linguaggio?”.
Il linguaggio è, l’ha detto all’inizio Salvatore Natoli, ciò mediante cui noi comunichiamo, con la natura, con gli animali, con gli altri uomini. E noi comunichiamo parlando agli altri e dando un nome: questo è un orologio, io ho un dolore allo stomaco in questo punto preciso, qua alla base del cuore, infarto, dò l’allarme, e via dicendo. Attraverso il nome che diamo alle cose, un modo a noi stessi, un modo a Dio, il Dio di Gesù, comunichiamo. Attenzione, questa non è la comunicazione pura, la lingua pura, la reiner sprach. No. La lingua pura non è separabile dal linguaggio oggettivo, descrittivo, ma la lingua pura è ciò mediante cui l’uomo dice se stesso a se stesso; in ogni parola, parlando dell’orologio, parlando del libro che abbiamo letto, noi diciamo noi stessi; attenzione, non è la consapevolezza, la coscienza, il fatto che siamo coscienti di essere noi a dire e a parlare, no, è qualcosa di più profondo, è una confessione a noi stessi di ciò che siamo. Ma se lo confessiamo a noi stessi, lo confessiamo a Dio, perché ogni uomo, in quanto comunicazione, e la comunicazione è Dio, un altro modo di intendere Dio, è la pura spiritualità, la pura comunicazione, dicendo me stesso a me stesso io parlo a Dio.
Ecco, io credo che questo sia il fondamento per cui i cristiani possono dire che non c’è nulla di impuro e che tutto può essere accolto. Ed è, se volete vi dò anche una fondazione di tipo storico-biblico del problema, ed è la presenza di alcuni testi nella Bibbia che hanno scandalizzato sempre i cristiani. Primo, Giobbe. Giobbe imputa a Dio il male dell’uomo e gli svicolamenti per negare quello che sia il senso del libro di Giobbe sono tanti, però resta che il redattore finale (lasciamo stare la storia delle varie redazioni del libro di Giobbe), Dio dica: “Tutti coloro che si opponevano a Giobbe, che negavano questo dato, hanno parlato banalmente, non sono saggi. Il mio servo Giobbe, lui sì che ha parlato saggiamente”. Però dopo viene il rimprovero a Giobbe: “E chi sei tu che mi vuoi conoscere? Dove eri tu quando io ho formato il mondo?”. Quindi, Dio accetta di essere responsabile del male del mondo, resta che Dio è inconoscibile. Per me è un libro ispirato, Giobbe, esattamente come il Vangelo di Giovanni o gli altri.
Oppure prendete l’altro libro grandioso, la Cantica, il Cantico dei Cantici. È il libro più ateo della Bibbia, non si parla mai di Dio, eppure lo hanno fatto il libro in cui si canta l’amore di Dio per il suo popolo. Il motivo se lo posero già i rabbini, perché i rabbini quando ci fu il famoso Concilio di Jamnia alla fine del I secolo, quello che doveva rifondare il giudaismo dopo la distruzione del tempio e rifondarlo sulla parola di Dio, sulla Torah, allora bisognava stabilire quale fosse questa Torah, quale fosse questo insieme canonico di scritti, dissero: “Quello no; un canto delle taverne, pornografico, descrive il pube della donna, l’ortus conclusus, descrive i seni, descrive il piacere sessuale in quel modo lì. Oh! dentro la Bibbia”. È Rabbi Achiba che ci pensò per tutti: “No, è un’allegoria, no, non canta l’amore di un uomo per la donna, di due innamorati come era inteso là dove si cantavano queste canzoni. No, è l’amore di Dio per il suo popolo. Così lo possiamo accettare”. Da quel momento l’interpretazione del Cantico dei Cantici in maniera allegorica è stata sempre una palla al piede. Quando si ha il coraggio di dire semplicemente che questo è l’amore di un uomo e di una donna e che sia benedetto Dio nei secoli dei secoli, punto e basta. Ecco, pensate lo scandalo di Marcione nel II secolo, per cui sforbiciare la Bibbia e accettare sostanzialmente soltanto il Vangelo di Luca e le prime lettere di Paolo, quella era la Bibbia, e poi il resto da rifiutare.
Ma la Bibbia ha un’altra logica, accetta ogni uomo, accetta l’uomo che dubita di Dio, che imputa a lui il male, accetta l’amore che nella tenerezza si dimentica di Dio, l’amore, l’unica volta che torna il nome di Jahvè nel Cantico è alla fine dove paragona l’amore dell’uomo e della donna alle fiamme di Jahvè. Dio c’è da tutto nell’uomo, Dio non cessa, mi insegna poi il Nuovo Testamento, di amare l’uomo peccatore. Non ha importanza, pensate alla miopia ecclesiastica dell’ammissione all’Eucaristia. Allora quelli che convivono, quelli che sono omosessuali non possono, eccetera? Ma a Giuda gliel’ha fatta la Comunione Gesù, o no? detto in termini molto semplici, di un’assoluta evidenza, sapendo che già Giuda aveva immanente in cuore di tradirlo, gliel’ha fatta o no? Gliel’ha dato il pane e il calice o no? Fate questa domanda ai preti, anch’io sono un prete. Come vi rispondono? Perché, ecco dicevo prima ogni interpretazione è legittima, l’accoglienza dell’altro così come è, è ciò che mi manifesta Gesù di Nazareth.
Ultimo capitolo del libro. Io lo sto dicendo in un modo un po’ diverso da te il mio libro; non so se sia più vera la mia lettura o la tua, non ho proprio nulla da contestare, ma a parte due o tre punti non è tanto diversa. Allora, l’ultimo capitolo del libro è la storia di Dio e quindi racconto, eccetera, come ha detto Salvatore Natoli e via dicendo. Dove però prima faccio l’evoluzione del racconto sul Gesù di Nazareth, e qui ha colto cose molto giuste Salvatore Natoli sul senso della dogmatizzazione.
Ma quello è un capitolo tutto sommato polemico, polemico contro il racconto classico su Gesù, il racconto classico su Gesù è quello dei grandi concili criistologici del primo millennio, che già a Nicea nel 325 trova la sua prima fondamentale lettura: il Figlio della stessa sostanza del Padre. Ma poi dopo man mano, Gesù ha due sostanze, due nature. Anche qui, all’inizio physis o natura veniva confusa con persona, ancora nel concilio di Nicea, poi man mano le due cose si separano, e poi gli altri Concili.
Io non sto a rifare… Allora, Gesù vero Dio e vero uomo, ecco Calcedonia, ma lo stesso, era la stessa persona a essere vero Dio e vero uomo, ancora con qualche imprecisione in Calcedonia, perché si dice che la persona è nelle nature, dopo si dirà che le nature sono nella persona, ma sostanzialmente questo. Qual è a mio avviso la carenza di quel racconto? Che ignora la storia di Gesù perché lì va citata: Gesù ha pianto, ecco quindi era veramente uomo, Gesù ha fatto miracoli, quindi era veramente Dio, ma che cosa significasse fare miracoli per Gesù non gliene importava nulla. In genere poi è stata la catechetica o la spiritualità a riprendere questi tratti della vita di Gesù omessi nella grande narrazione dogmatica.
Allora, anche se poi in pagine molto veloci alla fine, io tento di dire che nella persona di Gesù va compreso il suo essere con gli altri e per gli altri, per gli altri peccatori, con gli altri peccatori. Ma che questo non è un accidente, noi viviamo tra sostanze e accidenti, e mettiamo la relazione addirittura come successiva alla sostanza nella metafisica classica; allora una sostanza in sé costituita poi sviluppa l’esse ad, la relazione. Ma l’esse ad come tale non ha consistenza, ciò che da consistenza alla relazione è la sostanza perché nella sostanza ineriscono tutte le qualità e tutti gli accidenti. Cioè, in altri termini, chi fa parte della storia non ha importanza-
Ora questo mi sembra molto grave, dico che bisogna incorporare in quel racconto la storia concreta di Gesù e la storia concreta di Gesù è stata accoglienza dell’altro. Ma non dell’altro buono, questo è il punto; perché se avesse accolto i buoni, pace, certo. No. Il problema è che, mentre eravamo ancora peccatori, Dio ha mostrato il suo amore per noi, mentre eravamo ancora peccatori. Il perdono non segue il pentimento, il perdono precede la conversione, precede il pentimento. E qui si può costruire tutto un altro assetto, tutto un altro modo, dove l’alterità non mi è estranea. Se è vero che Dio ha accolto e accoglie tutti senza distinzione, allora ognuno che dice se stesso, così come lo dice nel parlare oggettivo, dice sé a Dio e Dio accoglie lui.
Questa non è la dinamica del desiderio; c’è un’altra dinamica perché la dinamica del desiderio, verissima, che ho ammirato molto e cito quei testi di Agostino che sono poi il suo commento al versetto primo del salmo 119: “Beato l’uomo che cammina nelle vie del Signore”, dove beato è felice,beatus, e lui dice: “Allora, da che cosa ci distinguiamo dai delinquenti?”. Non nel desiderio, dice lui. No, desideriamo tutti la stessa cosa, la desideriamo per vie diverse. Va bene.
Vedete, anche qua la storia quasi quasi non ha importanza, ha importanza la costituzione sostanziale del desiderio umano, invece è la storia che mi pare importante, quello che ogni uomo è e, anteriormente, dico anteriormente, a ogni sintesi l’aiuto cristiano è questo caricarsi dell’altro così com’è. E poi quello che avverrà, avverrà. Non lo stabilisco io. Lui è già accolto, poi se l’accoglienza diventa operante porterà frutto, sarà feconda nella storia. Ma sarà feconda nella storia nella misura in cui precede ogni altro sentimento, ogni altro atteggiamento.
A questo punto, non so se ho risposto a tutte le domande di Salvatore Natoli, quella finale l’ho appuntata: l’ermeneutica della forma di Cristo fa sparire l’essere, il penultimo consuma l’ultimo. Ti dirò che non lo so. Non mi interessa. So che non posso farne a meno. Questo è diverso. Se vuoi siamo tutti rimandati a Pascal. Quando nel famoso commento della scommessa, dice: “C’è qualcosa per cui vale scommettere anche se alla fine perderemo? Perché anche se perdessimo, avremmo vinto lo stesso?”. Questo è il senso della scommessa pascaliana. Vale la pena di aspettare la fine di questa storia? Anche se non ci dovesse essere perché so che così la mia vita cambia, perché so che così sperimento una profondità della vita che mi resta. E l’alternativa non è così distante nella misura in cui si interpreti il linguaggio della fine del mondo, l’apocalittica, con finezza. E per questo bisogna leggerli i testi apocalittici.
Noi preti cattolici da due settimane meditiamo l’Apocalisse nel breviario. Non lo so se tutti la leggiamo con un senso di fastidio o se la leggiamo con una profonda comprensione. Dirò che quando ho letto il capitolo 13 – che è il drago che sale dall’abisso, e quel drago è satana, è la bestia, era il potere di Roma – mi sono messo a piangere. Perché? Perché è una lettura di una tale attualità. È il giornale di oggi, di ieri, dell’altro ieri eccetera. Sarà distrutto il drago?
Anche tu lo desideri! Perché questo vuol dire la fine del mondo, la distruzione del drago. È questa la visione della storia, e questa è la domanda di Overbeck: “Siete in grado, voi teologi, di aspettare la fine del drago? Oppure con i vostri sistemi non fate altro che accogliere supinamente, acriticamente, questa storia nella quale vivete?”. Perché poi, tutto sommato, a patti con la bestia, con il potere cioè, ci veniamo tutti.
E allora, aspettare la fine del mondo. Qui ogni volta ci fa male, ci rovina la così detta demitizzazione: ecco questa è una visone mitica del mondo, ma qual è il messaggio che ci sta sotto? E invece forse ci aiuterebbe un po’ di più la decostruzione delle mura della Gerusalemme Celeste. La decostruzione significa smontare, prendere i mattoni, vedere da quale cava vengono e capire tante cose. Perché il mattone va guardato per capire di che pietra è fatto. Se il mattone è fatto della sofferenza di tutte le vittime della storia, allora io lo lascio là con tutto il suo mito. Quando gli ebrei credenti ad Auschwitz venivano incolonnati verso le camere a gas, recitavano la confessione di fede di Maimonide che ha 12 articoli e l’ultimo dice: “Io credo che il Messia verrà e anche se ritarda (“anche se ritarda” significa che stavano per morire nella camera a gas) ci credo lo stesso”.
Ecco, io credo che anche Benjamin non possa essere compreso fuori da questo mondo di idee, perché era un ebreo, e anche se ateo restava ebreo, cioè restava con una forma mentis che era quella fondamentalmente ebraica, quella cioè che conosce il ritardo di Dio nella storia, ma non ha abdicato ad attendere il Messia. Perché il problema è che quando la Chiesa ha abdicato ad attendere il Messia, è finita, la Chiesa ha cambiato volto.
Nel 2007, 4 anni fa, il mio collega, amico, molto intelligente, David Tracy, insegnava teologia alla Chicago University, nella facoltà di Divinity che non è né cattolica, né protestante, ha scritto un bellissimo articolo sull’opzione per i poveri, scagliandosi a testa bassa contro Karl Rahner, S. Agostino e Bultmann, dicendo: “Hanno dimenticato l’articolo del Credo che dice aspetta il Signore che verrà come giudice dei vivi e dei morti”. Perché ormai abbiamo ridotto Cristo a incarnazione, passione, morte e resurrezione, ma il Cristo che ritorna, il Figlio dell’Uomo che ritorna (nella predicazione e soprattutto poi non bisogna spaventare la gente, l’ultimo giudizio non esiste più, ma bisogna predicarlo e via dicendo) l’abbiamo omesso, l’ultimo giudizio. Omesso in un modo molto ipocrita, continuiamo a dirlo perché non possiamo toglierlo dal Credo, ma di fatto non ci crediamo. Anzi, parecchi teologi, tra cui Rahner, tendono a identificare l’istante della morte con la risurrezione dei morti, per ognuno di noi. Per cui non esiste più la fine della storia, questa storia va benissimo, in essa i santi soffriranno ma la storia va bene, c’è il mito del progressismo che si riflette anche lì.
Io però, amici miei, vi invito a pensare che l’ultimo secolo della storia degli uomini, non in termini assoluti ma in termini proporzionali, è stato quello di più morti di tutta la storia della umanità. Questo è un dato, in senso proporzionale, non di soldati, ma di civili innocenti. Ognuno ama la sua vecchiaia, se voi l’amate, io non l’amo. Ma questo non è un abbandono della storia, tutt’altro, questo significa decidere da che parte stare nella storia, che è qualcosa di molto diverso.
Il libro non dice le cose in maniera brutale così come le ho dette io adesso, a ogni modo voleva dire questo, anche se le cose che ho detto sull’Apocalisse sono frutto di una maturazione ulteriore e ci sto lavorando.
Grazie.