Viene qui pubblicata, nella versione già conosciuta e tramandata (con due sole correzioni formali sostanziali delle quali si dirà tra poco) l’importantissima relazione tenuta da Giuseppe Dossetti a Roma il 12 novembre 1951 durante il III Convegno Nazionale di Studio dell’Unione Giuristi Cattolici Italiani. Tema del Convegno era.”Funzioni e ordinamento dello Stato moderno”. A Giuseppe Dossetti, presentato nel programma come ordinario dell’Università di Modena, fu affidata la relazione generale, mentre relazioni particolari erano state assegnate ad Aldo Moro, Mario Romani, Ubaldo Prosperetti, Gianni Baget Bozzo, e Antonio Amorth. La relazione conclusiva – scoppiettante ed estremamente suggestiva – fu svolta da Giorgio La Pira e aveva come titolo: “Cristianesimo e Stato Moderno”.
La rivista Justitia, organo dell’UGCI, pubblicò in un numero collettaneo 8-12 del 1952, alle pagine 233-440, i testi stenografici delle relazioni e delle (vivacissime) discussioni svolte, ma vi appose l’avvertenza che il testo di Dossetti, al pari di quelli di La Pira e Romani, non era stato rivisto dall’autore. Gli atti del Convegno furono pubblicati nel secondo dei Quaderni di Justitia (Studium, Roma, 1953), successivamente ristampato nel 1961. Nel 1977 la cada editrice Cinque Lune ripubblicò, per le cure di Claudio Vasale, le relazioni raccogliendole sotto il titolo I problemi dello Stato.
Chi avrà modo e occasione di leggere per la prima volta il testo dossettiano deve dunque sapere che si tratta di un saggio che il suo autore non ha ripreso in mano ai fini della pubblicazione. Un saggio di dottrina dello Stato che è stato tante volte citato e ripreso per la sua grande importanza, e che mostra una energia intellettuale, una capacità introspettiva, un coraggio di prendere posizione anche di contro a tradizioni consolidate (specialmente nel campo dell’intellettualità cattolica) che hanno qualcosa di straordinario…Andando a rileggere il testo l’autore di questa nota ha avvertito fortemente l’esigenza che il testo di Rossetti avesse bisogno di una messa a punto.. Ciò era richiesto innanzitutto dalla necessità di emendare il testo da alcuni errori di trascrizione-comprensione nei quali incapparono i pur valenti stenografi e dei quali sinora nessuno dei curatori delle edizioni succedutesi si era accorto. Un errore veniale è costituito dall’indicazione del capo XII della Epistola ai Romani (anziché, evidentemente del capo XIII) là dove con volo altissimo, unito a una raffinata acribia filologica, rossetti richiama la differenza tra le parole diakonos e leitourgoi qeou per coloro che apprestavano i servizi pubblici nello Stato greco.
Un errore grave consiste, invece, nell’essere caduti qualche pagina prima, in una clamorosa buca interpretativa, là dove si mette in bocca a Rossetti una frase senza senso: “potremmo dire, riprendendo la famosa distinzione che gli antichi facevano tra piramide di titolo e piramide di esercizio, che il suffragio universale ..” Così legge il testo pubblicato nel 1952, mentre nel 1977 siamo già passati dalla piramide alle piramidi. In questo caso, evidentemente, i diversi lettori e curatori delle edizioni sin qui succedutesi si sono fatti ingannare dal faux ami corrispondente alla sequenza: gli antichi la piramide, quando invece il senso del ragionamento e della frase conduce a leggere, doverosamente: ” Potremmo dire, riprendendo la famosa distinzione che gli amici facevano tra tirannide ex titulo e tirannide ex exercitio che il suffragio universale..” ( Nota editoriale di Enzo Balboni al testo di Giuseppe Dossetti, ora in G. Dossetti, Scritti Politici ( a cura di G. Trotta), Marietti, Genova, 1995, pag. 376-377)
La divisione in paragrafi che qui si propone di questo fondamentale testo di Dossetti è redazionale e ha il compito di facilitarne la non facile lettura.
Premessa
Felicità e libertà: il fine dello Stato nel pensiero politico classico e nel pensiero politico moderno
Giuseppe Chiovenda, in quelle prime pagine delle istituzioni in cui, tracciando l’evoluzione storica del processo e della funzione giurisdizionale, traccia anche l’evoluzione della dottrina dello Stato, richiama una frase di Coccejo che veramente si distacca dal passato, e fa sentire, come rileva il nostro grande processualista, <<una nuova aria politica e giuridica con i prodromi di nuove dottrine>>. Tale frase sta alle sorgenti del moderno Stato di diritto.
Dice Coccejo: <<Summa potestas, tantum iuris tuendi causa est constituta; hinc triplex eius potestatis pars necessaria est: legislatoria qua ius statuitur, iudiciaria qua ius applicatur, deliberativa qua effectus eius felicitasque defenditur>>.
Coccejo alla summa potestas, della quale distingue – non separa – la triplice funzione, assegna un fine unitario espresso in due elementi inscindibili: ius tueri, felicitatem defendere; una realizzazione del diritto che significhi e sia difesa della felicità degli uomini che compongono lo Stato.
Ma: <<quid est felicitas?>> possono domandare i Ponzi Pilati, gli scettici pagani della scienza e della prassi giuridica o politica.
Ma: <<quid est felicitas?>>, qual è la felicità che possa essere data dallo Stato, possono anche ripetere con maggior impegno, con maggiore buona fede, e con maggior tormento i cercatori cristiani venati dal pessimismo agostiniano sulla natura ferita, gravemente ferita, dell’uomo, e sulla carnalità tirannica della città terrestre.
Eppure la saggezza del mondo antico in Aristotele e la saggezza della filosofia cristiana in S. Tommaso hanno dato una risposta: lo Stato può e deve portare l’uomo – con il suo concorso, s’intende – alla felicità; perché lo Stato ha per fine il bene comune, il quale non è un’astrazione o una cosa essenzialmente indeterminata, ma è il bonum humanum simpliciter, il bene umanamente pieno di tutti i singoli componenti, bene che lo Stato non solo deve difendere, ma che deve attivamente promuovere e sviluppare e ripartire fra i componenti stessi in proporzione dell’apporto e dell’operare (dell’essere e dell’agire) di ciascuno.
Dunque Coccejo accenna a vie nuove nel distinguere le funzioni e i poteri attraverso i quali lo Stato opera, ma è ancora nel solco della grande tradizione della saggezza greca e della sapienza cristiana nel determinare il fine dello Stato: la felicità umana (non soprannaturale, s’intende) degli uomini che compongono lo Stato.
Sennonché, non dalla distinzione di Coccejo tra le funzioni dello Stato, bensì dalla separazione dei poteri di Montesquieu, doveva prendere le mosse lo Stato moderno. Montesquieu si distacca dalla tradizione greco-cristiana, ed enuncia, in quel fondamentale capitolo VI del libro XI dell’Esprit des lois, una ben diversa teoria del fine dello Stato.
Tutti gli Stati hanno un medesimo obiettivo che è la propria conservazione. Ciascuno Stato ha poi uno scopo particolare: Roma, la conquista; Sparta, la guerra; Marsiglia, il commercio. Ve n’è uno che ha per oggetto della sua costituzione la libertà; e questo uno, l’Inghilterra, è quello che deve essere assunto a modello. Questo scopo, la libertà, è lo scopo che si deve assumere, e si assume, lo Stato moderno. Perché questo scopo, la libertà, sia conseguito, occorre che nello Stato moderno – ad evitare il pericolo che la summa potestas, abusando del potere, tolga la libertà – i poteri siano divisi, e un potere, come dice sempre Montesquieu, controlli l’altro.
Dall’obiettivo generale assegnato agli Stati di tutti i tempi – cioè la conservazione dello Stato – è scomparsa, almeno espressamente, la considerazione della felicità degli uomini che lo compongono.
A questo obiettivo specifico, che ancora Coccejo affermava, viene invece sostituito un altro obiettivo specifico del nuovo Stato: non più la felicità, ma la libertà.
<< Quid est libertas? >> ci potremmo chiedere allora. Che cos’è la libertà? Non è forse la libertà già per se stessa la felicità? Come è noto, la risposta che lo Stato moderno ha assunto alle sue origini è quella di Rousseau.
L’uomo è nato libero, e perciò felice; mentre ovunque è nei ceppi, e perciò infelice. La felicità è dunque la bontà e la libertà naturale e spontanea dell’uomo. La società, togliendo e assoggettando la libertà, toglie la bontà e la felicità. Perciò occorre costituire una società nuova, uno Stato nuovo, che si ponga come fine esclusivamente quello di difendere e di lasciare operare, senza alcun ceppo, l’essenziale bontà e la naturale libertà di ogni associato, nello spontaneo impiego della sua persona e dei beni; e più necessariamente uno Stato che questo bene esclusivamente persegua attraverso l’unico mezzo possibile: un patto sociale, mediante il quale ciascuno effettui l’alienazione totale di sé con tutti i suoi diritti alla società e la subordinazione totale di sé alla volontà di tutti, alla volontà generale.
Così Rousseau – e dietro di lui la sua creatura, lo Stato moderno – di tanto deprime e svuota il fine dello Stato, cioè lo riduce alla pura estrinseca difesa dello spontaneo esercizio della libertà essenzialmente buona di ogni membro, di altrettanto esalta e potenzia il mezzo d’azione dello Stato, cioè la volontà generale, che diventa sovrana e onnipotente come Dio; anzi, se non in Rousseau, certo, attraverso Kant e Fichte, in Hegel diventa Dio essa stessa; come lo è in Jellinek, non diversamente che nei teorici dello Stato nazionalista (non possiamo dire nei teorici dello Stato comunista, perché per essi Dio non esiste).
Quanto in questa pura ed essenziale difesa della libertà e della libera spontaneità di ogni uomo, perseguìta però attraverso questo mezzo, che è la volontà generale dello Stato, vi sia di irrimediabilmente oppressivo della libertà e di tirannico, quanto, cioè, vi sia di tirannide democratica, troppi, da Tocqueville in poi, hanno preveduto, e troppo noi stessi abbiamo veduto perché sia il caso di insistervi. Qui preme, dopo questi fugaci richiami, vedere come queste dottrine si siano rifratte nella realtà concreta nello Stato moderno; quali caratteri esse abbiano implicato per le funzioni e l’ordinamento giuridico dello Stato moderno.
E’ ovvio che io dovrò forse abusare della vostra pazienza, perché, se è indispensabile per una certa individuazione delle deficienze una ricostruzione storico-critica, pare che possa essere anche non inutile una constatazione delle modificazioni dei dati di fatto intervenute negli ultimissimi tempi, riservando poi, eventualmente, una terza ed ultima e più rapida parte ad alcuni cenni ricostruttivi.
Credo indispensabile insistere sulla ricostruzione storico-critica, sia perché questa darà la possibilità di fondare meglio le eventuali valutazioni successive; sia perché molte cose, pur apparendo quasi ovvie o addirittura banali, non è difficile conducano alla constatazione che, se si può essere d’accordo su tanti punti particolari, è molto probabile che l’accordo non ci sia, o non sia pieno, quando questi punti particolari verranno riconsiderati in una sintesi globale.
I caratteri dello Stato moderno
L’assenza di finalità
Anzitutto preme renderci brevemente conto di quali siano i caratteri dello Stato moderno, ricavati da quelle sorgenti che abbiamo sommariamente indicato.
C’è un primo carattere fondamentale, che è questo: la mancanza deliberata e programmatica (in ogni caso, anche nelle ultime manifestazioni, anche in quelle che sembrano tanto discostarsi dallo Stato liberale ed agnostico) di un finalismo dello Stato e dell’ordinamento giuridico dello Stato. Lo Stato moderno non ha uno scopo; il suo ordinamento giuridico non ha uno scopo.
Questo non esserci uno scopo dello Stato e del suo ordinamento giuridico può avere, ed ha di fatto avuto, nella successione degli ultimi centocinquanta anni, due significati:
a) per il primo significato, lo Stato e l’ordinamento giuridico non hanno un proprio scopo se non nei molteplici infiniti fini dei singoli componenti;
b) per il secondo significato, lo Stato e l’ordinamento giuridico non hanno altro scopo al di fuori di se; lo Stato e l’ordinamento giuridico non hanno altro scopo che la propria ipostasi.
I due significati sono, nella serie delle implicazioni del pensiero e della prassi moderna, entrambi inevitabili; e si sono realizzati entrambi per una progressione fatale che ha fatto del primo soltanto una tappa verso il secondo.
Nell’ambito del primo significato si ha lo Stato a regime cosiddetto liberale; a struttura, almeno dopo l’estensione universale del suffragio, di democrazia formale; e di solito, almeno nel continente europeo, a sistema di governo parlamentare. Lo Stato a regime liberale, comunque strutturato, ha avuto sempre come caratteristica questa: di presumere che la sua funzione sia soltanto la pura produzione del diritto obiettivo, come norma o come atto di interpretazione della norma o come atto di applicazione di essa; la pura produzione del diritto obiettivo sempre come pura volontà generale di garanzia estrinseca dei singoli componenti. Tale volontà è vuota di un contenuto che sia identificabile in un determinato bene storico, concreto, che sia tappa o modalità storica concreta del bonum humanum simpliciter. Lo Stato a regime liberale presume di non poter assumere a scopo altro che gli infiniti scopi dei singoli membri o almeno quelli fra essi che troppo visibilmente non si eludano a vicenda, cioè non distruggano o intacchino la mera convivenza.
Nell’ambito del secondo significato si ha lo Stato a regime totalitario, comunque strutturato: con struttura oligarchica o democratica, corporativa o socialista. Si può dire che tale Stato non abbia scopo, per lo meno non fuori di sé, e cioè nel bene concreto di tutti i singoli componenti, perché assume il proprio essere collettivo come scopo, come vera ipostasi. Lo Stato totalitario non ha più soltanto la funzione della produzione del diritto obiettivo come mera garanzia di convivenza, ma è esso stesso non solo il diritto, ma il giusto, non solo il ius ma il iustum, cioè il vero e l’assoluto. E’ lo Stato panteista, lo Stato del nazionalismo imperialista al quale gli ultimi decenni si rivolgono da quando, manifestatasi la crisi dello Stato liberale, invece di pensare che tale crisi sia dovuta al fatto che lo Stato non si propone il fine che si dovrebbe porre e non adempie alla sua funzione, si presume che tale crisi sia effetto solo di insufficienza di spazio vitale, insufficienza da compensare non con l’adempiere alla vera funzione dello Stato, cioè il promovimento del bene umano completo dei componenti, ma con la potenza e la conquista di territori coloniali prima, di altri Stati storici poi.
Disconoscimento delle società e degli individui
Da questo primo carattere ancora legato alle sue basi filosofiche e dottrinali, si ricava un secondo carattere, implicito nel primo, e che già ha una maggiore attinenza con la strutturazione giuridica dello Stato moderno. Lo Stato moderno, proprio perché nascente da un proposito di pura e piena garanzia della libertà spontanea dell’individuo (cioè della pura autodeterminazione e non della esplicazione della sua persona e della sua essenza), nell’atto e nella ragione stessa della sua nascita, ha pervertito il suo proposito ed è portato a disconoscere ogni consistenza alle altre società e poi alle stesse realtà individuali, in nome e in difesa delle quali esso è assurto. La volontà generale, ossia la funzione della pura produzione giuridica come pura garanzia esterna e puro apparato coattivo, in quanto si pone come risultato di una alienazione totale di tutti i singoli individui alla volontà generale, può presumere: a) di negare ogni riserva o residuo dell’individuo a favore di altre società intermedie; b) di negare ogni riserva dell’individuo a se stesso.
Lo Stato moderno, cioè lo Stato nato dalla Rivoluzione Francese, distrugge quel dato ordine sociale esistente prima di lui, ossia la nazione organizzata territorialmente e socialmente, esistente non solo in Francia, ma, sia pure con differenze importanti, in tutta Europa. Tale ordine sociale era una comunità di istituzioni nota a quasi tutta la cristianità, organizzata in corpi, ordini e Stati separati, ciascuno democraticamente conformato e tutti prodotti dal costume coesivo e non dalla volontà del sovrano, tanto che Guizot poteva dire che un re che avesse fatto sparire gli Stati intermedi sarebbe stato un re tiranno. E invece questo tiranno, che è il moderno Stato cosiddetto di diritto, disconosce non soltanto l’ordine storico esistente, ma ogni ordine possibile in cui fra lo Stato e l’individuo si voglia dare una certa consistenza a società intermedie.
La volontà generale che, sorta formalmente per garantire la libertà nativa e l’autodeterminazione degli interessi di ognuno, dovrebbe essere pura forma senza contenuto, in effetto diventa arena in cui gli interessi, non normalizzati da un principio formale che li leghi alla essenza umana, si scontrano e, volta a volta, si sopraffanno. Essa assume spesso a contenuto non l’interesse più giusto, ma l’interesse più forte, che viene ad annullare o vulnerare certi diritti incomprimibili di corpi o di individui: la famiglia, la categoria professionale, la comunità religiosa. Tutte queste vengono dallo Stato moderno sopraffatte, schiacciate, compresse, limitate, nelle loro ragioni essenziali di vita, in nome della libertà radicale dell’individuo.
Ma non basta ancora. La volontà generale dello Stato moderno, dopo avere eliminato ogni realtà intermedia, attenta ai diritti incomprimibili della persona nella sua pura individualità: non soltanto nei momenti in cui dello Stato si è impadronito un mostro, ma anche nei periodi di relativa tranquillità e di apparente legalità. Anche in questo campo ora è la libertà personale, ora è la libertà di associazione, ora è la libertà di opinione, ora è la libertà di stampa che viene conculcata e fortemente limitata. Sicché si può affermare che lo Stato moderno – e cioè lo Stato liberale, almeno incohative e lo stato totalitario, spesso exhaustive – per quanto nato dalla premessa libertaria di una garanzia dei diritti fondamentali, di fatto ha compresso tutti i fondamentali diritti di libertà.
Immunità della società economica e del potere economico
Solo un diritto lo Stato liberale ha sempre rispettato, e lo hanno sempre rispettato nella sostanza, se non in particolari modalità accidentali, anche gli Stati totalitari, almeno quelli non comunisti: il diritto della proprietà privata degli strumenti di produzione e della libera iniziativa economica.
Dei diritti fondamentali della persona questo è stato il solo veramente rispettato nella sostanza dallo Stato moderno. Ciò ci consente di cogliere il terzo carattere dello Stato moderno, che incide più a fondo in quella che è la struttura giuridica dello Stato stesso: l’immunità nell’ordinamento giuridico, e quindi la prevalenza sull’ordinamento giuridico, della società economica e del potere economico.
Nella storia di centocinquant’anni dello Stato moderno una sola libertà risulta sempre sostanzialmente riconosciuta e garantita: la libertà di iniziativa privata e la proprietà degli strumenti di produzione; tanto più garantita quanto più grande, e perciò potente, fosse la quantità di beni posseduti.
Mentre lo Stato ha negato una propria consistenza, per esempio, alla famiglia, alla categoria professionale, in genere a tutte le società intermedie, perché ha negato che esse si fondassero su elementi obiettivi e su leggi fisiche, biologiche, psicologiche essenzialmente legate alla natura delle cose, per contro ha sempre professato la naturalità del meccanismo economico, e perciò la immutabilità delle leggi economiche. Questa è stata la sola immutabilità che esso ha veramente riconosciuto, la sola immutabilità legata alla natura umana, di fronte alla quale lo Stato moderno ha piegato la sua sovranità.
Perciò, mentre ha creduto che la forza del proprio diritto e la forza del proprio ordinamento giuridico, la sua cosiddetta universalità, potesse prevalere su quella di qualsiasi altra società, ha ritenuto che la forza del proprio diritto non potesse vincere il meccanismo di una sola società: la società economica. Possiamo intendere per società economica quella che Jhering definisce <<l’organizzazione della soddisfazione dei bisogni umani assicurata mediante il salario>>, o, come altri dice più genericamente, assicurata mediante lo scambio.
Questa eccezione alla universalità dell’ordinamento giuridico statale viene mantenuta rigorosamente, e per di più giuridicamente, per lo meno fino alla prima guerra mondiale. Ecco cosa scriveva, quasi alla vigilia della prima guerra mondiale, il più originale dei pubblicisti francesi, Maurice Hauriou, spirito audace, come tutti sanno, e novatore a suo modo: <<In sé, il fenomeno degli scambi e delle relazioni d’affari rientra sul lato logico dell’istituzione politica. Questa riposa sul potere, lo scambio riposa sul valore: due nozioni che sono eterogenee l’una all’altra. Da una parte il potere politico si esercita principalmente sugli uomini, accessoriamente sulle cose; al contrario il valore economico è principalmente una qualità delle cose e accessoriamente soltanto una qualità degli uomini. Di più, il commercio degli scambi ha una tendenza invincibile a extravasarsi; esso non si arresta all’interno di una determinata nazione; essenzialmente internazionale, ha anch’esso le sue sfere territoriali, ma esse non coincidono con le frontiere politiche: sono i mercati>>. Dopo parole così lucide e sincere sino al candore e alla ingenuità, non potremo più qualificare in tutto calunniosa l’analisi marxista delle istituzioni borghesi. Espressamente, e in termini tecnico-giuridici, viene fondata e giustificata l’immunità della società e del potere economico.
Ma c’è di più: l’immunità dal potere statale diviene facilmente prevalenza e predominio sul potere statale, attraverso la costituzione di un ius singulare, di un diritto privilegiato per i detentori degli strumenti di produzione. Un illustre civilista di Francia, il Ripert, che ha scritto all’indomani dell’ultima guerra un libro sugli aspetti giuridici del capitalismo, poggia tutta la sua costruzione su questo rilievo ancora una volta candido e sincero: <<Il capitalismo si è detto liberale perché è nato sotto il segno della libertà e perché giudica utile vivervi. Ma se esso avesse dovuto accontentarsi del diritto comune, non avrebbe potuto svilupparsi. Se il legislatore non gli avesse dato o permesso di prendersi mezzi propri alla concentrazione e allo sfruttamento dei capitali, non avrebbe potuto svilupparsi. Il diritto comune non gli bastava, perciò esso ha creato il suo diritto>>.
I detentori degli strumenti di produzione si sono creati, essi ed essi soltanto, un diritto singolare, in uno Stato che affermava l’eguaglianza di tutti e voleva conoscere solo il diritto comune, principalmente attraverso due mezzi.
Il primo mezzo è stato la prevalenza del contratto sulla legge. Essi hanno riempito i vecchi nomi e i vecchi schemi dei contratti tradizionali, passati dal diritto romano nei codici moderni, di un contenuto assolutamente nuovo e sostanzialmente diverso. Sotto un vocabolario antico, innocente, e in apparenza sotto veneranda garanzia di trattamento comune a tutti, di aequalitas delle prestazioni, si veniva a nascondere il privilegio particolare che faceva corrispondere alla inaequalitas della forza tra chi è detentore dello strumento di produzione e chi non lo è, una inaequalitas inversamente proporzionale delle prestazioni. Qui sarebbe il caso di soffermarsi per vedere come tutti i vecchi titoli, tutti i vecchi nomi, tutte le vecchie figure, sono state veramente svuotate e trasformate profondamente.
Il secondo mezzo di fondazione di un ius singulare, e perciò di una prevalenza del potere della società economica sul potere giuridico, è il riconoscimento ai privati – praticamente senza limitazione – di un potere già ritenuto quasi sovrumano e tremendo, che prima non spettava se non al sovrano e in gravissimi casi: quello di generare ad libitum nuovi soggetti di diritto (che non fossero persone fisiche, si capisce), e per giunta nell’ambito del solo diritto privato, per scopi privati. Nascono così le imprese, le società, eccetera, nuove figure di soggetti di diritto e presto titolari della più grande massa di diritti. Esse sono concentrazioni enormi di ricchezza. Il diritto comune non le conosceva: Pothier ancora non ne faceva per nulla cenno, mentre prima della grande rivoluzione nascevano poche compagnie commerciali solo per atto sovrano e restavano nell’ambito e nel controllo del diritto pubblico. Il diritto nuovo riconosce questo potere ai privati con poche norme frammentarie e solo permissive, e per decenni non tenta neppure di stabilire, per questi soggetti nuovi di diritto, una disciplina organica completa, almeno in molti Stati. Così il mondo si popola di nuovi soggetti generati dalla volontà di privati, per lo più inafferrabili e irresponsabili, che possono quasi sempre operare come esseri senza nazionalità, perché per essi si applica in modo particolare questa non coincidenza fra la società e le frontiere politiche da un lato e la società e le frontiere economiche dall’altro, e che perciò sono nell’ordinamento giuridico solo per servirsene, ma non per assoggettarvisi, solo per dominarlo, ma non per esserne dominate.
Assenza di una sintesi sociale
Quarto carattere dello Stato moderno è la rinuncia deliberata, almeno inizialmente, al compito di esercitare una funzione di mediazione, e ancor più una funzione di sintesi fra i diversi componenti del corpo sociale.
Nell’ancien régime, nonostante la mancanza di carte costituzionali scritte con relativa dichiarazione dei diritti di libertà, nonostante la mancanza di separazione delle funzioni materiali dello Stato, nonostante la mancanza di investitura dal basso e perciò di rappresentatività formale, tuttavia in pratica il sovrano aveva ritenuto suo compito rappresentare e riassumere tutti i corpi sociali e tutti i cittadini, e perciò di mediare – e non semplicemente nel senso di una mediazione statica, ma di una mediazione propulsiva e progressiva, a favore dei più deboli – tra le diverse forze e i diversi gruppi sociali. Tale mediazione era ovviamente relativa a ciò che la coscienza dei tempi esigeva e consentiva. Sono cose da tutti risapute, Tocqueville le aveva già osservate, ed in una recente storia del diritto francese si trova il conforto di una documentazione speciale. Non vi è ormai dubbio che questo fu per lungo tempo il compito dei sovrani francesi, con il cui adempimento si veniva così a garantire o rappresentare attraverso un metodo formale, ma tuttavia ad assicurare di fatto e sostanzialmente, quella che fu chiamata l’onesta libertà del francese.
Invece gli organi costituzionali dello Stato moderno non si sono assunti, in via generale, questo compito di realizzare una sintesi delle diverse forze sociali, in una certa solidarietà progressivamente raggiunta attraverso una correzione della inferiorità del più debole. Col liberalismo fisiocratico e agnostico, gli organi costituzionali dello Stato – per lo più a sistema parlamentare – hanno lasciato alle diverse forze sociali di aggiustarsi da sole in una pace instabile e minata, imposta dal più forte al più debole. Con i vari nazionalismi imperialistici, più o meno a sistema dittatoriale (per esempio, da Bismark al corporativismo di Mussolini, e forse – perché no? – si potrebbe anche dire al velato bismarkismo economico di Giolitti in Italia), gli organi dello Stato hanno creduto di dover assumere una certa mediazione sociale, ma non per un compito effettivo di sintesi e di propulsione ed allo scopo di promuovere una riforma del corpo sociale nel senso di una aequitas intrinseca, ma, per lo più, attraverso un metodo di imposizione dall’alto, allo scopo di assumere una certa unità estrinseca della nazione, ai fini della potenza e della conquista. Il che implica un importante corollario che incide su una delle prerogative che lo Stato moderno rivendica come uno dei suoi maggiori titoli, cioè la rappresentatività, la presunzione di essere uno Stato rappresentativo.
La rappresentatività dello Stato moderno, alle origini, si è posta nettamente come una rappresentatività unilaterale e parziale. La prima delle cosiddette assemblee rappresentative nacque dalla tesi della famosa seconda brochure dell’Abbé Sieyès. <<Che cosa è il terzo Stato?>> Il terzo Stato, egli ha detto, è una nazione completa. Stato rappresentativo, nella sostanza, della sola borghesia, anche senza bisogno di ricorrere alla diagnosi che ne farà cinquant’anni dopo Carlo Marx. E tale, nella sostanza, è rimasto questo Stato rappresentativo soltanto del terzo Stato, anche dopo decenni, quando si arrivò al suffragio universale.
E’ rimasto tale non foss’altro che per la prevalenza che sulla forma del meccanismo rappresentativo ha finora esercitato l’unico potere immune, anzi predominante, sull’ordinamento giuridico: il potere, come si è detto, della società economica, della organizzazione dei detentori dello strumento di produzione.
Un esempio tipico lo si è avuto proprio nel nostro Paese: la struttura economico-sociale più arretrata che negli altri paesi d’Europa, gli squilibri particolarmente gravi tra un Sud terriero e semifeudale ed un Nord ad industrializzazione incipiente e particolarmente accentrata e mal distribuita, hanno più fortemente alterato la genuinità della rappresentanza popolare e reso il potere politico per molti decenni inadempiente rispetto al suo compito di mediazione fra le diverse parti – territoriali e sociali – della Nazione. Pertanto, dal suffragio ristrettissimo o ristretto dei primi decenni, si è passati, per necessità di cose e quasi di colpo, al suffragio apparente del ventennio fascista. Così che in Italia, in ottanta anni (dal 1860 al 1940) il suffragio universale non è stato applicato realmente che per tre anni.
Ma non c’è solo l’esempio dell’Italia pre-fascista. Vi è un esempio ancor più significativo e più vicino nel tempo, anche se lontano nello spazio: quello del cosiddetto <<governo dei giudici>>, terminato (e poi sarà vero che sia terminato?) soltanto da pochissimi anni in America. Che cosa fu il <<governo dei giudici>> – almeno dal 1890 in poi – se non l’elusione della rappresentatività formale dello Stato americano? Quando verso la fine del secolo si afferma a un tempo la formidabile espansione del capitalismo americano e del movimento operaio, i detentori della ricchezza chiedono al potere giudiziario la protezione politica che il legislativo e l’esecutivo non possono loro concedere perché troppo sottoposti all’influsso delle masse elettorali. Quest’aiuto è facile ad ottenersi da un personale giudiziario scelto fra gli avvocati, che debbono la loro espansione alle necessità capitaliste. La Corte Suprema, com’è noto, annulla gli atti dell’esecutivo e del legislativo che attentino o restringano la libertà economica e perciò l’immunità e il predominio del potere economico. La protezione accordata dal potere giudiziario – negli Stati Uniti durerà sino alla vittoria di Roosevelt sulla Corte Suprema – è tanto più efficace nel conservare il ius singulare delle forze economiche quanto più si fonda su una alleanza fra il giudice e il capitalista, la quale per lo più non ha bisogno di rivelarsi macroscopicamente, ma resta normalmente occulta e inafferrabile.
Mancanza di una pubblicità responsabile
Ultimo carattere dello Stato moderno è la mancanza di pubblicità responsabile, che è anche la mancanza di efficienza del sistema di governo, e in particolare del sistema di governo adottato in quasi tutto il continente europeo, cioè il sistema di governo parlamentare. Nonostante la pubblicità apparente degli atti delle assemblee rappresentative, in effetti il sistema di governo parlamentare opera, almeno sino alla guerra mondiale, attraverso il giuoco di gruppi semiinstabili, non differenziati da precise distinzioni ideologiche o programmatiche, per lo più tenuti insieme da legami o da interessi non dichiarati (rapporti personali, di clientela, di sette, eccetera) destinati a scomporsi o a ricomporsi per altri legami volta a volta non dichiarati e spesso assolutamente imprevedibili. Il sistema di governo parlamentare opera cioè sostanzialmente attraverso un meccanismo ancora oligarchico, non espresso, non controllabile, e perciò non responsabile di fronte a vaste ed organiche parti delle masse elettorali. Il sistema entra necessariamente in crisi, quanto più la struttura dello Stato è forzata ad evolversi verso una struttura anche soltanto formalmente democratica.
Questa crisi, già rivelatasi avanti la prima guerra mondiale, non fu e non è – come la si è voluta e ancor oggi da qualcuno la si vorrebbe interpretare – semplice crisi di stabilità del governo, così che bastino, per esempio, a sanarla certe garanzie come quella dell’art. 94 della nostra Costituzione sulla mozione di sfiducia. Neppure è semplice crisi del Parlamento, anche se vi è una crisi di efficienza del monopolio sinora riservato alle assemblee. E neppure è crisi del sistema elettorale, così che, per esempio, possa essere sanato con una legge elettorale uninominalistica, anziché proporzionalistica. Da molti anni è ben chiaro che si tratta di una crisi del sistema costituzionale nel suo insieme, perché esso è strutturalmente legato a un suffragio ristretto, o a un suffragio formalmente allargato, ma non sostanzialmente operante attraverso gruppi politici vasti e stabili, cioè differenziati per ideologie, programmi e interessi, e tendenti alla formazione di una opinione cosciente e alla guida di una presenza e partecipazione continua di larghe masse popolari nella vita statale. E’ crisi inoltre del sistema costituzionale perché questo sistema è stato strutturalmente predisposto sulla premessa di un contrappeso reciproco dei poteri e quindi di un funzionamento complesso, lento e raro, come quello di uno Stato che non avesse da compiere che pochi e infrequenti atti sia normativi che esecutivi, perché non tenuto ad adempiere un’azione di mediazione delle forze sociali esistenti e in contesa tra loro, e tanto meno tenuto ad adempiere un’azione continua di reformatio, di propulsione del corpo sociale.
I fatti nuovi degli ultimi trent’anni
Vorrei ora dare un rapidissimo sguardo agli elementi di fatto nuovi intervenuti ad aggravare la crisi dello Stato moderno dalla fine della prima guerra mondiale al secondo dopoguerra.
La crisi, già aperta all’inizio del primo dopoguerra, non fu superata dai tentativi costituzionali allora fatti, perché tutte le nuove costituzioni – tipica, fra l’altro quella di Weimar -, anche se cercarono di introdurre qualche compromesso con le nuove esigenze e con le nuove funzioni statali, di fatto non uscirono sostanzialmente dall’ordinamento conseguente dello Stato moderno, che fin qui abbiamo tratteggiato. Sarà interessante, per esempio leggere oggi la critica che Max Weber, appena uscita la costituzione di Weimar, muoveva appunto in quel suo libretto Parlamento e Governo nel nuovo ordinamento della Germania.
Oggi, nel secondo dopoguerra, a trent’anni di distanza, la crisi si trova paurosamente aggravata in modo manifesto ed irrimediabile per un duplice ordine di ragioni: ragioni obiettive e di fatto, e ragioni legate a nuovi orientamenti dottrinali e di opinione e a conseguenti nuove esperienze politiche.
Lo spostarsi delle dimensioni tecniche di tutte le principali attività
La prima ragione obiettiva è lo spostarsi di fatto delle dimensioni tecniche di tutte le principali attività. Le attività di produzione ed in genere attività economiche che esigono tipi di impresa a dimensioni ingigantite, non solo per le produzioni nuovissime (come quelle che si collegano alla energia atomica, richiedenti risorse e capitali di interi continenti), ma anche per produzioni meno recenti (come quelle siderurgiche, chimiche, metalmeccaniche, dei carburanti, eccetera) comportano imprese di dimensioni tali da essere spesso difficilmente controbilanciate da tutto il resto del peso di una nazione. Un esempio di queste imprese è per l’Italia la Fiat, la cui sorte si immedesima ormai con quella non solo di una grande città, ma di una intera regione); un altro esempio sono le attività connesse alla difesa militare, sul cui giganteggiare al di sopra delle possibilità e della stessa statura dei vecchi Stati ormai non è il caso certo di insistere; infine attività connesse con la ricerca scientifica e con la istruzione – e quindi col problema sostanziale dell’accesso di tutti alla cultura, e perciò del ricambio sociale – le quali si compongono in dimensioni e spese veramente colossali.
I cambiamenti del territorio
Un altro cambiamento obiettivo è quello del territorio. Abbiamo assistito in questi decenni al vertiginoso appiattimento delle dimensioni territoriali dei vecchi Stati tradizionali con l’evidente ridursi di qualunque possibilità di autosufficienza economica, anche per i più grandi Stati, nella intensità e rapidità delle comunicazioni, nel dissolversi della frontiera. Ancora non molto tempo fa studiavamo nei testi di diritto costituzionale la frontiera come elemento configurativo del territorio, soprattutto nei riguardi del problema difensivo.
I cambiamenti nella dimensione del popolo
Un cambiamento obiettivo ha investito anche la dimensione del popolo. L’elemento popolo vede dissolversi il suo cemento di tradizioni, di ideali, di sentimenti che legavano sino a pochi anni fa individui, famiglie, città, regioni, categorie e classi alla coscienza unitaria di costituire un unico popolo. Il popolo si trova ora obbiettivamente intaccato in questa coscienza unitaria; intaccato dalla stessa riduzione delle dimensioni dell’elemento territoriale, che sollecita al superamento della dimensione nazionale; ma forse ancor più intaccato dalle divisioni dei risentimenti seminati da decenni di conflitti sociali aperti o di tensioni profonde non risolte da una efficace ed autentica mediazione del potere politico. Negli ultimissimi anni quasi tutte le comunità statali dell’Europa sono state funestate da lotte intestine, sino alla vera guerra guerreggiata fra parti contrapposte della medesima nazione, proprio mentre emergevano nuovi indirizzi, nuove abitudini, nuovi ideali, nuovi sentimenti, nuove organizzazioni destinate a fare sentire i legami possibili, al di fuori di un medesimo popolo, tra gruppi omogenei di diversi popoli più di quanto non siano sentiti i legami, al di dentro, fra gruppi diversi del medesimo popolo. Tipico esempio di questa nuova linea etica è quella che si è stabilita fra i proletari da una parte e i borghesi dall’altra.
Cambiamenti dell’ordinamento giuridico
Abbiamo infine assistito alla tendenza dell’ordinamento giuridico statale a superarsi in un superiore e comprensivo ordinamento: da una parte, con la costruzione continuamente ripresa, malgrado i continui fallimenti, di nuovi ordinamenti sovranazionali, più o meno vasti, con relativi nuovi organi; dall’altra, con l’applicazione sempre più estesa dell’adeguamento automatico del diritto interno al diritto internazionale, sino a farne – come fa, per esempio, la nostra Costituzione – un principio costituzionale il cui funzionamento apre però nuovi delicati problemi circa l’ambito e circa gli organi dell’adeguamento stesso.
Cambiamenti negli strumenti tecnico-giuridici
Variazioni non meno significative sono intervenute nei principali strumenti tecnico-giuridici delle grandi branche di diritto. Non c’è ramo del diritto che in questi ultimi anni non abbia visto alterarsi o addirittura disgregarsi i suoi strumenti o congegni o schemi di maggior impiego, di uso più comune; anche quelli più consolidati e provati, che avevano superato crisi secolari di civiltà. Vediamo così che nel diritto privato, e nel diritto civile in ispecie, la grande tradizione civilistica oramai è ridotta ad essere valida soltanto per una porzione molto limitata della sua ampiezza, cioè soltanto per l’espressione giuridica elementare dell’essere personale (un certo gruppo di diritti della persona), per i rapporti familiari, e molto limitatamente per certi rapporti di successione tra le persone. Per tutto quanto disciplina non l’essere, ma l’operare delle persone, e per quanto attiene alla loro situazione e ai loro rapporti con le cose e con le altre persone la tradizione civilistica si trova scardinata. Specialmente negli ultimi due lustri si trova profondamente alterato lo strumento primario del diritto privato: il contratto; e non solo qualche singolarissimo tipo di contratto (come, per esempio, quello di lavoro) ma quasi ogni altra delle figure tipiche (trasporto, mutuo, locazione di immobili urbani o rustici) e molte figure atipiche. Sì che è il contratto in sé – come genus – che si trova sottoposto a quella che già nel 1938 Josserand ha chiamato pubblicizzazione del contratto. Se questo vale per il contratto, vale non meno per l’impresa privata, la quale mentre da una parte sempre più si sposta fuori del campo e della struttura privata, dall’altra incontra nuove figure, estremamente varie e complesse, di enti pubblici che si spostano sempre più verso l’attività economica. La stessa cosa accade per il diritto pubblico e in particolare il diritto costituzionale, dove è in crisi lo strumento primo: la legge, come comando generale e permanente. La legge è divenuta sempre più particolare, per i piccoli e talora piccolissimi gruppi di soggetti, sempre più minuziosa, sempre più instabile e rapidamente mutevole, e perciò priva di ogni attendibilità e di ogni prestigio, e infine sempre più facilmente svuotata di ogni possibile sanzione, perché superata dalla rapida mutevolezza delle situazioni concrete, soprattutto di ordine economico. Una situazione non diversa si trova nel diritto amministrativo, dove la rigidità dell’ordinamento gerarchico e dello stato giuridico dei funzionari si appalesa sempre più ostacolo quasi insormontabile alla necessaria efficienza e tempestività dell’amministrazione, mentre continuamente si moltiplicano in tutti gli ordinamenti i procedimenti contenziosi ormai esplicati dalle autorità amministrative. Certi ordinamenti hanno cercato invano di provvedervi con una nuova complessa disciplina quasi sempre superata dai fatti: la legge americana per la procedura amministrativa del 1946; il nuovo diritto amministrativo speciale inglese, o i casi, sempre più frequenti, in Francia, di diritto disciplinare pubblico, o il diritto amministrativo repressivo, ed in particolare di cosiddetta transazione penale.
Una crisi analoga attraversa anche il diritto processuale, sia civile che penale. Rispetto a quest’ultimo proprio in questi giorni l’Allorio non esitava a scrivere, con particolare riguardo ad istituti cardinali come la istruzione, <<che i difetti tecnici della giustizia penale compromettono oramai la libertà in maniera di fatto molto più grave che non gli istituti o le singole disposizioni ispirati a criteri astrattamente antidemocratici>>.
Nuovi orientamenti dottrinari e di opinione
Ma la crisi statuale, che si trova quindi stimolata da elementi di fatto, trova poi un elemento ulteriore di accelerazione in nuovi orientamenti dottrinali e di opinione.
Questa accelerazione non è dovuta soltanto al diffondersi, ed anche a un certo tentativo di realizzare, delle dottrine socialiste. Non sono soltanto queste che accelerano l’insoddisfazioni rispetto all’ordinamento tradizionale. Si deve tenere anche presente, per esempio, l’influsso delle modificazioni avvenute nell’ambito delle stesse dottrine liberali. Mentre una parte dei cosiddetti neoliberali continua a ritenere condizione prima di un ordinamento giuridico liberale un ordinamento economico fondato sulla iniziativa privata e sulla proprietà privata degli strumenti di produzione, non mancano pensatori liberali che insistono con accento nuovo su un presupposto di qualsiasi applicazione del principio della concorrenza – un presupposto primo, che lo stato liberale non ha certo adempiuto – cioè il pareggiamento di certe condizioni di partenza, attualmente troppo disparate ed ineguali; particolarmente quel pareggiamento che è la garanzia per ognuno di una possibilità concreta di lavoro. Qualcuno come Beveridge perviene a non comprendere nell’elenco delle libertà fondamentali del cittadino (libertà personale, di religione e di culto, di opinione, di associazione) la proprietà dei mezzi di produzione. Beveridge anzi asserisce: <<La proprietà privata dei mezzi di produzione può essere o meno un buon espediente economico, ma deve giudicarsi come un espediente. Essa non è in Gran Bretagna una libertà essenziale del cittadino, perché non è mai stata goduta che da una piccola parte del popolo britannico. Non può nemmeno dirsi che una parte considerevole della popolazione nutra qualche viva speranza di arrivare in avvenire ad una tale proprietà>>. Così che, conclude, <<se la esperienza o la logica dimostrassero che l’abolizione della proprietà privata dei mezzi di produzione fosse necessaria per assicurare la piena occupazione, questa abolizione dovrebbe essere intrapresa>>.
I criteri di una ricostruzione statale
Tutti questi elementi, che noi ci siamo ritrovati all’indomani della fine della seconda guerra mondiale, sembravano destinati a provocare un rinnovamento radicale dello Stato. Di fatto, in brevissimi mesi veniva contenuta la spinta rinnovatrice, e, in pochi anni, progressivamente compressa sino ad essere praticamente annullata, per ora, quasi ovunque. Ancora una volta <<il romanzo della rivoluzione è presto finito>>.
Esula dal mio tema e da questa sede il ricercare le cause sociologiche e storiche di tale situazione. Qui basterà soltanto rilevare che mentre le forze propulsive, o almeno quelle sanamente propulsive (per prescindere dalle altre, invece, eversive), del rinnovamento statale hanno già subito un forte logorio in pochissimi anni, o, se si vuole, hanno già mostrato la loro insufficienza di contenuto spirituale e di peso materiale, per contro i gruppi e le forze sociali più interessate alla conservazione del vecchio Stato hanno ormai saputo adattarsi alla nuova situazione e reinserirsi in essa. Già a un anno di distanza dalla fine della guerra – ma ancora di più negli ultimi tre anni – esse hanno potuto neutralizzare prima e poi addirittura sfruttare tutti gli elementi nuovi per quanto in apparenza loro avversi: dallo spostamento della scala delle dimensioni statali, che rende sempre più necessari integrazioni o blocchi internazionali; allo stesso interventismo statale in materia economica, del quale profittano ormai quasi esclusivamente queste forze; alle modificazioni dei vecchi schemi ed istituti giuridici, le quali modificazioni servono anch’esse, ormai, anziché a finalità pubbliche, a finalità di gruppi particolari. Ma soprattutto è interessante constatare, dal punto di vista sociologico (parametro a cui bisogna sempre aver riguardo per poter giudicare quello che avviene nello schema e nella forma giuridica), come sostanzialmente si abbia quasi ovunque, e ormai in maniera quasi totale, il ritorno alla ribalta di tutte le vecchie forze, di tutti i vecchi uomini di prima della guerra, sì che si può dire che la prassi politica è ancora quella 1940.
A questo punto avrei quasi finito, in quanto è evidente che non posso azzardarmi ad indicare i rimedi, o a definire i criteri di una ricostruzione statale. Anche se presumessi di dire qualche parola in proposito non sarebbe questa la sede per la enunciazione di tesi troppo personali, in un convegno come il nostro che riunisce non dei politici, ma dei giuristi, non in base ad una differenziazione programmatica, ma nel nome dell’unità cattolica.
Per non eludere completamente il mio compito mi limiterò soltanto ad alcune indicazioni negative, genericamente – vorrei quasi dire immediatamente – ricavabili dall’esperienza in modo quasi ovvio e banale, lasciando, se mai, alla relazione del prof. Amorth di dire cose meno generiche e più concrete.
Mi pare che le indicazioni negative che si possono ricavare siano così precisabili: occorre contrapporre agli enunciati cinque caratteri dello Stato moderno, cinque direttive pressoché antitetiche a quei caratteri.
Un definito finalismo dello Stato
Anzitutto una esatta, energica e costante professione di un necessario e definito finalismo dello Stato e del suo ordinamento giuridico. Lo Stato ha uno scopo che non si esaurisce nello Stato stesso; l’ordinamento giuridico ha uno scopo, che non si esaurisce nell’ordinamento stesso; questo fine non è un fine che lo Stato o l’ordinamento giuridico possano determinare nella sua sostanza. E’ già definito dall’essenza dell’uomo e dello Stato e consiste necessariamente nel provvedimento di tutte le condizioni necessarie e favorevoli al bonum humanum simpliciter.
Certo, contro l’esperienza totalitaria che ha proclamato un fine dello Stato, ma che ha rimesso allo Stato stesso l’arbitraria determinazione di tale fine, occorre richiamare che non è in potere dello Stato determinare il fine, perché quel fine è la vera ragion d’essere dello Stato, è già definito dalle cose, e lo Stato può fare tutto meno che rinnegarlo; non può escluderlo o mutarlo senza autodistruggersi. Ma fatto questo, per pagare il debito alla nostra giusta reazione di fronte allo Stato totalitario di ieri ed a quello di oggi, affermato quindi che il fine dello Stato non può essere determinato dallo Stato stesso, bisogna però anche riaffermare che lo Stato non può essere agnostico e limitarsi a garantire il meccanismo delle libertà individuali e assumere gli infiniti fini individuali come proprio fine.
Bisogna insistere soprattutto su questo secondo aspetto, almeno nel nostro ambiente, negli Stati in cui dobbiamo operare noi e in quelli sui quali possiamo influire in qualche modo, tenuto conto della separazione del mondo in due monconi. Qui è la tentazione e forse già il peccato dell’occidente. Si dirà da qualcuno: ma l’agnosticismo è già superato. L’agnosticismo forse sì, ma non il criptoagnosticismo. C’è un criptoagnosticismo che ispira nel profondo i regimi oggi dominanti, nessuno escluso. E’ criptoagnosticismo perché non è più dichiarato e vantato, ma dissimulato e mimetizzato; non deliberato e attivo, ma passivo; manifesto non nella rinunzia all’azione, ma nel rinvio e nel falso gradualismo; non energico e vigoroso, ma quasi fatto di rassegnazione e di sfiducia.
Il riconoscimento della persona e delle società intermedie
Affermato un finalismo dello Stato, bisogna affermare la necessità che lo Stato riconosca la realtà e la consistenza delle persone e di alcune formazioni sociali intermedie, specificatamente individuate: famiglia; categoria professionale; comunità territoriali di diverso grado, fino a quella comunità che sta diventando intermedia, la nazione; comunità religiose.
Ma rispetto alle une e alle altre occorre subito aggiungere – perché questo riconoscimento sia esatto e non coincida, per una curiosa eterogenesi del fine, con quello dello Stato liberale – che il riconoscimento per essere autentico, legittimo ed operante nel guidare la ricostruzione statale e non controoperante e destinato a provocare delle reazioni, deve attenersi al minimo essenziale: non deve riconoscere per essenziale quello che essenziale non è; inoltre deve essere un riconoscimento graduato e gerarchico sia in merito all’individuazione dei soggetti od enti, sia in merito al contenuto della consistenza da riconoscersi a ciascheduno, sia, infine, in merito alla portata e al modo strutturale del riconoscimento.
Si tratta di operare una individuazione ed un ordine dei soggetti: le persone, alcune formazioni sociali; ma non tutte le spontanee formazioni sociali.
Ancora di recente, nelle pagine di un nostro maestro illustre sulla crisi del diritto, si insiste molto su questo concetto che è l‘aliud initium libertatis: la nuova era dovrebbe rinascere essenzialmente da un riconoscimento della persona e delle spontaneità sociali. Questo criterio delle spontaneità sociali mi sembra per lo meno meritevole di beneficio d’inventario. Forse da una parte è insufficiente e dall’altra è eccessivo. Non tutte le formazioni sociali, comunque spontaneamente determinate dalla volontà, meritano veramente di essere riconosciute come aventi una propria consistenza, e tali quindi che lo Stato debba rispettare il loro nucleo essenziale ed un loro spazio vitale incomprimibile.
Il riconoscimento, oltre che definito e limitato all’essenziale quanto ai soggetti, deve essere limitato all’essenziale quanto al contenuto della consistenza da attribuirsi ai singoli soggetti, persone e formazioni intermedie. Si tratta di non riconoscere come radicale ciò che veramente non lo è, col rischio di garantire, quindi, di più per alcuni e inevitabilmente meno per altri.
Vorrei ritornare alle righe del maestro, amato e a tutti caro, che citavo pochi momenti fa. C’è una frase che mi ha impressionato in quelle pagine: <<Non c’è altro che da reintegrare nell’ordine giuridico la vita umana in tutto il suo effettivo contenuto, nel pieno sistema dei suoi fini e interessi vitali, in tutta la ricchezza della sua libertà, dalla vita economica alla suprema vita di Dio>>. Io sono certo che chi scrive queste parole è ben consapevole della diversità di questi interessi vitali dalla vita economica alla suprema vita di Dio. Tuttavia l’accostamento, certo non nel suo spirito acuto e riflessivo, ma per chi legge, è un accostamento insidioso. Può dare l’impressione che si tratti di una verticale dalla vita economica a Dio omogenea nei suoi tratti, in modo che tutti i tratti di questa verticale siano egualmente meritevoli di un pari grado di intangibilità e quindi di un pari grado di garanzia. Invece bisogna fare una distinzione di questi tratti della verticale e capire che può essere forse necessario, per garantire veramente gli ultimi tratti, quelli che ci danno l’accesso alla suprema vita in Dio, porre delle limitazioni e forse delle compressioni radicali ai primi tratti, quelli che sono ancora legati prevalentemente al corpo, alla materia, all’ animalità.
Dicevo, infine, che questa determinazione, questo riconoscimento deve essere un riconoscimento che si riduca all’essenziale anche nel definire la portata, la struttura del riconoscimento. Se si tratta di una semplice registrazione e accettazione da parte dello Stato di ciò che è spontaneità sociale, incorriamo nel pericolo di un puro rappresentativismo sezionalistico. Ciò porterebbe i cittadini a disinteressarsi dal pensare il medesimo rappresentativismo in termini politici, facendo valutar loro termini dipendenti e conseguenziali come termini invece indipendenti e primari.
Un esempio caratteristico di questo potrebbe aversi nell’applicazione che noi abbiamo fatto del concetto del decentramento regionale. Qui il modo, la portata e la struttura del riconoscimento di una realtà concreta, indiscutibile, che ha indubbiamente una certa sua consistenza, è stato però un modo e una portata che nei termini formali, e sempre più nel concreto della prassi, si riducono ad una chiara manifestazione di sezionalismo territoriale che attenta veramente, non all’unità organica della nazione nelle concezioni tradizionali, ma alla funzione essenziale dello Stato. Se è vero che lo Stato deve rivendicare il suo finalismo e deve imporre, là soprattutto dove ve ne è più bisogno, la necessità della mediazione e della sintesi politica, noi possiamo trovare facilmente in alcuni dei più clamorosi esempi di applicazione del nostro regionalismo una smentita flagrante a questa funzione dello Stato, dove, cioè, il regionalismo si è convertito, anziché in elemento di rispetto di una realtà sociale, in una forma di barriera a quel poco di azione interventista e sintetica che lo Stato cerca di operare. Caso tipico, per esempio, il divario fra la legge regionale siciliana sulla riforma agraria e la legge dello Stato. Tale divario non è tanto di sostanza, ma è un divario sottile e inafferrabile di misure, di gravami, di appelli, di controlli, il quale praticamente può assicurare che non sarà problema di tanto e di poco, ma problema del farsi per nulla la riforma agraria in Sicilia.
Fine del prdominio nello Stato della società e del potere economico
Si tratta di rovesciare il principio di immunità e di predominio nell’ordinamento giuridico e nello Stato della società e del potere economico.
Sarebbe facile mostrare come lo svuotamento presente del contratto o il dissolversi della legge, i quali per sé sembrerebbero indicare un processo di trasformazione della concezione assenteistica dello Stato verso una concezione interventistica, di fatto, così come si realizzano, invece di essere mezzo di soddisfazione per la funzionalità statale primaria, si traducono sempre più in una forma più efficace rispetto al passato di evasione dagli obblighi pubblici e collettivi, e di soddisfazione invece degli interessi particolari. Noi possiamo ormai constatare in tutte le istanze, dall’istanza propriamente economica alle formule giuridiche, la necessità di superare il cosiddetto <<interventismo statale>>. Il finalismo statale, il bonum humanum simpliciter è da considerarsi in questa concreta realtà storica dei popoli e delle nazioni dell’occidente, così pregni di cristallizzazione e di punti rigidi che non consentono neppure quel minimo di applicazione di giuoco efficace e vero della libertà che in altri popoli più recenti invece si verifica. Questa rigidità delle nostre strutture ci fa dire che il finalismo statale non si soddisfa con interventi episodici; esso deve ormai specificarsi nella individuazione di un compito concreto che sia la modalità di realizzazione in questa concreta situazione storica, per ogni singolo stato, per ogni singola struttura sociale, di quel grado, di quella tappa di marcia verso il bonum humanum simpliciter che storicamente si vede possibile e doveroso. Occorre quindi che non ci si accontenti di un finalismo statale generico, astratto, indeterminato, episodico, sollecitato dallo stimolo delle esigenze quando queste assumono un grado supremo di asprezza; ma occorre che alla base del patto politico, all’inizio di ogni azione, di ogni periodo dell’azione statale, si fissi una scelta fondamentale – un grado, una tappa del compito storico – e intorno ad essa si organizzi tutto il resto dell’azione statale per quel determinato periodo.
L’intervento statale non solo non è operante, ma è addirittura controperante, se è fatto al di fuori di un piano che abbracci, per un certo periodo di tempo, quelli che debbono essere l’azione dello Stato e il compito storico concreto che si specifica per un determinato periodo. La parola <<piano>> non deve spaventare perché ci sono tanti uomini disposti a dare a questa parola diversi significati. D’altra parte è indubbio che in alcuni dei diversi significati di questa parola si può insinuare un nuovo svuotamento: basta, per esempio, vedere la degradazione progressiva che ha subito attraverso una serie di leggi, di provvedimenti amministrativi e anche di semplici realtà empiriche, il piano e il commissariato del piano nello Stato francese. Non si tratta quindi di una parola, si tratta di vederne il contenuto preciso.
Uscire in modo netto dall’interventismo episodico, che è addirittura controperante, ed entrare invece in una forma di azione statale sintetica e sistematica, è l’unica condizione per porre fine all’extraterritorialità e all’immunità della società economica e al predominio del potere economico sull’ordinamento giuridico.
La realizzazione di una sintesi politica
Conseguenza di quanto ora si è detto è la rivendicazione da parte dello Stato di una funzione non solo di mediazione statica tra le forze sociali esistenti, ma di sintesi dinamica, e quindi di reformatio del corpo sociale: non pura mediazione, non puro equilibrio, non puro arbitrato, ma sintesi propulsiva in questo Stato moderno.
Lo Stato, abbiamo detto prima, non crea gli uomini e non crea la società, ma fa la società. Data una società con alcune forme primigenie o storicamente cristallizzate, ma che rappresentano ormai un qualcosa di informe rispetto a quello che dovrebbe essere in quel determinato momento storico il compito concreto dell’azione statale, lo Stato deve fare la società, traendo il corpo sociale dall’informe. Accettare questo corpo sociale in alcune realtà incomprimibili, che sono quelle prima dette, ma poi reformare quelle e le altre. Questo richiede un’analisi sociologica che si ponga, in una determinata situazione storica, con una spietata sincerità, con uno smascheramento di tutte le ipocrisie, di tutti i luoghi comuni usati anche in buona fede per la tranquillizzazione della nostra coscienza. L’analisi sociologica che deve essere assunta a base di questa scelta deve essere veramente uno di quei momenti supremi di verità in cui si adempie il nostro dovere cristiano. Solo a questo patto si può, allora, assicurare la genuinità del potere politico, altrimenti si potrebbe dire che questo regna, ma non governa.
Solo a questo patto, per esempio, si può dare al suffragio universale un contenuto che vada oltre il puro momento della investitura. Potremmo dire, riprendendo la famosa distinzione che gli antichi facevano fra tirannidi di titolo e tirannidi di esercizio, che il suffragio universale, oggi, nella migliore delle ipotesi, ha una validità e una legittimità nel titolo dell’investitura, ma non la ha e non la dà e non l’assicura nell’esercizio del potere, una volta conferito. Non si tratta di malafede, o di cattiva volontà dell’investito, ma del fatto che questo si trova sottoposto, dopo il momento elettorale, ad una serie incoercibile di pressioni e di sollecitazioni. Non sono sollecitazioni che si fanno salendo i Ministeri, queste sono forse le più aperte e chiare, quelle che si possono anche meglio fronteggiare e alle quali è più facile resistere; ma sono pressioni e sollecitazioni esercitate precisamente dai fatti della società economica, sottostante all’ordinamento giuridico, ma dominante l’ordinamento politico e l’ordinamento giuridico. Per effettuare una legittimazione permanente del suffragio universale che vada oltre il momento del titolo dell’investitura ci sono due false soluzioni, per lo meno due soluzioni che hanno aspetti di falso.
Una è la soluzione di cui ancora di recente il prof. Carnelutti, nostro illustre Presidente, ha avuto occasione di occuparsi accennandone in una <<lettera>> pubblicata sulla rivista Pagine libere: la soluzione corporativa. Giustamente si è reagito all’espressione troppo semplicistica che era stata usata da chi precedentemente si era occupato di questo problema :<<la formula corporativa è ipso facto apportatrice della pace sociale>>. Si è reagito a questa che era quasi una banalità e acutamente, nell’iter di questa reazione si è scritto: << Il corporativismo è un metodo, non un programma. Il corporativismo di per sé non è né progressista né conservatore, né rosso né nero, né destro né sinistro. E’ solo un metodo; anzi il solo metodo, il quale garantisca che l’andare da una parte o dall’altra corrisponde veramente alla volontà del popolo>>. Si è poi specificato ulteriormente questo schema, sottolineando come la soluzione corporativa può consentire di superare quel bivio che viene proposto a questo povero Ercole che è lo Stato attuale: il bivio fra la legge e la sentenza; fra un comando generale, cosi generale che non riesce ad afferrare quasi nulla della realtà concreta, e un comando così particolare che non soddisfa a molti altri casi a cui dovrebbe esser provveduto con un comando di maggiore sinteticità, ma sempre molto meno comprensivo di quello che è la stessa norma generale.
Io mi permetterei però di fare alcune osservazioni, e mi riterrei altamente onorato se queste osservazioni venissero riprese, e mi si desse modo di chiarire alcuni dubbi che permangono nel mio spirito dopo avere attentamente meditato non solo le poche pagine scritte dal nostro illustre Presidente, ma anche lo spirito con cui venivano scritte, come io ho cercato di immaginarmelo e di ricostruirmelo, ritenendo certamente che dietro a quelle non molte righe ci fosse un complesso ed acuto travaglio personale.
Mi pare che così si ritorni allo Stato soltanto promotore di comandi giuridici: il corporativismo sarebbe semplicemente una tecnica per produrre un certo tipo di comandi giuridici, intermedi tra la legge e la sentenza. Con tale impostazione il risultato della sintesi si ottiene indipendentemente dal contenuto, opponendo al contenuto l’ordine esistente, oppure un ordine che debba in qualche modo raggiungere un certo suo equilibrio. Si tratta di una pace, però, che non può essere altro che una pace formale, per l’assenza di conflitti esterni, laddove continuino ad esservi dei conflitti profondi; oppure della supposizione che basti lasciare giocare i rappresentanti dei gruppi, come prima si lasciavano giocare gli individui nel contratto privato, per avere poi il risultato della sintesi. Qui sorge proprio un problema del prius, del punto di partenza. Se questo dialogo tra i rappresentanti dei settori è un puro dialogo tra forme contrapposte avremo, sì, la produzione di un certo comando, ma questo comando rispecchierà la situazione esistente, sarà il risultato della sintesi operata attraverso il prevalere della forza oggi più forte, che è destinata a cercare di conservare la situazione. A meno che non si voglia dire che nel dialogo qualche cosa salterà fuori: ma allora è un raccomandarsi al la buona grazia di chi deve essere persuaso dal più debole. Oppure non si tratterà di un dialogo unicamente riservato ai settori e ai rappresentanti dei settori, come prima si trattava del dialogo tra compratore e venditore nel contratto privato di compravendita, ma di un dialogo mediato dall’autorità politica. In tale ipotesi o quest’autorità è dittatoriale e totalitaria o quanto meno autoritaria, ed allora il corporativismo sarà efficace perché è dialogo fra i settori mediato ed imposto nel suo risultato da un’autorità autoritaria; oppure non lo è, in quanto tale autorità deve ricavare dal basso la sua investitura e il criterio della sua azione, ed allora il problema si ripropone di nuovo. Si esce dal dialogo fra i settori e i loro rappresentanti e si torna al punto di partenza, che deve essere trattato nel momento in cui si effettua l’investitura di colui che deve mediare il dialogo e nel controllo permanente su colui che deve mediarlo e sui criteri in base ai quali l’investito media.
E’ tanto vero che l’affermazione del corporativismo, come metodo e non come programma, è perfettamente esatta (e a me pare veramente definitiva dal punto di vista tecnico-giuridico) che è stata respinta dall’interlocutore cui la <<lettera>> che la contiene è stata inviata, perché questi ha trovato che essa è troppo pericolosa per le tesi che si vogliono prospettare. Colui che non si accontenta di questa interpretazione del corporativismo, che è tecnicamente esatta, ma che non avvantaggia quel determinato tipo di presentazione che si vuol farne, finisce poi per affermare – sono le parole di Pannunzio, dopo la <<lettera>> – che la libera gara dei sindacati rappresenta, nel corporativismo, una continuità storica, nel senso esatto del vecchio liberalismo.
E allora credo che io, per il momento, debba solo attendere delle spiegazioni: da una parte la spiegazione del punto tecnico di inserzione e del superamento di questa pura funzionalità di produzione giuridica del sistema che si vorrebbe creare; dall’altra parte l’individuazione del contenuto storico e del punto di partenza della nuova sintesi e del potere di sintesi.
L’altra soluzione – sulla quale mi soffermerò molto meno perché ha minore interesse dal punto di vista tecnico-giuridico, e un maggior interesse da un punto di vista sociologico – è la soluzione cosiddetta interclassista. Per l’interclassismo la forza (sociologicamente parlando), il mezzo tecnico (giuridicamente parlando) di controllo e di determinazione del contenuto dell’azione in sviluppo di quei poteri statali deve essere effettuata attraverso delle formazioni politiche, permanenti, organizzate, ma comprensive, talmente comprensive da potere unificare settori aventi interessi obiettivamente contrastanti e anzi addirittura contrapposti nella alternativa della reformatio del corpo sociale. Tali formazioni politiche dovrebbero avere addirittura, anche al di là degli interessi, visioni programmaticamente elidentisi di fronte ai criteri e al modo fondamentale della ricostruzione, o di fronte alla individuazione del compito storico concreto, che realizzi l’ideale finalistico dello Stato.
Ora, è facile dire da un punto di vista sociologico e storico che questa soluzione, alla quale si sono rivolti parecchi degli Stati dell’Europa occidentale in questo periodo, si manifesta semplicemente come una riverniciatura formale di quello che era il sistema di quei gruppi semiinstabili, pur se con un grado appena appena più elevato di stabilità estrinseca, che abbiamo visto essere la ragione di paralisi e di disfunzionamento dello Stato moderno, quando dalla strutturazione assolutamente oligarchica ha voluto o dovuto passare ad una certa strutturazione democratica. E’ facile constatare, anche soltanto in base all’esperienza, che questa soluzione delle formazioni cosiddette interclassiste trova la sua unità in elementi che facilmente si possono qualificare come prepolitici; elementi cioè che non sono ancora elementi politici. Per elementi politici si devono intendere, dopo l’analisi che abbiamo condotto, soltanto quelli che hanno attinenza specifica con la individuazione del fine concreto che rappresenta la incarnazione storica di quel certo ideale dello Stato; incarnazione definita non per lo spazio brevissimo di qualche mese, neppure lunghissimo di decenni, ma nello spazio medio di qualche gruppo di anni. Questi soli sono gli elementi politici capaci di discriminare e soprattutto portare l’elemento di sintesi e di soluzione in ordine a due quesiti fondamentali.
Il primo quesito è quello del processo attraverso il quale si deve effettuare il ridimensionamento della dimensione statale, e quindi tutta l’azione dello Stato, nell’ambito della comunità internazionale. Perché se è vero che la crisi dello Stato, in questi ultimi anni, è strettamente legata all’appiattimento delle sue dimensioni territoriali, delle sue dimensioni di popolo, delle sue dimensioni di ordinamento giuridico, è chiaro che il primo elemento politico concreto è questo: il ridimensionamento dello Stato, e perciò dell’azione che lo Stato deve esplicare nell’ambito della comunità internazionale. E’ ancora un elemento prepolitico, non è ancora un elemento politico, quello di un’adesione qualsiasi ad una determinata contrapposizione nella grande alternativa che oggi divide il mondo. Qui siamo ancora in un ambito semplicemente umano e prepolitico; tale ambito non basta per individuare il compito storico concreto dello Stato, anche nella sua azione nell’ambito della comunità internazionale. Il compito storico concreto dello Stato si individua invece in base ai criteri di una realizzazione e di un’azione che possa essere operata entro l’arco di un determinato gruppo di anni, per portare avanti di qualche passo, se volete di qualche millimetro soltanto, questo grande, immenso dovere, che è il ridimensionamento della dimensione statale.
Il secondo quesito è quello relativo alla individuazione dei termini concreti del piano di azione dello Stato per l’assoggettamento all’ordinamento giuridico della società e del potere economico che sinora ne sono stati immuni. Questo assoggettamento non può essere inteso negli elementi astratti di un solidarismo o di una socialità la quale è ancora prepolitica e pregiuridica, una socialità che è soltanto umana, generica. Questo assoggettamento deve definirsi in un compito e in un programma che abbracciano non uno spazio brevissimo, non uno spazio lungo, ma uno spazio definito di un determinato gruppo di anni; quel gruppo di anni che è legato al periodo per il quale dura la investitura data dal suffragio universale. Naturalmente tutto questo implicherà delle conseguenze nella struttura degli organi dello Stato.
Una pubblicità responsabile
Con l’ultima parte delle considerazioni ora esposte siamo già passati alla quinta direttiva che lo Stato moderno dovrebbe seguire in contrapposto alla quinta indicazione negativa che abbiamo fissato come mancanza di pubblicità responsabile.
Occorrono delle strutture radicalmente nuove. Qualunque cosa noi consideriamo delle tante che sono state dette, qualunque angolo di questa complessa verità noi prendiamo in esame, esso ci porta sempre a questa conclusione: l’assoluta, radicale inadeguatezza delle strutture attuali, adottate più o meno da tutti gli Stati, le quali, pur nell’apparente veste di riforma, sostanzialmente sono ancora legate alla struttura vecchia. Occorre una struttura altamente autorevole, responsabile, efficiente, e perciò rapida. La struttura dello Stato moderno non è una struttura autorevole perché nata, come sappiamo, da una finalità fondamentale: quella di contrapporre i poteri nella previsione di un suo raro e limitato funzionamento. Noi siamo di fronte, ormai in maniera radicale, alla fine della struttura parlamentare. Questo si precisa meglio se analizziamo una serie di determinazioni, per esempio la fine del monopolio legislativo delle Assemblee. Certe critiche che vengono rivolte, per restare in casa nostra, anche alle nostre Assemblee, possono colpire con una certa fondatezza determinati uomini, o un determinato partito o un determinato gruppo di partiti o una determinata coscienza o un determinato costume, ma, a volere essere onesti e non ingiusti, bisognerebbe poi arrivare a dire che gli uomini, i partiti o quel determinato costume, non operano perché non si possono adeguare ad una struttura la quale è vitalmente superata. Il bicameralismo integrale è legato alla previsione di una contrapposizione di poteri e di un difficile e infrequente operare dello Stato. E non parlerei neppure di una Camera tecnica, perché evidentemente si tratta di stabilire un potere di sintesi politica. Le Assemblee dovrebbero avere poche ma vaste e programmatiche discussioni su alcune direttive fondamentali; tutto il resto andrebbe dislocato ad un Esecutivo che dovrebbe assumere una parte notevole dei compiti di scelta normativa che prima spettavano alle Assemblee stesse. Tale Esecutivo non avrebbe allora bisogno di complicare il congegno con una Camera tecnica, ma troverebbe la sua strada naturale e spontanea nel Consiglio dei tecnici di cui un Esecutivo, così investito, dovrebbe naturalmente circondarsi, in conformità, volta a volta, delle singole concrete esigenze.
Ci sarebbe poi da dire altro, se si volesse scendere ai particolari. Nell’ambito di quello che è l’organo esecutivo, ci sarebbe da dire qualcosa sulla distinzione fra il Gabinetto, sempre più evidente in tutti gli Stati sia pure con forme appena incipienti, e il collegio dei capi dell’Amministrazione, cosa assolutamente diversa dalla precedente. Questo punto si collega ad un ulteriore discorso, che però non sta a me fare, circa la rigidità del nostro sistema amministrativo, che dovrebbe evidentemente essere abbandonata.
Conclusione
A me pare, per dire una parola che adesso ci richiami più direttamente e più specificamente alla nostra coscienza di cattolici, che di fronte a un compito, il quale parte da una premessa di radicale rinnovamento, noi non possiamo non tener conto del presente. Non si può evidentemente distruggere la casa – e credo che nessuno abbia pensato di attribuirmi questo intendimento – prima che sia stata costruita l’altra. Ma la casa si può usarla come un meno peggio e tuttavia non smettere di pensare efficacemente alla costruzione della casa nuova. Per noi cattolici il modo efficace di pensare alla costruzione della casa nuova credo sia anzitutto partire da questa premessa: non avere paura dello Stato. E’ certo che nella nostra carne è scritto il peso di duemila anni di tirannidi subite, di duemila anni di conflitti tra il potere spirituale e il potere temporale. Ma ad ogni modo non bisogna avere paura dello Stato: respingere ogni visione pessimistica; non limitare l’autorità dello Stato; invece che diffondere uno scetticismo sulla sua funzione o esasperare nel garantismo la sua efficienza, affermare, costruire e diffondere un’analisi sociologica che veda tutta la verità del presente, che determini la coscienza profonda dei compiti prossimi, non rinviandoli a decenni. Si tratta per noi di fondare una ideologia politica e infine un programma di strumentazione giuridica. Questo è il presupposto di tutto. O si fa questo, o altrimenti non ci si salverà. L’avere indebolito lo Stato o avere paralizzato la sua autorità allo scopo di difendersi non tanto da eventuali pericoli presenti ma da quelli che altri potrebbero apprestarci, cogliendo le nostre forme per imporci un’autorità tirannica, potrebbe far sì che molte di queste cose, a un certo punto, ci rovinino addosso. Al posto di uno Stato debole, agnostico, insufficiente, verranno altri che costruiranno uno Stato forte e volitivo, eventualmente senza di noi, eventualmente contro di noi.
Nel capo XIII dell’Epistola ai romani, negli ultimi versetti, S. Paolo ha alcune parole che tutti abbiamo ben presenti, le quali ci dovrebbero fare meditare sul modo come egli, l’Apostolo, vedeva, apprezzava, rispettava, sottolineava con marcature accentuatissime la funzione e l’autorità dello Stato, tuttavia pagani. Una cosa mi ha fatto impressione, in questi ultimi giorni, rileggendo quelle parole. Come tutti sappiamo, egli indica negli uomini che governavano lo Stato, anche se sono romani, anche se sono pagani, anche se si valgono di questa autorità contro Dio, i ministri. Nel testo greco, mentre per parecchi versetti ritorna la parola diacono, diakonos, alla fine, quando si tratta di inculcare ai romani che bisogna pagare il tributo, qualunque tributo, a chi si deve, allora si indicano coloro che esigono il tributo non più come diaconi, come ministri semplicemente, ma con una parola più forte, più comprensiva: leitourgoi theou. Gli <<operatori liturgici>>, per così dire, nel senso evidentemente dei liturghi che apprestavano i servizi pubblici nello Stato greco, ma operatori liturgici di Dio, leitourgoi Theou. A me pare che gli uomini i quali vedano profilarsi uno Stato capace di imporre loro dei gravi sacrifici di ordine materiale allo scopo però di avviare ad una reformatio del corpo sociale e ad una maggiore aequalitas fra gli uomini debbano vedere finalmente profilarsi i <<liturghi di Dio>>.