Settembre 1949
A. Baroni, Dinamismo politico e dinamismo morale, “Studium”, n. 9, settembre 1949.
Questa relazione riportata dal mensile “Studium” ci da testimonianza di un convegno svoltosi a Bologna nel settembre del 1949. In quell’occasione Dossetti fornì un ampio quadro della sua concezione politica: dalla necessità di un realismo e di una visione morale della politica imperniata sui fatti, all’urgenza, per vivificare la democrazia italiana, della circolazione della classi dirigenti. Per terminare con l’esigenza di non scindere il momento sociale da quello politico, soprattutto per non lasciare le riforme, necessarie ad un migliore funzionamento del paese, scoperto dal lato dei consensi e della progettualità. Queste formulazioni dossettiane provocarono in Baroni, autore dell’articolo, una serie di riflessioni, che in parte portarono a delle forzature del pensiero di Dossetti, ma che riuscirono in alcuni passaggi a comprendere il senso profondo delle posizioni espresse dal deputato democristiano.
In un recente Convegno emiliano-romagnolo tenuto a Bologna abbiamo udito una esposizione dell’On. Giuseppe Dossetti su taluni Aspetti dinamici della democrazia, che ha avuto la virtù di far pensare molti ascoltatori.
Partendo da alcune affermazioni dei Messaggi pontifici del Natale 1942 e del Natale 1944, e richiamandosi a certe sue concezioni già in altra occasione esposte, come quella ad es. di una pluralità istituzionale su un minimo di principii, convinzioni e finalità comuni che gli sembra necessaria allo sviluppo democratico, Dossetti ha svolto principalmente quattro idee inerenti al dinamismo di una democrazia viva.
Primo: Necessità di una visione realistica che sfugga alle incomprensioni e alle deformazioni non solo di un materialismo esclusivo ma anche di uno spiritualismo esclusivo: vedere le cose non solo come devono essere, ma anzi tutto come sono. Altrimenti si può correre il rischio, da un punto di vista ingenuamente moralistico e deontologico, di discernere taluni errori ed ostacoli e non certi altri: congegni strutturali insinuati nel corpo sociale a ritardare o impedire uno sviluppo sostanzialmente democratico, e che perciò devono essere rimossi e spezzati.
Secondo: Necessità, se si vuole assurgere da una democrazia iniziale a una democrazia piena, di quella che Dossetti chiama la circolazione dei ceti dirigenti, cioè la partecipazione effettiva di tutti i ceti – ivi compresi anche quelli che sono stimati di cultura inferiore – alla direzione della cosa pubblica.
Terzo: Necessità che lo sviluppo democratico non sia impedito da deformazioni o diaframmi frapposti dai grandi organi della pubblica opinione, i quali pertanto dovrebbero essere sempre in dipendenza di gruppi apertamente. responsabili e comunque soggetti a un controllo comunitario.
Quarto: Necessità di considerare inscindibilmente il momento sociale e il momento politico, giacché le riforme sociali, per se stesse, potrebbero non escludere un’insidia paternalistica, dando il sentimento di trovarsi bene nel proprio paese, ma non la coscienza di trovarcisi in casa propria, con tutti i diritti e le responsabilità conseguenti, e soprattutto con un impegno volontario, con un’autonomia costruttiva operante.
L’osservazione che viene da fare immediatamente sul discorso di Dossetti è che, in tutti i suoi punti, esso si richiama a qualche cosa che non siamo usati a comprendere nell’attività politica qualificata. Questo qualche cosa è una convinzione e una tensione morale condizionante l’azione politica.Vediamo, infatti. Già la premessa della pluralità istituzionale è condizionata a un minimo di convinzioni e finalità comuni: e si noti che questo minimo, questa base comune è essenziale perché la pluralità non si risolva in anarchia. Ora, se cerchiamo gli organi della pluralità ne troviamo quanti ne vogliamo, e operanti e appassionati e prepotenti. Ma l’organo della base, unitaria quale è? Non basta un organo puramente formale, quale la Costituzione (che, oggi come oggi, è sostanzialmente niente altro che il frutto di un compromesso, savio fin che si voglia, dei partiti) per contrappesare la vitalità concreta degli organi pluralistici. Di qui un senso continuo di fragilità nella nostra vita comunitaria: l’angoscia che ogni minimo avvenimento possa rimetterla in forse: e il dubbio che ne sorge, se veramente sia la democrazia il primum della nostra vita associata, o se siano la sua bontà e la sua validità con-dizionate da qualche cosa d’altro, e cioè non soltanto dalla presenza di principii superiori ma dalla realtà, purtroppo oggi per gran parte soltanto augurabile, di convinzioni di costumi di strumenti in cui quei principii concretamente si traducano.
Quanto poi al realismo, esso è una parola che ci richiama subito alla Real – politik di famigerata memoria, ma non in via di somiglianza bensì di antitesi. Il realismo di Dossetti rappresenta infatti una direzione nettamente opposta a quella di un empirismo assoluto: perché questo è l’assunzione a norma di una esperienza puramente tecnica, quello è una tensione di concretezza della norma della coscienza che, per rendersi sempre più efficace e operante, si sforza di farsi sempre più comprensiva della realtà umana, sia storica sia tecnica. Il realismo di Dossetti è niente altro che la giustizia, la quale ha capito che non le basta di pronunciare stratosferiche sentenze, ma deve incarnarsi e prendere su di sè le croci di tutti prima di giudicare. Anche qui dunque tutto è in ragione d’un assoluto morale condizionante. La circolazione dei ceti dirigenti dipende, per suo conto, da una questione pregiudiziale di cultura. E’ vero, come osservava Dossetti, che non di rado uomini di modestissima cultura, operai, gente del popolo, mostrano un’acutezza e saggezza politica superiore a quella di certi professori universitari: ma, come egli pure avvertiva, quella intuitiva capacità si posa pur sempre su un minimo di cultura, che è informazione dei fatti e riflessione sui fatti (nella quale ultima operano anche criteri di tradizionale saggezza). Cosicchè lo sviluppo della capacità popolare verso un intervento sempre più fattivo nei ceti dirigenti è condizionato allo sviluppo di una non fittizia cultura popolare; la quale non sia una spolveratura della cultura aulica, anch’ essa oggi viziata da falsità costituzionali e da conseguenti miopie gravissime, ma attinga direttamente a quelle basi essenziali d’ogni cultura in cui la stessa cultura aulica vuole essere oggi seriamente invitata a rettificare le sue pericolose, inumane deviazioni. Il problema della determinazione (in concreto) di una cultura essenziale è forse il problema primario della nostra civiltà e pertanto pare più ampio di qualunqlle, sia pure ampia, imposta-zione politica.
Un controllo sui grandi organi dell’ opinione pubblica a me pare ad un tempo sommamente necessario e sommamente pericoloso, giacchè solo una nettissima coscienza e una scrupolosa distinzione dei valori necessari e dei valori contingenti può permettere d’effettuarlo senza ricadute più o meno apertamente totalitarie. Ci riconduciamo qui a quanto s’è detto più sopra sulla necessità di costituire gli organi di quella coscienza unitaria che sola può permettere un retto esercizio della pluralità istituzionale e anche esercitare un controllo che non uccida la libertà.
Quanto all’ultimo punto, dell’inscindibilità del politico dal sociale, mi limito a un semplice rilievo. Che cosa può indurre un uomo a sostituire la massima: «patria è per me dove si sta bene» con quest’altra: « patria è per me dove io meglio posso vivere ed operare da uomo », se non una progressiva elevazione morale, se non una superiore penetrazione dei valori fondamentali della vita e dei conseguenti doveri? Pare dunque che tutta questa posizione ci trasporti immediatamente oltre la politica, su premesse di natura indubbiamente morale, filosofica e religiosa. E’ un rilievo che ho sentito fare, subito dopo il discorso di Dossetti. Ma ecco allora riproporsi la pungentissima questione: dovremo dunque eternamente rassegnarci a considerare il morale e il politico come due compartimenti separati, uno in cui si pongono i principii, l’altro in cui si dovrebbe procedere alla applicazio-ne dei medesimi, -ma dove in realtà i fatti sorgono e s’impongono con una loro consi-stenza ed esigenza esistenziale che sconcerta tutti i principii? Qui si rivela il valore dell’impostazione di Dossetti. Egli avverte che l’esigenza morale nel fatto politico va assunta così come insorge nel fatto stesso e appagata entro la logica concreta di quel fatto, penetrato e compreso sino in fondo. Una soluzione morale, per sè ottima, che ‘non tenesse conto di questa necessità, concluderebbe probabilmente ad applicazioni vane o rovinose: in politica non si può dire mai, di regola: pereat mundus, perchè dovere della politica è invece di far vivere il mundus nel miglior modo possibile. Diciamo dunque senza paura che, nella perenne unità della coscienza umana ove tutto è interdipendente, può e deve esistere anche un punto di vista proprio della politica mila moralità, purchè esso mantenga la coscienza di essere nulla più di una prospettiva nuova aperta sulla verità morale e non s’illuda di creare col suo sguardo stesso una morale propria e diversa. Ma, ammesso ciò, possiamo pensare che questo delicatissimo compito di riscoperta e di riassorbimento vivo della moralità da un punto di vista politico sia assunto dai partiti o comunque da organi di parte in quanto tali? O non piuttosto sarà ufficio principalissimo di movimenti e di organi a finalità e a funzione unitaria? Dico, di movimenti che operino entro partiti a crearvi una nuova consapevolezza e un più profondo senso di responsabilità umana; di organi che, oltre i partiti, promuovano e difendano il principio e nella prassi i valori unitari essenziali.
Con ciò conveniamo senz’altro di allargare notevolmente il concetto di politica nei confronti di quello che oggi suole essere usato: ma, così allargandolo, non faccia, che riportarlo al suo valore integrale. E’ vero che l’esistenza e la funzione dialettica dei partiti è elemento essenziale, necessario d’ogni democrazia non fittizia; ma appunto perché essa non si autodistrugga o comunque non resti alla mercé del caso o di equilibri e squilibri giocati da forze interessate, occorre che essa riconosca i suoi limiti e ricerchi il suo completamento. E se non vogliamo che le energie morali unitarie restino perpetuamente aspirazioni platoniche o voci chiamanti nel deserto, bisognerà pure pensare anche a tradurle in organi di una reale funzione ed efficacia politica. Questa però non dovrà svilupparsi piano e col metodo dei partiti, perché in tal caso non si farebbe che creare nuovi partiti e non organi unitari: il che sarebbe inevitabile – l’esperienza dell’Uomo Qualunque insegni! – se questi organi non fossero espressione di forze morali genuine, limpide, valide e coerenti nel contenuto, nelle intenzioni e nella prassi. Oscuro so che parlo, perché le mie parole esprimono il sentimento di una esigenza perentoria non ancora la visione di una realizzazione concreta. Non saprei ancora dire se convenga pensare a costruzioni del tutto nuove, o se invece si tratti di orientare nel senso voluto organismi già esistenti, ai quali poi – nell’ esperienza provata possa essere riconosciuta quella certa politicità. Ma l’esigenza c’è: la respiriamo negli eventi d’ogni giorno; e pertanto ci si deve pensare, e raccogliere su di essa la mediazione e lo sforzo di tutti gli uomini di buona volontà.
Maggio 1956
La posizione dei cristiani nei confronti della Rerum Novarum, “Il Resto del Carlino”, p. 4, 20 maggio 1956, ora in L. Giorgi, Una vicenda politica. G. Dossetti 1945 – 1956, Scriptorium, Cernusco sul Naviglio 2003, p. 238.
Nella convulsa e combattuta campagna elettorale per le amministrative bolognesi del ‘56, Dossetti ribadiva che, in questa conferenza che ricordava la “Rerum Novarum”, gli atti della Chiesa avevano valore soprattutto per la realtà interiore di ognuno, ben distanti quindi da possibili e distorti usi politici e da probabili ingerenze nello stesso mondo dell’attività politica.
Ieri sera Giuseppe Dossetti ha parlato al cinema Rossigni, davanti ad un folto pubblico per ricordare il 60.o anniversario della Rerum Novarum di Leone XIII. L’on. Bersani, presentando l’oratore, ha ricordato come Bologna abbia concorso al maturarsi di quel documento e alle sue prime esperienze applicative; ed ha ringraziato Dossetti per quello che sta facendo e che farà per riportare la nostra città nel cuore vivo dell’esperienza cristiana. Dossetti ha iniziato affermando che il ricordo della Rerum Novarum deve trasformarsi per i cristiani di oggi in un esame di coscienza. Con quell’enciclica il Papa pose sessant’anni fa le prime fondamenta di un intervento più diretto del magistero della Chiesa a difesa dei lavoratori, ma come mai – si è chiesto l’oratore – oggi stiamo parlando dei principi contenuti in quel documento come se si trattasse ancora di realizzarli? Gli avversari ci dicono che quel messaggio pontificio non ha ottenuto nessun effetto e che se qualcosa è stato fatto per i lavoratori, lo si deve ad altre ideologie. Se questa accusa degli avversari, ha continuato Dossetti, fosse vera, sarebbe terribile. Ma dobbiamo confessare che se tutta la verità contenuta nella Rerum Novarum non è stata realizzata, la colpa non è di un suo difetto intrinseco, ma dei cristiani che quel documento non hanno saputo accogliere con la necessaria totalità di adesioni. Appena l’enciclica fu promulgata, conservatori da una parte e progressivi da un’altra contribuirono a contaminarla: i primi tradendone le indicazioni, i secondi utilizzandola sul terreno politico. Gli atti della Chiesa bisogna invece prenderli per quelli che sono, senza discuterli o analizzarli: bisogna coglierli nel loro contenuto essenzialmente spirituale perché impegnino e trasformino la nostra realtà interiore. Questo è l’insegnamento della Rerum Novarum – ha concluso l’oratore – ; le nuove generazioni non pensano più, e non lo penseranno più tra breve, di andare ad attingere a quelle dottrine che volevano o che vogliono concorrere con quella contenuta nel documento pontificio.