Giuseppe Dossetti e la politica estera italiana 1945-1951.
Luigi Giorgi – Scriptorium editrice, 2005, pag. 306, € 22,00
C’è da essere grati a Luigi Giorgi per la pazienza e l’acribia con cui viene scavando intorno al giovane Dossetti, dandoci ora l’esame completo della sua riflessione nel campo della politica internazionale; e c’è da sperare che la sua passione, la sua competenza di studioso non si volgano troppo presto altrove da questo oggetto di indagine.
Ogni volta infatti – ed è anche il caso di questo libro – restiamo colpiti dalla lezione di sapienza e di libertà che ancora ci raggiunge, a più di cinquant’anni di distanza, dal pensiero politico di Dossetti. Cercherò di ricordare qui, velocemente, quegli insegnamenti che mi paiono più attuali o, se si preferisce, più chiaramente profetici. Richiamerei anzitutto la precisa coscienza del salto di qualità della politica estera nel mutato scenario del politico contemporaneo. Non si tratta più, unicamente, di rapporti tra Stati, o di semplice gioco diplomatico. E non soltanto perché, nel nuovo contesto ormai compiutamente “globalizzato”, sebbene in forma bipolare, la figura politica dello Stato-nazione è entrata in un declino inarrestabile; ma perché quegli stessi fattori di “globalizzazione” mobilitano ora molti più numerosi e decisivi soggetti politici: le singole coscienze e l’opinione pubblica, le classi sociali e le forme organizzate dell’agire democratico. Al di qua e al di là dei confini statuali, c’è un immane gioco di forze, interessi, valori, a muovere la storia, che è vano – cioè solo subalterno – sperar di gestire dal ridotto di qualche posizione istituzionale intermedia o particolare. Mi si lasci dire, in tempo di “Imperi” e “moltitudini” o, più concretamente, di strategie di controllo planetario da un lato, dall’altro di audaci, generose, molecolari diplomazie dal basso – che quelle intuizioni conservano intatta la loro pertinenza.
Nella sua sensibilità a questa fenomenologia politica più articolata e problematica, Dossetti può farsi talora trovare spiazzato dall’ accelerazione improvvisa degli accordi riservati, dei contatti ad alto livello etc.; e pagare questa condizione con la debolezza della proposta contingente. Quest’ultima tuttavia non si riduce mai a pura testimonianza: rivela sempre, anche nel ripiegamento dell’ora, lo spessore delle grandi visuali strategiche. Da sottolineare mi sembra, in secondo luogo, proprio la concretezza della sua ispirazione, quale si manifesta nei passaggi cruciali a cavallo tra anni ’40 e ’50. Ad esempio, la consapevolezza dell’impraticabilità di ipotesi neutralistiche nel mondo dei blocchi contrapposti. Ad esempio, l’indisponibilità a un pacifismo unilaterale e per così dire esorcistico; per contro, la disponibilità a sottoporre a calcolo razionale l’indotto di un’economia di guerra, calda o fredda che sia.
Tutto ciò mette in risalto in lui, accanto alla lucidità strategica, l’accortezza della dimensione tattica. Pur cosciente di vincoli e limitazioni, Dossetti lavora bensì alla distensione nei rapporti interni e internazionali, scommette su spazi politici in qualche modo terzi, ricerca un’autonomia politica nazionale; ma lo fa ogni volta senza astrarre dal contesto dato, dagli orizzonti di possibilità e di plausibilità dell’azione politica. Non è poco: i grandi Non possumus nascono spesso, letteralmente, da grandi impotenze. Vero, anche Dossetti dovrà a un certo punto riconoscere un’impotenza. Ma non pretenderà che questo sia un gesto politico, impegnativo anche per altri, anzi per tutti. E ricomincerà, da altra sponda, a preparare un’alterazione più profonda e decisiva del quadro di compatibilità date. In questo, non rivelandosi certo un marginale o un perdente. Non posso non ricordare infine quella che mi pare la bussola della sua navigazione in quel durissimo contesto: l’apertura di una progettualità politica contrapposta al marxismo, alternativa al liberalismo. Non era problematica specifica della politica estera; ma certo attraversava anche questa, e anzi nel suo decisivo discrimine. Non credo che egli immaginasse, secondo un topos nazionale diffuso, un “primato” o una specifica “missione” dell’Italia su questo punto; nemmeno credo, in ultima istanza, che intendesse eseguire un compito storico del cristianesimo, la cui dottrina sociale si posizionava, in astratto, in modo analogo. Credo piuttosto che avvertisse, di là da queste perimetrature ideologiche un po’ esteriori, un movimento, un’esigenza profonda della storia umana tout-court. Che poi, com’è noto, solo umana non è. Giudichi questa storia, giudichino gli uomini di oggi se una simile prospettiva sia rimasta infeconda, e se non costituisca tutt’oggi un riferimento orientante entro il nostro orizzonte.