Il tema affrontato da Piana è di grande rilievo dal punto di vista teorico e di grande attualità.
La versione del testo che abbiamo sottomano è del 2009, è stato scritto quindi prima della crisi notevole dell’economia finanziaria e quindi dell’economia reale che ha attraversato i cosiddetti paese dell’occidente industriale avanzato, eppure contiene un’analisi lucida di quei problemi profondi dell’economia del capitalismo finanziario che condurranno alla crisi, e si interroga sulle risorse possibili che il pensiero può sviluppare per oltrepassarli.
Mi sembra che il libro di Piana raccolga con anticipo l’esortazione a rispondere alla denuncia espressa a chiare lettere, con parole dirette e forti, nei punti 53 e 54 dell’enciclica Evangelii gaudium.
1. leggi il testo dell’introduzione di Roberto Diodato a Giannino Piana
2. leggi la trascrizione della relazione di Giannino Piana
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1. premessa di Giovanni Bianchi 7’02” – 2. introduzione di Roberto Diodato 32’42” – 3. relazione di Giannino Piana 57’18” – 4. intervento di Giovanni Bianchi 10’00” – 5. domande 2’57” – 6. risposte Giannino Piana 27’37” – 7. domande 22’22” – 8. risposte Giannino Piana e chiusura 12’50”
Testo dell’introduzione di Roberto Diodato a Giannino Piana
Il tema affrontato da Piana è di grande rilievo dal punto di vista teorico e di grande attualità. La versione del testo che abbiamo sottomano è del 2009, è stato scritto quindi prima della crisi notevole dell’economia finanziaria e quindi dell’economia reale che ha attraversato i cosiddetti paese dell’occidente industriale avanzato, eppure contiene un’analisi lucida di quei problemi profondi dell’economia del capitalismo finanziario che condurranno alla crisi, e si interroga sulle risorse possibili che il pensiero può sviluppare per oltrepassarli.
Mi sembra che il libro di Piana raccolga con anticipo l’esortazione a rispondere alla denuncia espressa a chiare lettere, con parole dirette e forti, nei punti 53 e 54 dell’enciclica Evangelii gaudium, punti che è bene rileggere:
No a un’economia dell’esclusione
53. Così come il comandamento “non uccidere” pone un limite chiaro per assicurare il valore della vita umana, oggi dobbiamo dire “no a un’economia dell’esclusione e della inequità”. Questa economia uccide. Non è possibile che non faccia notizia il fatto che muoia assiderato un anziano ridotto a vivere per strada, mentre lo sia il ribasso di due punti in borsa. Questo è esclusione. Non si può più tollerare il fatto che si getti il cibo, quando c’è gente che soffre la fame. Questo è inequità. Oggi tutto entra nel gioco della competitività e della legge del più forte, dove il potente mangia il più debole. Come conseguenza di questa situazione, grandi masse di popolazione si vedono escluse ed emarginate: senza lavoro, senza prospettive, senza vie di uscita. Si considera l’essere umano in se stesso come un bene di consumo, che si può usare e poi gettare. Abbiamo dato inizio alla cultura dello “scarto” che, addirittura, viene promossa. Non si tratta più semplicemente del fenomeno dello sfruttamento e dell’oppressione, ma di qualcosa di nuovo: con l’esclusione resta colpita, nella sua stessa radice, l’appartenenza alla società in cui si vive, dal momento che in essa non si sta nei bassifondi, nella periferia, o senza potere, bensì si sta fuori. Gli esclusi non sono “sfruttati” ma rifiuti, “avanzi”.
54. In questo contesto, alcuni ancora difendono le teorie della “ricaduta favorevole”, che presuppongono che ogni crescita economica, favorita dal libero mercato, riesce a produrre di per sé una maggiore equità e inclusione sociale nel mondo. Questa opinione, che non è mai stata confermata dai fatti, esprime una fiducia grossolana e ingenua nella bontà di coloro che detengono il potere economico e nei meccanismi sacralizzati del sistema economico imperante. Nel frattempo, gli esclusi continuano ad aspettare. Per poter sostenere uno stile di vita che esclude gli altri, o per potersi entusiasmare con questo ideale egoistico, si è sviluppata una globalizzazione dell’indifferenza. Quasi senza accorgercene, diventiamo incapaci di provare compassione dinanzi al grido di dolore degli altri, non piangiamo più davanti al dramma degli altri né ci interessa curarci di loro, come se tutto fosse una responsabilità a noi estranea che non ci compete. La cultura del benessere ci anestetizza e perdiamo la calma se il mercato offre qualcosa che non abbiamo ancora comprato, mentre tutte queste vite stroncate per mancanza di possibilità ci sembrano un mero spettacolo che non ci turba in alcun modo.
Si tratta di parole tanto forti quanto chiare e precise. Si tratta quindi di rispondere e corrispondere al loro intento in modo non ingenuo. A tale proposito la strategia messa in campo da Piana si articola, mi pare, su alcune direttive fondamentali: mette a tema la nozione di globalizzazione, mostrandone la complessità, distingue nell’economia di mercato aspetti potenzialmente positivi e aspetti negativi, costruisce il rapporto etica-economia, ripensando il senso dell’etica al di là di quello tradizionale di insieme di prescrizioni e norme morali, pone al centro di questo rapporto la salvaguardia e la promozione della dignità della persona, essere umano come persona che, nel suo senso filosofico, diventa il centro della riflessione di questo libro.
Possiamo partire da quest’ultimo punto, che caratterizza la proposta di Piana dal punto di vista teologico-filosofico: se non si pone al centro la dignità dell’essere umano, espressa e compendiata dal suo essere “persona”, non può darsi nemmeno l’ipotesi e la richiesta di un’economia che sia a misura d’uomo perché misurata dall’essere dell’uomo. Scrive Piana nell’Introduzione del suo libro: “L’etica alla quale si fa qui riferimento rinvia a un’interpretazione del senso della vita (e conseguentemente dell’attività dell’uomo) di stampo “personalistico”, che si ispira cioè a una antropologia della “persona” come soggetto individuale, dotato di una identità unica e irripetibile, e come soggetto relazionale, perciò costitutivamente sociale. L’orizzonte fondativo così delineato, che ha nel concetto di dignità umana e nel conseguente riconoscimento dei diritti fondamentali che la tutelano la sua esplicitazione, è il quadro entro cui vanno inseriti gli indirizzi di carattere normativo di volta in volta enucleati per orientare concretamente le scelte; indirizzi la cui elaborazione implica il ricorso all’argomentazione razionale”.
In questo passo appena letto si trovano affermazioni molto impegnative: si parla di “orizzonte fondativo”, di “diritti fondamentali”, di “argomentazione razionale”: si respira una grande fiducia nelle possibilità della razionalità, della ragione umana, nelle sue possibilità teoretiche: giungere a fondare un orizzonte di senso, e pratiche, la possibilità di orientare e incidere sulle scelte degli uomini. Siamo di fronte a una fiducia nella ragione lontanissima dal clima filosofico cosiddetto postmoderno, caratterizzato dalla critica di qualsiasi argomentazione razionale che conservi un’esigenza fondativa. Qui si gioca una partita importante: Piana sembra affermare una necessità del filosofico che sta alla base del rapporto etica-economia: se non riusciamo a argomentare la natura “personale” dell’essere umano, non abbiamo altri strumenti che non siano semplici opzioni, le quali giocano in fin dei conti sul piano dei poteri e quindi delle forze, per opporci a un individualismo egoistico che vede nelle conseguenze del profitto la fonte della felicità. Condivido questa esigenza: Piana non sceglie la via apologetica in senso semplicemente retorico: se persegui il profitto non sarai felice, non troverai la vera felicità perché non corrisponderai alla tua natura , ma tenta di giustificarla: siamo persone, e alle persone in fin dei conti non basta quella felicità che soddisfa gli individui, e che siamo persone posso almeno cercare di dimostrarlo razionalmente, cioè posso cercare di “farlo vedere” alla tua stessa ragione.
Consentitemi, per comprendere la posta in gioco, un rapido riferimento a un aspetto della tradizione personalista a cui Piana si richiama: in generale il movimento personalista è critico rispetto a ogni forma di alienazione della persona, che può sia avvenire nell’individualismo dove vige la logica del profitto sia nel collettivismo anonimo e materialista e si propone come forma di dissociazione dal “disordine stabilito” della società borghese. Questo si vede bene negli scritti del filosofo francese Emanuel Mounier. La persona è, per Mounier, avvolta nel mistero, al punto da costituirsi essa stessa come mistero. Ciò avviene a causa dell’essenziale relazionalità della persona, sempre situata, mai data in sé e per sé, ma sempre nella situazione di essenziale relazione con gli altri e col mondo. Relazione intrascendibile, che rende impossibile isolare, distinguere e precisamente definire il concetto di persona, ma che d’altro canto ne accentua il carattere comunitario. La persona infatti “non esiste se non in quanto diretta verso gli altri, non si conosce che attraverso gli altri”, ritrovandosi soltanto attraverso la loro mediazione. La personalizzazione, quindi, è una sorta di movimento che si svolge per Mounier in senso comunitario, ed è in contrasto con lo spirito dell’individualismo, il quale al contrario si propone di concentrare l’individuo in se stesso, organizzandolo nelle attitudini di isolamento e di difesa: “Cosi, mentre la prima preoccupazione dell’individualismo è quella di centrare l’individuo su se stesso, la prima preoccupazione del personalismo è di decentrarlo, al fine di collocarlo nelle aperte prospettive della persona… L’atto primo della persona, quindi, è quello di suscitare, assieme ad altri, una società di persone in cui le strutture, i costumi, i sentimenti ed infine le istituzioni siano contraddistinti dalla loro natura di persone”.
Ora la “persona”, così come pensata dalla tradizione filosofica e certamente anche teologica alla quale Piana si riferisce, è, come si è visto, strutturalmente relazione, apertura all’alterità, relazione e apertura che derivano essenzialmente dalla sua creaturalità, dalla sua non autonomia fondamentale, dall’essere stata posta da un atto creativo, da un gesto di amore che la oltrepassa. E’ a questo livello che Piana può ripensare il tema cruciale della “felicità di questa vita”, per usare un’espressione di Salvatore Natoli che insieme altre volte abbiamo commentato. La felicità è ciò che persegue in generale l’essere umano, ed è un tema proprio sia dell’etica che dell’economia. L’attuale recupero di questo tema, scrive Piana “prende avvio dalla costatazione che benessere materiale e felicità non coincidono … Il malessere attuale è infatti provocato dall’esclusiva proiezione verso beni materiali, che hanno un significato effimero e, più radicalmente, dal fatto che l’estensione dei mercati riduce la qualità dei rapporti. La reazione che occorre mettere in atto è allora rappresentata dal riconoscimento dell’importanza di altri ambiti di realizzazione – quello affettivo e quello della partecipazione alla vita civile in particolare – e dalla capacità di perseguirli anche a costo di autolimitare i propri bisogni (spesso superflui o indotti) di ordine strettamente materiale. La “vita felice” – lo rilevava già a suo tempo Aristotele – è quella vissuta nella compagnia degli “amici”; è come dire che l’assunto antropologico che sta alla base della felicità è l’attuazione di forme di relazione ispirate alla gratuità – la relazione è infatti per se stessa il bene -; è cioè la conquista di una vita relazionale nella quale la dimensione personale di ciascuno venga pienamente riconosciuta e sollecitamente promossa”. E’ questa della “vita felice” come vita in compagnia di amici nella quale emerge il carattere gratuito dell’azione, o come spesso si dice il “dono”, un punto cruciale. Uno dei meriti di questo libro sta nel mostrare che si tratta di una questione precisamente e profondamente “politica”, e che qui si gioca il senso stesso della democrazia, la quale non è qui concepita soltanto come complesso di regole e meccanismi di rappresentanza ma come, scrive Piana, “spazio aperto di garanzie e di diritti, che consentono alle persone e ai gruppi di riconoscersi e di essere riconosciuti nelle loro identità e differenze; spazio nel quale si creano le condizioni per una partecipazione alle deliberazioni; luogo del rafforzamento delle virtù civili come conseguenza della percezione che il bene comune non si oppone a quello personale”. Mi sento molto in sintonia con questa idea di democrazia, anche se mi sembra un sogno, così lontano dalla realtà, un sogno che non si è mai realizzato ora e nel passato, ma per il quale vale la pena di lavorare perché si realizzi nel futuro. “L’alleanza tra contratto e dono, scrive Piana, è la via obbligata per raggiungere la felicità”. Mi pare una interessante proposta, che tiene conto della necessità che la gratuità si cali nel mondo delle regole, senza assolutizzarsi e proporsi come forma di obbligazione; la realizzazione di tale alleanza, prosegue Piana, “passa attraverso esperienze che fanno spazio a valori come la solidarietà e la gratuità, la giustizia distributiva e la ricerca della reciprocità e della comunione, nella consapevolezza che le persone altruiste sono più felici di quelle egocentriche e che la pratica delle virtù civili ha come effetto anche la realizzazione piena di ciascuno”. Mi permetto qui di sollevare una piccola questione: è davvero possibile affermare in generale questa “consapevolezza”? io personalmente questa consapevolezza non la provo: a me non pare che in generale le persone altruiste siano più felici delle persone egocentriche ed egoiste. Ma oltre che a Piana vorrei porre questa domanda a tutti voi, perché per me è importante.
Piana rileva che nella fase attuale, nella sua concretezza storica, l’economia versa in una radicale impasse che comporta una revisione di fondo delle sue idee dominanti, revisione che spinge, per dir così, l’economia stessa verso l’etica, verso “forme di partecipazione capaci di garantire ai processi produttivi la loro autentica finalità umana”. Si tratta allora di orientare eticamente e politicamente questo processo in modo tale che l’economia stessa possa trarne giovamento e recuperare la sua propria libertà e la sua natura di servizio all’umano e al suo benessere. In questo senso Piana tratteggia le dimensioni di una “economia civile”, che Piana ricostruisce anche attraverso le sue forme storiche, la quale compia un ridimensionamento del mercato, poiché “il liberismo assoluto conduce al totalitarismo, alla dissoluzione dello stesso mercato per l’affermarsi di forme sempre più accentuate di monopolio e di oligopolio”. Per Piana l’economia civile costituisce “la concreta possibilità di una alternativa tanto all’economia liberista che a quella statalista”. Lungi dall’essere un fenomeno marginale è dotata di una specificità che permette “la costituzione di un rapporto positivo tra la sfera economica e la sfera sociale, tra mercato e solidarietà, non considerate realtà estranee ma momenti essenziali di un unico processo che ha come obiettivo il perseguimento di una positiva esperienza di vita collettiva”. Si tratta insomma di una terza via, realistica in sé e resa ancor più tale storicamente dalla crisi dei modelli neoliberisti e neomarxisti, un modello che non separa il sociale dal mercato, non pensando il mercato come entità neutra destinata esclusivamente a produrre ricchezza, ma insieme non considera il mercato come istituzione antisociale per essenza, come luogo di puro sfruttamento, bensì come realtà rilevante per la vita sociale che può offrire ad essa un contributo positivo.
Le imprese, quindi, protagoniste dell’economia di mercato, vanno in qualche modo “costrette”, eticamente costrette, cioè persuase che ciò sia opportuno e corretto per il loro stesso funzionamento ottimale, a diventare esercizi “sociali”, ad assumersi una responsabilità sociale. Questo l’obiettivo, che può essere perseguito attraverso l’adozione di alcuni principi regolativi, che Piana così riassume: “a) lo scambio di equivalenti, che ha come scopo l’efficienza e il rifiuto degli sprechi; b) la redistribuzione della ricchezza al fine di perseguire il massimo di equità possibile; c) il dono come espressione di una reciprocità che si alimenta nella fiducia vicendevole nello spirito di una vera fraternità”. E’ interessante questo richiamo finale all’idea di fraternità: mi pare richiamare un valore che, se in ultima analisi resta fondato a livello di fede religiosa nell’essere figli dello stesso Padre, è un valore laico, rivoluzionario, che fa cenno a una relazione sostanziale di cittadinanza, a una comunità di diritti e di doveri, a un reciproco rispetto della dignità e della libertà di ciascuno nell’ottica di una almeno tendenziale eguaglianza sociale. Mi pare un valore da riprendere, da ripensare, da approfondire, un valore chiave per una politica sensata. Fraternità dice qualcosa che contesta “quel modello di crescita che si basa esclusivamente sul criterio di efficienza e che non è in grado di determinare in senso proprio che cosa produrre, escludendo a priori l’attenzione ai beni relazionali” . La logica alternativa che a esso conduce è, scrive Piana “la logica della reciprocità, la quale rinvia a un concetto di razionalità più ampio di quello strettamente mercantile perché introduce quali parametri di valutazione dei processi economici fattori che trascendono il semplice livello dell’utilità per fare spazio al perseguimento della felicità come esperienza condivisa”.
Ci troviamo allora di fronte a questo problema: a quali condizioni l’economia civile può essere accolta da un’economia di mercato tesa al profitto secondo canoni neoliberisti, allo sfruttamento delle risorse, all’incremento dell’iniquità per il soddisfacimento dell’egoismo di pochi? Se tale strada dell’egoismo non comportasse felicità per gli individui (ai quali pare importare assai poco trasformarsi, o essere in realtà, “persone”, non sarebbe perseguita. Sappiamo che anche in Italia una percentuale assai bassa della popolazione detiene gran parte della ricchezza nazionale; sappiamo che nel mondo il rapporto è ancor più squilibrato. Sappiamo che, almeno stando a dati forniti dalla Caritas, solo l’8% circa della mancanza di risorse alimentari nel mondo è provocato da carestie e guerre, il resto dipende per lo più dalle modalità dello sfruttamento economico: ora se ciò non comportasse la felicità di alcuni, ciò non avverrebbe. Infatti i modelli sociali che attraggono i poveri sono quelli dei ricchi: anche le migrazioni dei disperati a cui assistiamo non hanno in sé potenziale rivoluzionario rispetto ai modelli di consumo proprie delle società postindustriali, le masse dei diseredati che premono sui nostri confini non chiedono di meglio che l’integrazione e l’adeguamento a quei modelli. Le varie forme di marketing che oggi dominano l’economico fanno decisamente presa sugli esseri umani: perché? Forse perché comprendono meglio delle nostre filosofie la natura profonda dell’umano? E infine: perché tutto ciò dovrebbe cambiare? davvero il concetto di dovere è applicabile all’economia? Non mostra forse l’economico una reale convertibilità del fatto nel valore?
Piana scrive: “L’abbandono di una visione esclusivamente utilitarista e privatistica dell’economia e l’introduzione in essa di comportamenti solidaristi e altruisti, con la convinzione che nei tempi lunghi producano risultati superiori a quelli egoistici, sono i tratti di un’azione innovativa, la quale, se correttamente perseguita, può contribuire, in modo determinante, alla costruzione di una società più giusta e più capace di valorizzare appieno le risorse umane e naturali di cui dispone”. E’ questa convinzione che Piana argomenta in modo assai interessante, scendendo nella concretezza operativa: mostra il ruolo decisivo del cosiddetto “terzo settore”, il settore del privato sociale e della cooperazione, per la ristrutturazione dell’intero sistema economico-sociale, indicandone lo sbocco naturale “nella direzione di un sempre maggiore ampliamento della democrazia economica, costituito dalla confluenza nella responsabilità di impresa, nel sollecitare il mondo economico a fare proprio un modello di conduzione dell’impresa che tenda a conciliare l’emancipazione del lavoro con l’esigenza della competizione e dell’innovazione”. Mette a tema la riforma dello Stato sociale auspicando “l’inserimento attivo tra mercato e Stato della società civile”. Mostra l’importanza, all’interno dei processi di globalizzazione, della rivalutazione dell’Ambito “locale”. Porta la nostra attenzione sulle grandi questioni dell’ambiente, dell’uso delle risorse naturali, della giusta considerazione della natura e del concetto di lavoro, sul ruolo della politica. Tutti temi davvero e assolutamente essenziali sui queli sarà un interessante piacere ascoltarlo.
Trascrizione della relazione di Giannino Piana
Intanto ringrazio Giovanni Bianchi per avermi invitato, anche perché da tempo non ci vedevamo e ci siamo ritrovati un po’ più vecchi, a distanza ormai di molti anni; credo che l’ultima volta che ti ho visto eri ancora presidente delle ACLI. Presidente nazionale. Ci siamo visti a Roma in un convegno a cui mi avevi invitato a fare una relazione. E poi ringrazio il professor Diodato perché ha introdotto in maniera puntuale, precisa, il tema di questa mattinata con riferimento diretto al testo che è stato l’occasione, credo, di questo invito, a partecipare a questo incontro, che è all’interno, mi pare, di un corso molto interessante, molto significativo di formazione alla politica, o di formazione della politica.
Dico subito che cercherò di sviluppare la riflessione rispondendo sostanzialmente a tre domande, lasciando poi eventualmente molto spazio al dibattito; cercherò di stare nei 45-50 minuti, un po’ meno di un’ora, se è possibile, se ci riesco, per poi lasciare spazio al dibattito anche perché so che abitualmente, è proprio nel dibattito che vengono fuori gli interrogativi, le domande più significative che meritano risposta e che magari sono invece trascurate nell’ambito di una riflessione che per forza di cose coglie alcuni aspetti di carattere generale, ma non riesce a entrare nel particolare, non riesce a sviluppare soprattutto risposte a domande che magari ci stanno più a cuore e sono più immediatamente presenti all’orizzonte della nostra coscienza.
Le tre domande, i tre interrogativi cui cercherò di rispondere sono: anzitutto il primo, perché a fronte di una situazione di crisi economico-finanziaria che appunto prima è stata soprattutto finanziaria e poi è diventata economica, nel senso dell’economia produttiva e non soltanto di quella finanziaria che continua evidentemente a sussistere sullo sfondo, rinasce oggi con una certa insistenza, almeno all’interno di alcuni, come dire, settori della scienza economica, la domanda etica: perché rinasce? Quali sono le ragioni? Dico all’interno di alcuni settori della riflessione economica che sono soprattutto quelli della scienza economica, più che degli operatori economici, dove il sistema dominante è ancora quello tradizionale, neoliberista come ben conosciamo.
Seconda domanda: è possibile rispondere, come dire, a questa sollecitazione che viene anche dal mondo economico, a riproporre i medical all’interno dell’economia e quali sono le condizioni per questa risposta? Cioè quali sono i presupposti etici che devono stare alla base di uno sviluppo, di un’economia nuova, di un’economia al servizio dell’uomo, se vogliamo, di un’economia che si sviluppi nella logica di solidarietà. Quali sono i presupposti. Quali sono, dette in altre parole, le pre-condizioni perché l’economia si eticizzi e diventi, in quanto assume appunto una veste anche etica, diventi funzionale alla vera promozione umana, la promozione umana globale che, come già ci ricordava il professor Diodato citando anche in parte il mio libro, non è legata soltanto al benessere economico, all’innalzamento del PIL, ma è legata soprattutto alla felicità, intesa come felicità pubblica come la intendeva Aristotele, ed è legata alla felicità intanto in quanto questa felicità si produce attraverso appunto lo sviluppo, e in questo senso è pubblica, attraverso lo sviluppo di beni relazionali e non soltanto di beni materiali.
Terza domanda, le enuncleo tutte e tre così forse è più facile seguire le cose che verrò dicendo, terza domanda: quali sono allora le vie da percorrere se si vuole appunto dare eticità all’economia? E qui i due grossi nodi sono evidentemente il nodo relativo al modello di sviluppo, quale modello di sviluppo, o se si vuole quale modello di crescita, o anche di decrescita. La tesi di Latour non mi piace tanto per le ragioni che in parte venivano anche accennate dall’intervento del professor Diodato, non mi piace tanto parlare di decrescita felice, ma certamente c’è un problema anche attorno alla decrescita che è legato al modello economico o al modello di sviluppo che si intende appunto portare avanti. E dall’altra parte, l’altro aspetto, l’altra via da percorrere è quella già ricordata dell’economia civile dove in gioco non c’è tanto il modello economico, ma in gioco c’è chi gestisce l’economia, qual è il soggetto dell’economia. È ancora il mercato o lo stato come tradizionalmente si pensava, o c’è un’altra variabile che può intervenire e determinare dei processi alternativi rispetto a quelli del passato? Questa variabile, come già è stato ricordato, è la società civile, vedremo poi in che senso e come.
Queste sono le tre domande, i tre interrogativi attorno ai quali svilupperò queste riflessioni.
Sul primo mi fermerei se possibile meno, cerco di enucleare le cose essenziali. Ho già accennato si tratta di rispondere alla domanda fondamentale: perché a fronte di una crisi economica così profonda come l’attuale rinasce la domanda etica? E non rinasce soltanto per ragioni etiche che sono appunto sempre state presenti, ma rinasce anche per ragioni economiche; paradossalmente, per far funzionare correttamente l’economia perché così come va sviluppandosi l’economia è alla deriva, e per molte ragioni che poi gli economisti ricordano in modo puntuale, è sul fronte della disfatta, della disfatta anche totale. Quella cui noi abbiamo assistito in questi ultimi anni, a partire grosso modo dal 2008 in avanti, è proprio il segno di questa disfatta, di questa difficoltà dell’economia a riuscire davvero a essere se stessa. E cioè a funzionare in termini di produzione di beni che soddisfano bisogni reali e in termini anche di prestazioni di servizi che altrettanto sono disponibili per la soddisfazione di bisogni reali o di diritti anche fondamentali della persona, quali sono il diritto alla alimentazione, il diritto anche al lavoro e così via.
Ecco, perché rinasce? Dobbiamo fare un brevissimo excursus storico per dire come l’economia che si è sviluppata grosso modo a partire dall’inizio della industrializzazione, fine del Settecento per intenderci, quando si è messo in moto un processo che poi si è progressivamente accentuato fino a diventare seconda industrializzazione, e anche postindustriale come oggi si dice nella situazione attuale, l’economia che si è sviluppata a partire da allora è un’economia che si basava su alcuni presupposti, di cui il più fondamentale era la massimizzazione della produttività in funzione anche della massimizzazione del profitto che veniva poi investito nella produttività. Cioè, massimizzazione della produttività e massimizzazione del profitto all’interno di un mercato libero, in cui si doveva sviluppare una concorrenza assolutamente libera e dove tutto sarebbe funzionato nei termini poi anche di esaltare la produttività e quindi in qualche modo anche di favorire un processo di redistribuzione della ricchezza. Questa era per esempio la tesi di Smith, Adam Smith, uno dei padri fondatori dell’economia liberale, dell’economia che nasce nel contesto illuministico liberale e dice per un verso che non c’è bisogno di tanta etica per far funzionare l’economia, perché l’economia già all’interno di se stessa produce un’etica. La produce nel senso di alcuni valori fondamentali che devono stare alla base del mercato perché funzioni, il valore della lealtà, del rispetto dei contratti e così via, ma anche la produce nel senso che l’elevarsi sempre più accentuato della produttività comporta necessariamente che ci sia una mano invisibile, che per Smith era la mano di Dio addirittura, che ridistribuisce ciò che viene prodotto per cui la ricchezza non è la ricchezza di pochi ma diventa la ricchezza di tutti, si estende globalmente a tutti.
Questa prospettiva che si basava soprattutto su una concezione, anche questa illuministica del progresso indefinito e illimitato, quindi della possibilità di una produttività che andasse avanti in modo indiscriminato, questa prospettiva che ho descritto molto rapidamente, sommariamente e direi anche un po’ rozzamente, questa prospettiva viene meno con il passar del tempo soprattutto nel periodo più recente, quando si cominciano a evidenziare alcuni difetti di questo sistema. Perché? Perché intanto ci si comincia ad avvedere che, come dire, la possibilità di produzione di beni non è illimitata perché questo si scontra con il fatto che le risorse, le risorse naturali sono illimitate e la presa di coscienza del limite delle risorse comincia a mettere in crisi quel modello che si basava sulla presunzione di risorse indefinite, di risorse illimitate. Nasce la questione ecologica, sia per un verso come attenzione all’uso delle risorse che sono appunto limitate e non indefinite, sia come questione legata anche ai processi di inquinamento che una produttività fine a se stessa e massimizzata inevitabilmente produceva e quindi la necessità di arrestare quei processi per stabilire un minimo di qualità della vita, necessità che comporta evidentemente, laddove viene avvertita, anche dei costi economici molto alti. Per cui se metto sui due piatti della bilancia, da una parte l’esito produttivo che ho realizzato e dall’altra parte i costi anche economici che devo in qualche modo mettere in conto per mantenere l’ambiente in qualche modo ancora abitabile per me e per le generazioni future, quell’apparente livello molto alto raggiunto si abbassa di molto. Emerge quindi questa prima difficoltà.
L’altra difficoltà, ce ne sono molte altre, che mette in crisi il sistema tradizionale e dunque, come dicevo, rende trasparente la necessità di ricorrere all’etica per far funzionare l’economia, anche se poi dirò che non è sufficiente questo per l’etica, l’etica ha anche altre ragioni, non deve servire soltanto strumentalmente per far funzionare l’economia, l’altro aspetto è la crescita delle sperequazioni già ricordata, che a livello ormai mondiale, in un contesto di globalizzazione, sono estremamente evidenti: il rapporto nord-sud, anche se alcuni paesi del Sud del mondo sono decollati in questi anni, c’è una sorta di movimento in atto da questo punto di vista, però la sperequazione rimane profondamente evidente ancora oggi tra il Nord e il Sud del mondo. E rimane evidente anche all’interno dello stesso mondo sviluppato tra categorie diverse di persone. L’Italia è uno di quei paesi in cui in questi ultimi 10 anni è più cresciuto il divario tra ricchi e poveri, tra persone, e sono sempre meno, che hanno in mano la gran parte del patrimonio, e dall’altra parte invece una massa sempre più consistente di persone che vivono in condizioni di povertà. Ormai siamo attorno mi pare in Italia ai 12 milioni, di cui credo di aver capito dalle ultime indagini, 12 milioni di gente in povertà. Da distinguere tra poveri in assoluto e poveri relativi: i poveri in assoluto credo che siano tra i 4 e i 5 milioni. Più o meno certamente: la povertà va sempre anche analizzata in questo modo.
Ecco, allora questo crea situazioni, certamente dal punto di vista etico riprovevoli, perché denuncia uno stato di diseguaglianza che appunto mette a dura prova l’etica. L’etica si basa su criteri di rispetto dell’uguaglianza, e quindi della giustizia e dell’equità distributiva, insomma in qualche misura: qui siamo di fronte a una situazione che dal punto di vista etico è assolutamente riprovevole ma che mette in crisi la stessa economia per due motivi che vorrei accennare. Il primo è che senza dubbio cresce la conflittualità sociale anche a livello mondiale, pensate alle guerre per l’acqua, eccetera, e questo evidentemente ha riflessi negativi anche sull’economia: le economie funzionano grazie al fatto che c’è appunto una certa stabilità, ma, se veniamo anche a paesi come il nostro, paesi occidentali, questo crea anche difficoltà per l’economia perché evidentemente non avendo disponibilità sul mercato, delle persone sul mercato, evidentemente c’è una riduzione dei consumi che ha riflessi negativi anche sul terreno economico.
Questi sono soltanto alcuni aspetti tra i molti che potrebbero essere evidenziati che dicono appunto come c’è questa esigenza di riportare l’etica al centro dell’economia, paradossalmente per far funzionare l’economia: quello che fino a ieri era considerato eticamente negativo, ma che veniva invece giustificato sul terreno economico perché si parlava di autonomia dell’economia rispetto all’etica, l’economia ha le sue leggi che venivano considerate leggi naturali, leggi sacrali, è oggi invece anche economicamente improduttivo; quello che fino ieri era soltanto eticamente inaccettabile, è oggi anche economicamente improduttivo se si tiene conto dei fattori che ho ricordato e di molti altri, ecco. Tanto e vero che ormai ci sono economisti, ne cito uno fra tutti, che è un economista americano, premio Nobel, per altro di matrice, e questa matrice si vede, indiana, alludo ad Amartya Sen, che dice che ormai l’etica è necessaria all’economia, insiste moltissimo su questo concetto di ricentrare l’economia sull’etica, di riportare al centro dell’economia l’etica. Etica che vuol dire appunto l’etica della solidarietà e quindi della migliore distribuzione della ricchezza in funzione anche di un sistema economico che sia più agevole, l’etica anche nel senso anche del rispetto della natura, tanto per ricordare i due temi che ho citato tra i molti, poi si potrebbe allargare il discorso; lo si potrà fare eventualmente nel corso anche del dibattito.
Ecco, questa è la ragione e allora diventa, secondo me, importante, dicevo l’etica non deve accontentarsi di questo, cioè l’etica non è funzionale all’economia altrimenti saremmo dentro il quadro di un’etica utilitarista che io ritengo non accettabile; proprio il discorso fatto da Diodato prima sulla fondazione dell’etica, fondazione che deve andare di pari passo poi con la elaborazione di un’etica normativa, ovviamente, e misurarsi con i problemi economici oggi non significa semplicemente fare delle affermazioni astratte di principio, l’etica al servizio dell’uomo, l’etica nella logica di solidarietà che pure ho fatto anch’io, ritengo giustamente, perché questo è, come dire, il quadro, il contesto, ma significa misurarsi con le dinamiche dell’economico, con le leggi che non sono sacrali perché l’economia non è una scienza naturale è una scienza umana insomma, e quindi non ha leggi logico-matematiche o logico-fisiche, funziona sulla base di una serie molto complessa di fattori tra i quali anche fattori emotivi. Per quel che sappiamo, soprattutto quando si parla di etica finanziaria, questo elemento emotivo gioca un ruolo anche decisivo nelle scelte. Ma occorre misurarsi con le dinamiche, con le leggi, occorre cioè da una parte un’economia che appunto non sacralizza le proprie leggi ai propri fini, ma dall’altra parte anche un’etica duttile, cioè un’etica che non rinuncia ai principi o ai valori fondamentali, ma che si misura poi sul terreno normativo, anche attraverso delle mediazioni e andando alla ricerca del bene possibile e qualche volta anche del male minore, laddove non è possibile fare altro. Ecco questo lo dico come presupposto fondamentale. E se questo è chiaro credo di aver risposto alla prima domanda.
Vengo alla seconda. La seconda domanda era: allora ci sono dei presupposti che stanno alla base della eticizzazione dell’economia e quali sono questi presupposti? Ci sono delle pre-condizioni che l’etica deve porre, qui siamo sul versante dell’etica che, dicevo, non ha soltanto il compito di registrare una domanda che nasce dal di dentro dell’economia, ma a sua volta evidentemente pone anche all’economia delle domande e soprattutto sollecita l’economia ad andare in certe direzioni. Ci sono dei presupposti, delle pre-condizioni? Fate una brevissima apertura: in realtà quando si parla di economia, che è un po’ il titolo che ho dato a quel libro, evidentemente si fa riferimento a un tipo di razionalità che si chiama appunto anche razionalità economica che ha come valore, o criterio determinante, l’efficienza; un’economia inefficiente è una diseconomia chiaramente, un’economia che non produce beni, che non produce servizi è una diseconomia, l’efficienza è un criterio fondamentale, direi è il valore dell’economico, l’economia nasce proprio per produrre beni, per produrre ricchezza, per produrre servizi. E c’è tutto il discorso più ampio dei beni che va nella direzione dei servizi.
Quindi c’è questa esigenza dell’efficienza, ma l’efficienza deve misurarsi con il valore dell’etica, quando l’etica soprattutto si confronta con l’economico, che è il valore della solidarietà. Dove la solidarietà è più della giustizia. È più della giustizia, la base della solidarietà è la giustizia, ma è la giustizia distributiva, è la giustizia coniugata con l’equità. Nella prospettiva cristiana potremmo dire che è la giustizia che fa appello anche alla carità, è il discorso del dono, del gratuito e così via. Ma quanto meno è la giustizia collegata strettamente con l’equità, nel senso che non è la giustizia intesa come perequazione oggettiva, semplice perequazione oggettiva dei diritti, ma è la giustizia che tiene conto anche delle diversità soggettive, dei bisogni soggettivi. Cioè non mortifica il singolo nella sua unicità, nella sua irripetibilità, ma tiene conto anche delle esigenze del singolo.
Io credo che questi due valori, il valore della efficienza che è il valore dell’economia, e il valore della solidarietà che è il valore dell’etica, siano profondamente tra loro coniugabili nella misura in cui l’efficienza non la interpreto in senso puramente quantitativo, come massimizzazione della produttività e del profitto in funzione della produttività, ma la intendo in senso qualitativo, come rispetto di una serie di esigenze chiedendomi, per esempio, non soltanto come distribuisco ciò che produco (questo è fondamentale), ma chiedendomi anche che cosa produco, per chi lo produco, se quello che produco è funzionale a soddisfare esigenze vere o esigenze invece del tutto aleatorie, o addirittura esigenze di bisogni indotti dalla pressione sociale attraverso i media. Questa è una domanda fondamentale.
C’è un problema della produzione sul quale occorre interrogarsi, su che cosa si produce, per chi lo si produce. Lo produco per un settore molto limitato della popolazione che ha già soddisfatto tutte le esigenze fondamentali e più che fondamentali, aleatorie, eccetera, o lo produco a partire dai bisogni delle persone che sono invece ancora in condizioni di arretratezza economica? O ancora, come produco? Cioè attraverso quali vie, che rispetto ho dell’attività, per esempio, lavorativa? Qual è la qualità dell’attività lavorativa che è strettamente connessa con il tipo di produzione che vengo facendo? Cioè sono tutte domande, tutti interrogativi.
Allora, se l’efficienza la misuro così, non in termini puramente quantitativi, ma in termini qualitativi, per termini qualitativi intendo quello che ho cercato di dire finora, evidentemente l’appello alla solidarietà è immediato e d’altra parte la vera solidarietà però deve misurarsi con l’efficienza; una solidarietà che semplicemente proclama astrattamente che bisogna essere solidali e non si misura con la produzione di beni attraverso i quali poi esercitare questa solidarietà, è una solidarietà che non ha senso. Ecco, efficienza e solidarietà sono coniugabili fra di loro nella misura in cui viene correttamente definita l’efficienza, secondo quella logica che ricordavo, e dall’altra parte viene anche, come dire, ripensata la solidarietà nella logica dell’attenzione anche alla produzione di beni per potere poi fornire, in maniera equanime, alla famiglia umana. Notate la famiglia umana, che non è soltanto quella degli uomini attualmente esistenti, che il bene comune, il cosiddetto interesse generale (io preferisco parlare di bene comune, piuttosto che di interesse generale), non riguarda soltanto oggi le generazioni esistenti sulla faccia della terra, l’umanità esistente, tutto l’uomo e tutti gli uomini per usare un’espressione che a suo tempo Paolo VI ha messo al centro di un’enciclica fra le più belle, secondo me, sullo sviluppo, la Populorum progressio, ma riguarda anche l’umanità futura e gli uomini che verranno, le generazioni che verranno alle quali devo consegnare un mondo abitabile, quanto meno. E c’è una concezione non più soltanto sincronica, ma anche diacronica del bene umano che deve essere messa in gioco anche sul terreno dell’economia.
Questo lo dico per dire che appunto allora c’è una possibilità di sintonizzazione laddove appunto non è vero che l’efficienza contraddice la solidarietà e viceversa. La vera solidarietà è una solidarietà efficiente, come la vera efficienza è un’efficienza solidale, che cioè conduce alla solidarietà nelle direzioni che ricordavo, prima fra tutte quella della distribuzione della ricchezza, ovviamente, della equa distribuzione della ricchezza.
Allora, quali sono, in questo contesto, le precondizioni o i paradigmi, o se volete i presupposti per una efficizzazione della economia, perché l’economia venga condotta in modo etico? Io ne cito quattro, ve ne sono molti altri probabilmente anche qui, ma quelli che mi sembrano più fondamentali. Il primo, l’ho già in parte ricordato, è la messa al centro dell’economia del lavoro, la centralità del lavoro, per così dire, il fatto cioè che, una volta si faceva il discorso sul rapporto fra lavoro e capitale e anche le encicliche papali, dalla Rerum Novarum in poi, parlano molto di questo tema, del rapporto lavoro-capitale. Ecco, la centralità del lavoro che vuol dire l’attenzione a un coinvolgimento nell’attività lavorativa di un numero quantitativamente sempre più rilevante di soggetti: c’è il diritto fondamentale al lavoro che è sancito anche dalla nostra Costituzione, che per altro inizia proprio con “l’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro”, non fondata quindi sul censo, come era probabilmente nello Statuto albertino, da cui probabilmente anche la Costituzione ha ripreso alcune cose, ma allora era soprattutto questa l’ottica fondata sul lavoro: il lavoro è un bene fondamentale, uno dei diritti fondamentali, uno dei diritti sociali che la nostra Costituzione molto bene impara in maniera equilibratissima; nella prima parte mette in rapporto i diritti di libertà, i diritti civili e i diritti sociali e sottolinea l’importanza che la concretizzazione dei diritti sociali, l’incarnazione vera dei diritti sociali, ha proprio per rendere effettivi i diritti civili. Il famoso articolo 3 in cui si dice che lo stato deve intervenire per consentire a tutti di diventare cittadini, questa è la sostanza, insomma, attraverso l’assicurazione a tutti di alcuni diritti fondamentali che sono il diritto al lavoro, il diritto all’istruzione e il diritto alla salute e così via.
Ecco, allora io ritorno sul discorso che stavo facendo. Quali sono questi? La centralità del lavoro, anzitutto, che non vuol dire soltanto garanzia, oggi sappiamo bene quanto questa centralità del lavoro sia diventata un tema dominante della crisi, questa difficoltà a trovare lavoro, questa estensione della disoccupazione e della inoccupazione giovanile, in particolare, con livelli spaventosi in percentuale. Dal punto di vista strettamente economico che ci sia una certa percentuale di disoccupazione, che tuttavia non raggiunge i livelli che ha oggi nel nostro paese dove siamo quasi al 13% complessivi e oltre il 40% nell’ambito del mondo giovanile, ma un certo livello di disoccupazione è fisiologico. Quando si supera però quel livello diventa non più fisiologico, ma patologico, diventa un fatto così grave che denuncia una situazione di disagio allargato, ma soprattutto denuncia un non funzionamento dei meccanismi economici, insomma. La centralità del lavoro è quindi anzitutto messa in rapporto con il lavoro che non c’è e quindi con le garanzie che devono essere date perché il lavoro ci sia. Ma va messa anche in rapporto con il lavoro che c’è e la qualità dell’attività lavorativa, c’è anche un problema che riguarda tutto il lavoro che c’è, cioè coloro che lavorano, che tocca anche il discorso della qualità del lavoro, come si lavora, lo dicevo già prima. Non soltanto nella produzione, ma anche come si produce, come, cioè attraverso quali vie, garantendo quale rispetto dei diritti. Noi oggi siamo di fronte a una situazione di disagio quantitativo soprattutto, ma questo disagio quantitativo si accompagna anche un disagio di tipo qualitativo, che non è più legato tanto forse alla fatica fisica come era in passato che si è ridotta di molto tranne che in alcune attività lavorative che sono ancora soggette alla fatica, ormai la tecnologia ha ridotto la fatica fisica di molto, ma ha esteso il campo della cosiddetta fatica psicologica, della difficoltà, come dire, della alienazione che si produce per il fatto che si è soggetti a logiche come quelle della macchina, e così via. Quindi la centralità del lavoro, primo, il lavoro al primo posto, insomma.
Secondo, un’economia che sia decisa nella misura in cui il profitto, prima ancora di essere, come dire, profitto di carattere aziendale, è anzitutto profitto sociale, cioè c’è il primato del profitto sociale sul profitto aziendale, che non vuol dire negare il profitto aziendale che evidentemente è anche necessario se si vuole allargare il campo dell’attività economica ed essere anche più produttivi in un certo senso, e dall’altra parte poter anche innovare; la innovazione esige evidentemente reimpiego di capitale. Tuttavia, profitto sociale. Cosa vuol dire profitto sociale? Vuol dire l’attenzione appunto a che l’economia sia per un verso capace di sviluppare sempre più, come dire, di impegnarsi sempre più nella direzione già ricordata dell’allargamento del fronte dell’attività lavorativa, ma per altro verso anche di assumersi il carico, e questo è ancora molto poco, assumersi il carico delle operazioni negative che avvengono attraverso i processi economici, laddove soprattutto l’uso della tecnologia in maniera sempre più accentuata e sofisticata, crea tutta una serie di ricadute sull’ambiente, su altro, eccetera, le cosiddette esternalità di cui si deve fare carico chi produce, non, come dire, rimettendole soltanto.
Ma c’è molto di più ancora. La responsabilità sociale, e quindi la verifica del profitto sociale, deve passare anche attraverso il chiedersi che riflessi sociali ha quel tipo di produzione che si viene realizzando e come quel tipo di produzione arricchisce la società in quanto tale nella soddisfazione dei bisogni che sono anzitutto bisogni fondamentali, ma anche altri bisogni che sono comunque corrispondenti a delle potenzialità che affiorano, che afferiscono anche all’essere dell’uomo. Questo è un secondo dato molto importante. Da questo punto di vista è nata per esempio la responsabilità sociale di azienda che qualche volta però rischia di essere soltanto una copertura. Poi sono nati anche i codici etici all’interno delle aziende che dovrebbero verificare i risvolti sociali positivi dell’azienda, il contenimento degli aspetti negativi e, per altro verso, anche i risvolti positivi della produzione dell’azienda e così via, però siamo ancora molto al di sotto delle esigenze di dare questo significato al profitto, anzitutto di profitto sociale e non soltanto di profitto aziendale.
Terzo elemento. Qui entra in gioco il problema della finanza. Il capovolgimento della attuale ottica, cioè la messa al centro dell’economia, dell’attività produttiva e non di quella finanziaria. Cioè, il primato dell’attività produttiva sull’attività finanziaria. Se andiamo a vedere anche nella storia dell’economia occidentale ci rendiamo conto che l’attività finanziaria, le banche, che sono nate da molto tempo, sono nate addirittura originariamente dai Monti di Pietà, i Monti di Pietà sono le prime sostanzialmente banche dove si prestava il denaro; c’era la famosa questione del prestito a interesse e così via, su cui io non voglio in questo momento assolutamente entrare, sono stati per primi i francescani a dire che era legittimo il prestito a interesse nella misura in cui l’interesse era evidentemente contenuto, era limitato, e che questo favoriva un processo che poi garantiva ai poveri soprattutto di essere assicurati. Infatti, uno dei principi della scuola francescana era che il prestito a interesse poteva essere dato normalmente ma non doveva essere richiesto l’interesse ai poveri; ai poveri si dava il denaro e basta, gratuitamente, o si davano le prestazioni, i servizi gratuitamente.
Bene. Le banche sono nate da molto, l’economia finanziaria è nata da molto, ma è nata in funzione dell’economia produttiva, al servizio dell’economia produttiva, come dire, fattore dipendente rispetto all’economia produttiva. Di fatto, c’è stata un’inversione di rotta che è partita anche da noi in Occidente dalla metà degli anni ’80, credo, grosso modo, per cui l’economia finanziaria ha preso il sopravvento sull’economia produttiva, è diventata l’economia tout court; e l’economia produttiva è diventata un’economia al servizio dell’economia finanziaria, con la trasformazione anche di aziende che erano tradizionalmente aziende produttive in aziende finanziarie sostanzialmente. Io vengo da Novara, penso a che cosa è oggi la De Agostini rispetto a quando è nata, o rispetto anche soltanto a vent’anni fa. Oggi la produzione della De Agostini è il 5% di tutta l’attività della De Agostini, il 5% la produzione tradizionale, quella cioè di libri, di carte geografiche e così via, il 5%. Perché la De Agostini ha ormai, come dire, una serie di presenze all’interno di società finanziarie a tutti i livelli, compresa quella dei giochi, tra l’altro, che è in gran parte il dato dei giochi che sono quelli che danneggiano anche gli italiani e che sono in gran parte gestiti dall’azionariato della De Agostini. Ecco, chiudo la parentesi, era soltanto per fare un esempio.
C’è stata una trasformazione, un passaggio indebito e io credo che questo sia eticamente inaccettabile, moralmente inaccettabile, questo mettere in primo piano l’economia finanziaria rispetto a quella produttiva. Perché l’economia finanziaria se una funzione ce l’ha, e ce l’ha senza dubbio, è quella di essere al servizio dell’economia produttiva e non viceversa.
L’ultimo presupposto etico è, come dire, il ritorno del giusto rapporto tra politica ed economia. Politica lo dico nel senso più alto, più nobile del termine. Cioè se vogliamo il primato della politica sull’economia, anche qui ci sono una serie di primati che vanno ristabiliti, per così dire, il primato della politica non vuol dire l’immischiarsi diretto della politica nell’economia, come in parte è avvenuto anche da noi dal dopoguerra appunto con le partecipazioni statali, che peraltro hanno segnato anche in un certo momento storico un fatto altamente positivo. Vuol dire restituzione della politica di centralità: oggi noi siamo di fronte, come dire, a una politica che, al di là dei modi con cui viene esercitandosi, è comunque sempre più debole, per ragioni che ben conosciamo. Anzitutto per il fatto che a dominare, soprattutto in Occidente, sono i poteri forti, ma non solo in Occidente, ormai anche a livello mondiale, anche laddove ci sono sistemi ancora, come in Cina, di totalitarismo comunista insomma; le logiche dominanti poi sono logiche di carattere economico, cioè c’è una strana acquisizione all’interno di un sistema che è gestito ancora rigidamente in senso comunista, c’è ancora all’interno di quel sistema un’accettazione tranquilla dell’economia di mercato. Di un’economia di mercato che soprattutto dopo la caduta del muro di Berlino, e dopo la fine dei regimi collettivisti, dell’economia collettivista pianificata dei paesi dell’Est, è diventata egemone, ma è diventata anche sempre più economia di mercato libero nel senso liberista, nel senso di mercato senza regole, senza dispositivi di controllo.
Ecco, dicevo: la politica rischia di diventare sempre più, di fronte alla presenza di questo potere forte dell’economia e del potere della comunicazione che è strettamente collegato con quello economico, rischia di diventare sempre più una variabile dipendente di questi poteri, lo è a livello mondiale, lo constatiamo ogni giorno. Non parliamo dell’Europa dove in fondo il governo europeo sono le banche. I diktat non vengono dalla politica, vengono dalle banche. Anche il nostro governo ogni tanto riceve qualche sollecitazione, qualche indicazione che viene dalla Banca Europea o comunque dalla Deutsche Bank, la Banca Tedesca che in questo momento egemonizza un po’ l’Europa, perché la Germania in questo momento è il paese forte, il paese che in qualche modo in Europa ha la maggiore rilevanza in termini di potere.
Ecco, io credo che qui siamo di fronte a un altro elemento, nodo critico molto grosso insomma: la politica che perde di consistenza, sia perché esistono appunto questi poteri forti che l’asservano a se stessi, sia perché in realtà in un contesto globalizzato, in un mondo globalizzato in cui globalizzate l’economia, globalizzate la comunicazione, globalizzate le organizzazioni sociali, la politica continua a essere una politica provinciale, cioè legata agli stati nazioni. Il tentativo di fare qualcosa di più come è avvenuto prima negli Stati Uniti d’America e poi in Europa e poi in America latina, è un tentativo ancora, tranne quello statunitense che ha però delle sue caratteristiche specifiche, è un tentativo ancora molto modesto e molto limitato e l’unificazione avviene soprattutto sul terreno del mercato, non sul terreno politico. Pensate come l’Europa non è ancora riuscita ad avere una politica estera comune: ogni volta che scoppia qualche caso nuovo, significativo a livello mondiale, si mobilita ciascuno stato per proprio conto. Ma questo fatto che appunto sia ancora provinciale, sia ancora legata agli stati-nazione, la politica, fa sì che non possa incidere su certi processi che avvengono ben al di là delle frontiere dei singoli stati-nazione, che sono trasversali, che vanno oltre le frontiere degli stati-nazione.
Questo stato di debolezza della politica si riflette poi inevitabilmente sulla difficoltà della politica a dire qualcosa nei confronti dell’economia, ad assumere delle posizioni nei confronti dell’economia, dove le posizioni potrebbero essere anche diverse ma io credo che intanto ci sia un’esigenza forte di dettare all’economia delle regole: non c’è nulla di meno libero di un mercato liberista, perché sul mercato liberista affiorano una serie di monopoli che bloccano il mercato per cui un mercato libero è un mercato in cui possono affiorare un numero di persone, di soggetti sempre più vasto, mentre il mercato liberista è un mercato che inevitabilmente impedisce questo, perché appunto affiorano i monopoli, gli oligopoli e così via come ben sappiamo, i trust. E allora ecco: dettare le regole, dettare le regole perché davvero il mercato economico sia davvero un mercato libero, in cui appunto un numero sempre più accentuato, sempre più allargato di soggetti possano affiorare. Ma dettare le regole anche per la conduzione del mercato in certe direzioni piuttosto che in altre, questo dovrebbe essere un compito della politica. Come altro compito della politica è anche quello in qualche modo di condizionare gli orientamenti dell’economia. Pensate ad esempio a tutto il sistema del credito che, secondo me, non dico totalmente, ma in parte dovrebbe essere anche in qualche modo controllato dalla politica, perché questa è la strada per riuscire poi evidentemente a far sì che la produzione si indirizzi verso bisogni veri, che si abbiano per lo meno, nel rispetto della libertà e dell’autonomia evidentemente dell’economia, ma che la politica ha un compito superiore, un compito di conduzione più alta. È veramente il luogo in cui si fa sintesi di tutte le esigenze e si ha di mira il bene comune della polis, della città. Questo è il compito della politica e questo, secondo me, è un altro elemento da tenere in considerazione.
Con questo ho chiuso la seconda parte. Vengo alla terza e ultima, cercando di essere anche più rapido perché vedo che il tempo sta passando. Quali sono allora le vie percorribili? Sono due fondamentalmente, ne cito due anche se ciascuna di esse meriterebbe degli approfondimenti che non possiamo evidentemente fare in una relazione che ha giustamente dei limiti di tempo. Beh, la prima via, dicevo, è quella del ripensamento del modello di sviluppo, è la via del contenuto: quale economia? Basata su quale modello di sviluppo? Oggi si parla molto di modello di sviluppo ecocompatibile… Ecco io credo che qui entrano in gioco tutti quei criteri che in qualche modo ho già detto. Certo c’è un dibattito aperto, per esempio, sappiamo bene che quello che oggi si produce a livello mondiale basterebbe certamente a soddisfare le esigenze di un’umanità che è cresciuta di molto come popolazione, ormai siamo oltre i 7 miliardi, quasi verso gli 8 miliardi e i beni prodotti sarebbero sufficienti, ma c’è una cattivissima distribuzione di questi beni evidentemente, che fa sì che ci sia questa situazione di sperequazione a cui alludevo.
Quindi, chi anche parla in fondo di modello di sviluppo caratterizzato da una decrescita, o quanto meno da una non crescita, alcuni parlano di decrescita, Latouche per esempio parla di decrescita, altri invece parlano di sviluppo senza crescita, fa riferimento soprattutto a questa situazione che quello che già oggi si produce di per sé è sufficiente, e pur tuttavia andrebbe evidentemente distribuito in modo diverso. E soprattutto mette l’accento sul fatto che ciò su cui occorrerebbe puntare, e qui entro un po’ anche a rispondere alla domanda che mi è stata prima rivolta dal professor Diodato, cioè il rapporto tra felicità e benessere, sostanzialmente, che è il grosso nodo critico. Quello che si produce già ora secondo molti è più che sufficiente e già abbiamo in qualche modo, come dire, superato di gran lunga le possibilità di risorse, di beni che abbiamo a disposizione, per cui bisognerebbe fare arrestare lo sviluppo e la crescita, meglio che lo sviluppo, pensare a uno sviluppo senza crescita (così si dice alcune volte), perché la crescita comporta tutte quelle difficoltà che ho ricordato all’inizio. Cioè comporta un uso di risorse che ormai non esistono più: sappiamo bene che i conti che oggi si fanno per esempio su ciò che sarebbe possibile produrre in un anno se si volessero rispettare le risorse, ci portano a dire che non andiamo al di là della metà dell’anno, insomma, il resto è già tutto surplus ed è tutto in fondo da mettere su quel piatto della bilancia che dicevo prima, che poi è il piatto della bilancia dell’inquinamento, è il piatto della bilancia dell’uso di risorse che vengono sempre meno, perché le risorse disponibili sono poche e quando io le consumo non sono più ricuperabili, se non facendo dei processi che hanno costi economici altissimi, e anche hanno, come dire, esigenze di utilizzo di energia altissime per cui il gioco non vale la candela.
Allora, ecco, comunque è importante tener conto di quelle cose che già dicevo: che cosa si produce, per chi lo si produce, come lo si produce e così via. Nel ripensamento del modello di sviluppo occorre inserire accanto ai beni cosiddetti economici i beni relazionali, per esempio, cioè lo sviluppo deve essere pensato nell’ottica di un’attenzione alla qualità delle vita, nell’ottica di un’attenzione, potremmo dire, non soltanto di tipo quantitativo, ma di tipo qualitativo. Ecco, io credo che questo dipenda molto anche dall’attenzione che si pone, come dire, sul piano culturale; io sono anche convinto che obiettivamente anche gli immigrati che oggi vengono da noi, vengono da noi sognando il benessere che noi abbiamo, sono convintissimo. Però questo, secondo me, dipende anche dal fatto che si è creata tutta una cultura che ha affossato alcuni beni, i beni qualitativi, i beni relazionali, cioè la cultura dominante, quella dei media, per intenderci, che è la cultura di massa poi, di fatto, quella che incide sulla coscienza media della gente, è una cultura che esalta soltanto il benessere economico. Non fa mai leva su altri valori che sono appunto legati a quelli che chiamavo i beni relazionali, che sono evidentemente parte integrante di una autentica crescita umana. D’altra parte gli indici, sono sempre indici da prendere con granu salis ovviamente, gli indici che vengono spesso definiti oggi per indicare il livello di benessere da una parte, magari facendo leva sul PIL, che poi il PIL è un indicatore molto equivoco nel senso che indica il livello di benessere medio, ma ci può essere, come c’è anche in molti paesi anche ad alto benessere, una concentrazione di ricchezza nelle mani di pochi e poi ci sono invece moltissimi che vivono in condizioni di povertà o in condizioni addirittura di miseria. Ma laddove appunto ci sono anche degli indici che tentano di mettere a fuoco, attraverso degli indicatori particolari, specifici, il livello di felicità, che è molto difficile da definire tenendo conto per quel che dico, ci dicono che mediamente i paesi dove c’è maggiore felicità non sono tanto i paesi più ricchi, dove si sta meglio, ma sono i paesi in cui c’è il superamento del livello di miseria, ma nello stesso tempo non c’è il benessere che c’è in Occidente; certi paesi, di certe zone, insomma, anche del terzo mondo, rivelano un livello di felicità maggiore della felicità che invece si manifesta, parlo sempre di indici che vanno discussi, in paesi nei quali il benessere si è molto accentuato, ma non voglio entrare molto in questa…
Ecco, questo è un po’ il discorso comunque del modello di sviluppo, occorre ripensare il modello di sviluppo in un’ottica che tenga conto da una parte della disponibilità limitata delle risorse e dall’altra della esigenza di creare forme di perequazione attraverso la corretta distribuzione dei beni e della ricchezza, e così via. Cioè questo è un primo nodo critico.
L’altro nodo critico è: chi gestisce l’economia? Qui c’è in gioco il problema della democrazia. Oggi si parla molto di democrazia civile; anch’io nel libro ho cercato appunto di mettere l’attenzione su questo concetto di economia civile come strada alternativa rispetto al sistema tradizionale per il quale l’economia era tutta legata al mercato, da una parte, e allo stato dall’altra. Dove lo stato aveva semplicemente una funzione di rimediare, come dire, le negatività del mercato attraverso lo stato sociale che è nato nel dopoguerra, il welfare state, che altro non faceva che rimediare ai limiti del mercato, alle disfunzioni del mercato per il fatto appunto che il mercato così come funzionava, e come funziona tuttora, è un mercato che emarginava una serie di soggetti e allora occorreva garantire a quei soggetti la soddisfazione di certi bisogni e di certi diritti. Questa era l’esigenza per cui è nato.
Dicevo: si parla molto di economia civile alludendo di fatto, avendo come obiettivo la democratizzazione dei processi economici. Per esempio in America tutta la riflessione condotta su questo tema, “chi è il soggetto dell’economia?”, va sotto il nome più di democrazia economica che non di economia civile. Con il termine di democrazia economica si intende soprattutto sottolineare l’esigenza di democratizzazione dell’economia, con il termine di economia civile si intende mettere l’accento soprattutto sul soggetto di questa democratizzazione: chi è che rende possibile questa democratizzazione? La società civile, l’inserimento nel rapporto tra stato e mercato come terza variabile, che però ha una funzione fondamentale, della società civile. Questa è un po’ la differenza. Per esempio, se leggete i libri di Sen lui parla sempre di democrazia economica, parla dell’etica da inserire nell’economia per appunto creare le condizioni per una democratizzazione dell’economia. Invece da noi si parla prevalentemente, perché c’è tutta una tradizione occidentale e addirittura italiana: il concetto di economia civile nasce nel nostro paese e si sviluppa soprattutto, in termini anche più semanticamente precisi, soprattutto nel periodo del grande illuminismo napoletano e milanese e ha come grande artefice soprattutto Antonio Genovesi. L’opera del Genovesi è stata recentemente riproposta proprio da Vita e Pensiero, dalla cattolica Vita e Pensiero, un’opera monumentale ed era intitolata proprio: Lezioni di economia civile. Perché appunto già allora si pensava che non bastasse il mercato e lo stato, ma che occorresse coinvolgere la società civile in qualche misura.
Del resto se è vero quello che dicevo prima a proposito della dipendenza della politica dall’economia, capite che la democrazia già oggi, ma soprattutto in futuro, o sarà democrazia economica e democrazia dell’informazione, o non sarà democrazia. O già oggi non è democrazia, non nel senso che ci verrà tolta la possibilità di andare a votare, ci verrà lasciata questa, ma nel senso che il condizionamento economico e dei media evidentemente inciderà sulla scelte profondamente, sulle coscienze profondamente.
Chiudo la parentesi. Il concetto di economia civile nasce proprio in questa prospettiva e qui appunto allora si riallacciano alcuni elementi che già venivano ricordati nella riflessione del professor Diodato e cioè i presupposti sui quali si basa questa esigenza di inserire all’interno nello stato e nel mercato come terza variabile, che in qualche modo condiziona tanto il mercato quanto lo stato, non negando a essi le funzioni che pure hanno e che devono continuare ad avere, ma, come dire, mettendo sia il mercato che lo stato in condizione di essere attento all’insieme delle realtà che compongono la società nel suo complesso, nella sua globalità.
Allora qui c’è tutto un discorso di rifondazione dell’economia. L’economia è nata su basi individualistiche, è nata sulla base del principio che fa economia colui che ha un interesse individuale, e quindi la ricerca del profitto come profitto personale, come profitto aziendale ma come profitto privato potremmo dire non come profitto sociale, come dicevo prima, è nata su basi rigidamente individualistiche: è l’individualismo, come dire, dell’illuminismo, l’individualismo che è una caratteristica soprattutto dell’Occidente moderno che ha scoperto l’individuo, e che è stata anche una scoperta altamente positiva, non si deve adesso, come dire, mettere tutto in negativo quello che è avvenuto anche in passato, ma che poi spinto all’eccesso ha prodotto appunto una sorta di disgregazione del tessuto sociale o comunque una visione della vita sociale in cui ciascuno in qualche modo è guidato dalla logica del proprio interesse individuale, produco perché ho interesse a moltiplicare il profitto, e così via.
Ecco, qui c’è tutto un discorso di rifondazione, anche filosofica, dell’economia non tanto sull’individuo, quanto sulla persona; l’individuo è un soggetto chiuso entro se stesso, è una monade senza porte e senza finestre, la persona invece, come prima già ricordato dal professor Diodato, è certamente anzitutto un individuo, cioè un essere unico e irripetibile, ma è nello stesso tempo strutturalmente, essenzialmente, costitutivamente un essere relazionale. Allora, se fondiamo l’economia su questa visione relazionale andiamo nella direzione di un’accettazione della visione della società e questo porta con sé anche tutta una serie di altri valori che sono alla base poi del discorso dell’economia civile, che sono per esempio il corretto rapporto tra sussidiarietà e solidarietà per cui la solidarietà diventa il fine, l’obiettivo, e la sussidiarietà però è la modalità concreta con cui questo fine viene attinto, che vuol dire il passaggio attraverso i soggetti della società che partecipano attivamente, che non sono spettatori passivi, ma che intervengono attivamente, responsabilmente nella gestione del sistema.
Io mi fermerei qui perché ci sarebbero da dire molte altre cose ma mi pare di avere indicato queste due prospettive: la prima, il ripensamento del modello di sviluppo; la seconda, il soggetto nuovo dell’economia che dovrebbe essere sempre più la società. E qui c’è tutto un discorso che allora fa riferimento a una serie anche di esperienze già in atto, già ricordate per altro, che vanno dal volontariato, dal terzo settore in generale, dall’impegno di questi settori a formulare anche ipotesi che vanno oltre le nicchie ristrette dentro cui operano, per far vedere che si può funzionare economicamente anche in una dimensione diversa da quella tradizionale del mercato, inteso come mercato, come dire, senza regole, fino alla responsabilità sociale d’azienda, fino a una serie di altre esperienze che legano l’economia anche alle potenzialità del territorio, non soltanto alle potenzialità materiali, ma anche a quelle culturali e spirituali del territorio, fino ad altre esperienze che in qualche modo indicano una strada possibile di fuoriuscita da un sistema che è arrivato al capolinea, un sistema che rivela ormai tutte le sue controindicazioni e che esige quindi di essere superato attraverso strade nuove, che non vedo molto emergere a livello soprattutto di proposte politiche, ma che invece dovrebbero essere imboccate se si vuole appunto restituire all’economia non soltanto eticità, ma farla diventare un’economia funzionale alla soddisfazione e al servizio dei veri bisogni umani.
Grazie.