Questo libro fa parte di un rapporto annuale che Deaglio stende sull’economia globale in Italia. Il testo si riferisce al rapporto del 1999-2000, cioè un anno di svolta. E’ un testo particolarmente importante per lo sforzo che Deaglio fa di descrivere il capitalismo che c’è e non quello che si sogna.
Parliamo tutti di globalizzazione, però la globalizzazione rischia di essere uno slogan, Deaglio dimostra che essa è un progetto sì, ma informe. I contestatori della globalizzazione, invece, vedono i punti di crisi del progetto ma non si misurano con la solidità degli interessi e delle forze in campo.
La tesi di Deaglio è che siamo dinnanzi ad un capitalismo bello e pericoloso. Bello nel senso che noi siamo all’interno di mutamenti strutturali immensi; pericoloso, proprio perché per larga parte la globalizzazione è più un progetto che una realtà. Il progetto della globalizzazione è largamente aleatorio, largamente affidato a forze imperscrutabili e in realtà è imprecisata la direzione del mutamento.
Il rapporto inizia con una panoramica sull’economia mondiale a partire dalla crisi asiatica. Che cosa è stata la crisi asiatica? La crisi asiatica è stata una crisi di liquidità di breve periodo: questi stati non potevano far fronte ai loro impegni nel periodo corto.
Deaglio fa vedere che questa crisi poteva avere una portata maggiore; essa per le entità economiche coinvolte è stata superiore a quella del 1929 e poteva avere riflessi devastanti su tutta l’economia mondiale. A questa crisi non si risponde con nessun piano di azione coordinata, si risponde semplicemente scaricando sui paesi in questione la crisi stessa. Questo ad opera del Fondo Monetario Internazionale. L’ FMI garantisce la stabilità dei flussi di pagamento tra le borse degli stati, perché valuta che una compromissione dei flussi di pagamento potrebbe avere esiti disastrosi sul piano economico mondiale. I paesi del sud-est asiatico devono pagare la loro crisi tramite l’andamento delle esportazioni: dilatazione delle esportazioni, restrizione dei consumi interni, e cioè restrizione degli investimenti e dei consumi delle famiglie. Molti strati della popolazione già a reddito precario sono stati gettati nella povertà e il costo della crisi è stato così scaricato interamente sulle economie asiatiche.
Ovviamente questo ha voluto dire passaggio di potere. Queste economie hanno dimostrato una certa solidità: nonostante questi costi, anche sociali, si sono riprese abbastanza rapidamente. Quindi, diciamo, in questi termini la politica del FMI ha pagato.
La crisi si è manifestata ed è passata poi in Brasile ed Argentina 6-7-8 mesi dopo ed elementi di staticità di quelle economie hanno ritardato la ripresa. L’America Latina ha avuto praticamente due grandi ammortizzatori della crisi: uno è stato il petrolio. La politica di cartello degli stati petroliferi ha garantito agli stessi stati latino-americani l’assorbimento della crisi; per gli altri, compreso il Cile, c’è stata l’uguale amara vicenda del sud-est asiatico e cioè il pagamento sociale della crisi.
La crisi si è potuta assorbire rapidamente perché c’erano delle economie trainanti che hanno assorbito la crisi: l’Europa e gli USA. L’Europa in termini più problematici degli Usa perché ancora largamente più indietro sull’economia dei servizi; gli Usa assolutamente trainanti perché completamente immersi in un’economia di servizi in cui le merci in arrivo dai paesi del terzo mondo erano largamente superate e non competitive nei confronti della produzione americana.
Ma non è stato solo questo il traino dell’America. L’area del dollaro attrae capitali, per cui il 55% del debito pubblico americano era finanziato da capitali esteri. E con questo si è pagata la crisi.
Che cosa insegna questa crisi? Insegna che c’è una certa solidità del mercato capitalistico che ha mostrato meccanismi compensativi e autoregolativi abbastanza imponenti, però nello stesso tempo abbastanza aleatori e casuali, perché non c’è alcun centro direzionale in grado di gestire in modo più articolato questa crisi di mercato (ad es. i costi sociali sono stati pagati da Pantalone, come al solito).
Deaglio fa una disanima molto interessante del perché gli Usa sono stati il polo trainante. L’economia USA ha dimostrato una solidità strutturale molto intensa, però particolare. Particolare in che senso? Nel senso che uno dei fattori fondamentali della tenuta americana è che questi movimenti di consumi privati e questi movimenti finanziari che hanno finanziato il superamento della crisi non hanno generato inflazione. Ora, perché non hanno generato inflazione? Qui il problema è legato al rapporto tra old economy e new economy, e cioè al rapporto tra la struttura produttiva che anche in America è largamente old economy e new economy. Se è vero che la new economy ha generato milioni di posti di lavoro, e posti di lavoro ad alto potere contrattuale, cioè ben pagati, è altrettanto vero che la struttura dell’economia, l’old economy, che è intrecciata con la new economy,non ha generato inflazione per la presenza di un mercato del lavoro largamente saturo, a bassi livelli salariali, per la concorrenza al ribasso che le fasce basse della forza lavoro.
New economy ed old economy o si colgono nel loro intreccio, intreccio ancora largamente problematico, oppure non si colgono affatto. Ovviamente i teorizzatori liberali americani dicono che tutto va bene, cioè che questa persistente povertà di larghe sacche della forza lavoro è un elemento della mobilità sociale. Il fatto di incentivare le persone all’aggiornamento, alla riqualificazione professionale e alla possibilità di passare a posti a rimunerazione più elevata, è un elemento costitutivo della mobilità sociale. Questa è la teorizzazione dei pensatori liberali. Lascio a voi decidere se questa è l’impostazione corretta; comunque questo è ciò che il mercato passa.
Da questa crisi asiatica che conseguenze si tirano. In realtà al minimo. Secondo Deaglio, si può non disporre di regole ed istituzioni internazionali di regolazione del mercato. Da questo punto di vista Deaglio fa un’analisi di quelle già esistenti, o in fieri: il FMI, la Banca Mondiale, il WTO (gli accordi commerciali), la Borsa, quel settore in fieri della new economy che è la questione della regolamentazione delle reti. Queste sono le cinque grandi istituzioni di regolazione del mercato che individua Deaglio. E di queste traccia un profilo schematico, ma importante.
FMI . Dopo il fallimento del sostegno all’Unione Sovietica, e il fallimento dei piani di sviluppo a lungo periodo, sta nettamente prevalendo la tesi dell’impostazione liberistica:
prestiti a breve termine per far fronte alle emergenze di crisi,
monitoraggio del mercato, in modo che i mercati sappiano sempre con precisione i flussi da cui saranno investiti o che creano coi loro movimenti di merci e di capitali,
disimpegno dai grandi progetti di finanziamento lasciati invece all’associazione sorella della Banca Monetaria.
Cioè il FMI che storicamente era l’istituzione dei grandi progetti internazionali, adesso tira i remi in barca, dice che non è più controllabile la situazione, che bisogna lasciare fare ai mercati, semmai garantisce la liquidità per far fronte alle crisi di beni e garantisce una solida ed efficiente osservazione dei mercati in modo che in tempo reale gli operatori economici sappiano con che cosa hanno a che fare.
Per tutto il resto c’è la Banca Mondiale. Essa ha sperimentato, nelle vicende dell’Indonesia, che i così detti accordi di finanziamento ex ante (cioè io ti do il finanziamento se tu rispetti certe condizioni di riforma del tuo paese) non hanno funzionato. La ricetta dell’intervento esterno di dirigismo e tutela è stata largamente compromessa dal comportamento degli attori locali. Molti fondi sono finiti nella corruzione, molti fondi non hanno finanziato riforme, molti fondi non sono serviti a far decollare l’economia. Allora da questa filosofia del finanziamento ex ante si fanno i primi passi in quello che viene chiamato il finanziamento ex post. Che cosa vuol dire? Intanto non impegni in grossi investimenti infrastrutturali locali che possano dare adito a corruzioni e privilegiamento del finanziamento in istruzione e crescita culturale del paese. Non finanziamenti con ricetta preventiva sul modo di riformare il paese, ma coinvolgimento degli attori locali in una costruzione progettuale in cui la Banca Mondiale entra come primus inter pares ex post, cioè dopo la progettazione locale dell’intervento.
La Borsa ha dimostrato capacità autocorrettive molto più elastiche e pertinenti che per il passato e ha dimostrato di non essere miope dal punto di vista delle grandi operazioni infrastrutturali. E’ stata la Borsa che ha finanziato largamente lo sviluppo di Internet e lo sviluppo della new economy: però ha dimostrato anche una larga volatilità degli investimenti. Il problema è se la Borsa sosterrà il finanziamento dello sviluppo economico e se ciò non dipenda da quale sarà l’esito di questa fase rialzista che sta andando avanti da dieci anni.
Deaglio dice: ci sono valutazioni ottimistiche e pessimistiche; noi cerchiamo di essere realisti e cioè ci sono elementi sia di ottimismo che di pessimismo e non sappiamo bene quali prevarranno.
Quali sono gli elementi di ottimismo? Sono quelli probabilmente collegati ad una visione storica degli andamenti delle crisi di Borsa. Il 1929 in Europa e negli Stati Uniti è stato devastante; dopo una fase rialzista legata al boom dell’auto e a quel salto del modo di produzione che è stato il fordismo, si è avuta una fase di ribasso inaspettata, a cui le Banche centrali erano largamente disattrezzate, da qui i fenomeni di panico e di ribassi incontrollabili. La crisi ribassista del 1992, che ha avuto come epicentro il Giappone, ha dimostrato che le Banche centrali hanno ormai certamente acquisito sufficiente esperienza, ad esempio nella manovra dei tassi, e la fase ribassista è stata molto più breve, molto più contenuta. Mentre nel 1929 il valore delle azioni è andato sotto zero, l’indice Dawn Jones nella fase del Giappone dai 1000 punti che aveva toccato è sceso a 200 ma non è andato sotto i 200. Quindi una visione macroeconomia e storica della cosa dice che possiamo essere cautamente ottimisti sulla gestione delle inevitabili crisi di ribasso che si potranno produrre nei prossimi anni. Ad esempio, qualora i profitti legati ad Internet e alla new economy non siano compensatori degli investimenti, così come pare in questa fase.
Però ci sono anche elementi di destabilizzazione da considerare. Uno è legato al fatto che c’è stata una gran mobilità in questi anni nel costituirsi di nuovi oligopoli e di nuovi centri produttivi mondiali. E’ un affare che secondo Deaglio sta facendo già emergere un nucleo duro del nuovo comando aziendale.
Questo è un elemento di potenziale distorsione del funzionamento borsistico. Gli altri elementi sono microeconomici, cioè sono fattori di instabilità interni alla Borsa. Grossa parte di questi oligopoli e di queste grandi potenze economiche-finanziarie si sono costituite ed hanno potuto essere rette anche per la grande possibilità nella fase espansiva di grossi guadagni finanziari, cioè non legati all’economia reale, ma legati ad operazioni di speculazione borsistica. Ora, in fase recessiva, questi grossi guadagni, che hanno largamente finanziato lo sviluppo, diventano più problematici.
Secondo elemento di perturbazione è che il pagamento, soprattutto nella new economy e soprattutto nei quadri dirigenziali dell’economia mondiale, sta passando sempre più in pagamento non di salario diretto, ma in pagamento in azioni, pagamento finanziario. Questo proprio perché l’aumento del capitale, dei patrimoni in fase espansiva, dei patrimoni reali, soprattutto americani, era garantito. Ovviamente in fase di recessione anche questa garanzia del patrimonio non è più così certa.
Ultimo fatto di instabilità. La Borsa era governata fino a poco tempo fa da grandi investitori istituzionali. La new economy ha cambiato la faccia di questa realtà, nel senso che gli operatori fai da te, gli operatori on line, sono diventati milioni di milioni e l’accesso a capitali anche medio piccoli, ad operazioni borsistiche anche abbastanza complicate, è diventato un fatto di tutti i giorni. Ora il controllo di questa massa di operatori finanziari è impossibile. E noi non sappiamo come potrebbe reagire in fase di recessione.
Deaglio dice che uno singolo di questi fattori da solo non può produrre la crisi della Borsa. Però in concomitanza di crisi politiche o di accavallamento di più fattori non sappiamo cosa può succedere, per cui l’ottimismo esasperato va temperato con la possibilità di prevedere anche crisi acute.
Ultima istituzione presa in esame da Deaglio è il cybermercato. Siamo di fronte ad una mutazione epocale, sta cambiando il modo di produzione, sta cambiando l’importanza dei processi di commercializzazione e scambio rispetto a quelli di produzione. Questa assoluta novità sta determinando mutamenti strutturali di portata epocale. Però sta avvenendo nel Far West: il cybermercato non è regolato da nulla. Allora quali sono gli elementi di perturbazione che il cybermercato porta sul piano delle regole e sul piano delle istituzioni?
Intanto problemi giuridici. Per esempio: quale è il luogo delle transazioni in Internet? Provate a pensare ai problemi di proprietà degli Autori di software, ecc,). C’è uno scontro in atto tra i sostenitori della libertà di rete ed i sostenitori dell’esigenza del controllo. Provate a pensare a che immani problemi giuridici, di coordinamento e di riforma della legislazione internazionale e delle sue istituzioni prevede il generalizzarsi di Internet. Questo settore del mercato, parte trainante del mercato, è quello che è destinato a cambiare stili di vita e modi di produzione ed è ancora fondamentalmente nel Far West. Per cui si va ma non si sa dove si sta andando.
A questo punto Deaglio introduce un elemento strutturale per valutare dove sta andando l’economia, e cioè la valutazione di dove sta il potere reale della creazione del mercato, quali sono le imprese che possono fare mercato; dove sono, che strategie hanno, e che geopolitica configurano, Per far questo egli valuta non tanto i fatturati, ma la capacità di capitalizzazione delle imprese. Deaglio prende in esame quelle al di sopra di 6-7 mila miliardi di valore di capitalizzazione, cioè le prime mille imprese mondiali che rappresentano il 70% della capitalizzazione complessiva. Le prime 1000 aziende mondiali rappresentano quindi il 70% della capitalizzazione complessiva.
Già questo vi fa capire che potere di mercato hanno. Da una prima constatazione si valuta l’eccezionale performance statunitense: il 50% delle prime 1000 aziende di capitalizzazione sono americane. Viene fuori il declino del Giappone, che nel 1995 aveva il 21,4% delle aziende e adesso è ridotto al 9,3%; Singapore ed Honkong scendono, ma con una forte presenza di aziende strategiche e quindi con nicchie di mercato forti; l’Europa è statica ad un 10% del valore di queste prime 1000 aziende. Chi emerge è solo l’America e il mondo anglosassone. Ha una forte posizione la Svizzera, poi una certa posizione l’Olanda e la Francia. Però sono tutte posizioni secondarie nel senso che c’è un’assoluta prevalenza del mondo anglosassone; il 70% delle prime 1000 aziende della capitalizzazione è anglosassone (America e Gran Bretagna) e l’America da sola è il 50%.
La cosa caratteristica per capire il potere di queste aziende è che non c’è proporzione tra forza di mercato e mercato di merci realmente sviluppato; gli USA che hanno il 55,5% di quote di capitalizzazione, hanno solo il 31% del prodotto mondiale lordo. Questo dato fa capire l’importanza egemonica che il fare azienda innovativa ha nell’acquisizione di una posizione dominante a livello mondiale. Nel senso che è molto più importante fare azienda innovativa che la quota di mercato stessa accaparrata sul piano commerciale.
I paesi emergenti dell’Europa sono Svizzera, Paesi Bassi e, per alcuni aspetti, la Francia. Come ha reagito l’Europa? Prima però vi do un’informazione per settore. Il settore finanziario in queste prime mille aziende, pesa per il 21%, quindi ha una grossa fetta; quello chimico, alimentare e petrolifero sono al 5-6% l’uno, quindi sono marginali; il settore gas-acqua, che pur sta emergendo date le privatizzazioni, ha il 3-4% di questa posizione dominante. Tutto il resto è new economy (Microsoft, Aerospazio, Ecomerx, ecc).
Come sta reagendo l’Europa, tenendo conto anche che l’Europa in caso di recessione americana è l’unico altro grande mercato che è serbatoio di sviluppo per il resto dell’economia. Deaglio dice che la debolezza fondamentale dell’Europa è che è ancora un’istituzione finanziaria ma non ancora un’istituzione politica.
Fondamentalmente in Europa si stanno cominciando a muovere alcune cose: industria aerospaziale, grosse aziende, telefonia. Però, la politica della Banca Europea è fondamentalmente basata sulla stabilità del prezzo invece che sulla manovra dell’Euro. L’Euro si svaluta. E’ l’opposto della politica che sta facendo il Giappone: riduzione delle esportazioni ma attraendo capitali esteri e tenendo forte la moneta (lo yen) per finanziare così il bilancio statale, largamente in perdita, e compensare con la forza della moneta il fatto di non dover far pagare cedole miliardarie per finanziare il debito pubblico.
Noi stiamo facendo la politica opposta; l’euro va giù perché il dollaro è forte non perché l’euro sia debole. Noi facciamo la politica di stabilità dei prezzi perché il governo dell’inflazione è la reale variabile su cui si gioca lo sviluppo in Europa. Questa è la decisione della Banca Centrale Europea.
Sul piano strutturale si stanno movendo:
decisione di fare l’esercito europeo,
mettere a tema le istituzioni fondamentali,
prime grosse concentrazioni industriali europee.
In questo quadro, le new economy standard sta reggendo lo sviluppo: sta modificando stili di vita e sta modificando modi di produzione, però nessuno sa dove sta andando. Quale sia il destino della new economy è un gioco completamente aperto al mercato di concezioni e visioni manageriali, soprattutto americane largamente in competizione, con nessuna regolazione esterna.
Come arriva l’Italia in questo bailamme? Intanto la politica nazionale ha molto ridotto il suo spazio perché può intervenire sul piano della politica economica solo attraverso i bilanci: sulla moneta non può intervenire più perché adesso c’è l’Euro. Quindi una forte limitazione del ruolo della politica nei confronti dell’economia, e con alcuni problemi strutturali in più. Quali sono questi problemi strutturali dal punto di vista dello sviluppo economico individuati da Deaglio?
Il primo è l’invecchiamento della popolazione: noi dal punto di vista dell’invecchiamento della popolazione, con il problema delle pensioni che vi è connesso, siamo la prestazione largamente peggiore di tutto il mondo sviluppato, con un effetto perverso: la spesa sociale va quasi del tutto in pensioni e quindi non può finanziare, ad esempio, i servizi sociali per la creazione di nuove famiglie, di nuove coppie, il sostegno della disoccupazione giovanile, per avviare nuove politiche del mercato del lavoro, ecc. Quindi non solo la popolazione invecchia di più, ma, se non si romperà il circolo vizioso, invecchierà sempre di più perché sarà sempre più costoso fare figli.
Secondo problema è l’istruzione: noi abbiamo una performance, nei confronti degli altri, dei sistemi educativi con un numero di laureati e diplomati molto minore; abbiamo un adeguamento ai corsi professionali molto più carente. Essere ricchi ed ignoranti sarà sempre più difficile. Da noi i professori sono meno pagati che negli altri paesi, ma lavorano molto meno e sono decisamente in eccesso rispetto alla popolazione giovanile che servono. E non entriamo nel merito di che cosa si insegna e di come si insegna! Per cui uno dei grossi nodi strutturali dell’economia italiana è l’istruzione.
Terzo problema è la disoccupazione. E’ vero che tutti i nuovi posti di lavoro sono o flessibili o atipici, però non è vero che nel Sud ci sia tanta vera disoccupazione, perché se noi abbiniamo all’economia regolare l’economia illegale vediamo che molti giovani del Sud lavorano in posti dequalificati e senza prospettive. Il mercato del lavoro italiano tende verso il ribasso della qualificazione, invece che al suo rialzo. Per Deaglio il vero problema è creare posti di lavoro innovativi e noi siamo molto indietro. Anche da questo punto di vista abbiamo un impianto industriale che non ha saputo rinnovarsi e che è ancora largamente arretrato su tutta la partita internet, new economy, ecc. Questo è il reale problema dell’Italia: la sua arretratezza di innovazione.
Poi esiste il problema della criminalità, su cui non mi dilungo.
Questi i quattro problemi strutturali dell’economia italiana.
Come hanno reagito gli imprenditori? Pare che una fase del capitalismo sia decisamente da buttare. Deaglio cita i casi della scalata di Colannino, di Olivetti a Telecom; lo stesso caso Fiat con la General Motors e il caso Generali Assicurazioni che incorpora INA; tutti casi non fatti da uomini di Mediobanca, ma con la consulenza di Mediobanca. Probabilmente è finita l’epoca delle partecipazioni incrociate, l’epoca delle grandi famiglie nazionali che non si confrontano col mercato e preferiscono prestazioni di mercato, anche più deludenti, ma rendite di posizioni anche politiche nettamente più forti e meno credibili. Oggi il confronto col mercato, e con un’ottica sempre più internazionale del mercato, pare che diventi inevitabile anche in Italia. I casi citati riguardano manager che rispondono ad interessi aziendali invece che manager che tutelano rendite di posizione. Da questo punto di vista vi cito l’ultimo dato. I distretti industriali stanno mostrando un po’ la corda e invece c’è una certa vitalità delle piccole e medie industrie nell’associarsi e nell’internazionalizzarsi.
Questa pare la strada obbligata nel senso che sta nascendo una nuova managerialità che ha come orizzonte di riferimento più il mercato internazionale che il mercato interno. Questo è l’unico segno di vitalità e di rinnovamento, insieme all’altra grande operazione di cui si è detto riguardo a Telecom, che sta avvenendo nella struttura imprenditoriale italiana.