Francesco e le ACLI

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Giovanni Bianchi

L’udienza di Papa Francesco a dirigenti e soci delle ACLI svoltasi il 23 maggio scorso rappresenta un tassello ulteriore dell’evidente strategia di inserimento del Pontefice nella tradizione cristiano sociale del nostro Paese, sia pure con le sue sottolineature particolari.

Infatti, prendendo spunto dalla centralità del lavoro che le ACLI hanno sempre professato, il Papa ha evidenziato come ancora oggi sia il lavoro stesso ad essere la traccia, il filo conduttore di una possibile riforma sociale.

“Il lavoro libero. La vera libertà del lavoro significa che l’uomo, proseguendo l’opera del Creatore, fa sì che il mondo ritrovi il suo fine: essere opera di Dio che, nel lavoro compiuto, incarna e prolunga l’immagine della sua presenza nella creazione e nella storia dell’uomo.

Troppo spesso, invece, il lavoro è succube di oppressioni a diversi livelli: dell’uomo sull’altro uomo; di nuove organizzazioni schiavistiche che opprimono i più poveri; in particolare, molti bambini e molte donne subiscono un’economia che obbliga a un lavoro indegno che contraddice la creazione nella sua bellezza e nella sua armonia. Dobbiamo far sì che il lavoro non sia strumento di alienazione, ma di speranza e di vita nuova. Cioè, che il lavoro sia libero.

Secondo: il lavoro creativo. Ogni uomo porta in sé una originale e unica capacità di trarre da sé e dalle persone che lavorano con lui il bene che Dio gli ha posto nel cuore. Ogni uomo e donna è “poeta”, capace di fare creatività. Poeta vuol dire questo. Ma questo può avvenire quando si permette all’uomo di esprimere in libertà e creatività alcune forme di impresa, di lavoro collaborativo svolto in comunità che consentano a lui e ad altre persone un pieno sviluppo economico e sociale. Non possiamo tarpare le ali a quanti, in particolare giovani, hanno tanto da dare con la loro intelligenza e capacità; essi vanno liberati dai pesi che li opprimono e impediscono loro di entrare a pieno diritto e quanto prima nel mondo del lavoro.

Terzo: il lavoro partecipativo. Per poter incidere nella realtà, l’uomo è chiamato ad esprimere il lavoro secondo la logica che più gli è propria, quella relazionale. La logica relazionale, cioè vedere sempre nel fine del lavoro il volto dell’altro e la collaborazione responsabile con altre persone. Lì dove, a causa di una visione economicistica, come quella che ho detto prima, si pensa all’uomo in chiave egoistica e agli altri come mezzi e non come fini, il lavoro perde il suo senso primario di continuazione dell’opera di Dio, e per questo è opera di un idolo; l’opera di Dio, invece, è destinata a tutta l’umanità, perché tutti possano beneficiarne.

E quarto, il lavoro solidale. Ogni giorno voi incontrate persone che hanno perso il lavoro – questo fa piangere –, o in cerca di occupazione. E prendono quello che capita. Alcuni mesi fa, una signora mi diceva che aveva preso un lavoro, 10/11 ore, in nero, a 600 euro al mese. E quando ha detto: “Ma, niente di più?” – “Ah, se non le piace se ne vada! Guardi la coda che c’è dietro di lei”. Quante persone in cerca di occupazione, persone che vogliono portare a casa il pane: non solo mangiare, ma portare da mangiare, questa è la dignità. Il pane per la loro famiglia. A queste persone bisogna dare una risposta. In primo luogo, è doveroso offrire la propria vicinanza, la propria solidarietà. I tanti “circoli” delle ACLI, che oggi sono da voi rappresentati qui, possono essere luoghi di accoglienza e di incontro. Ma poi bisogna anche dare strumenti ed opportunità adeguate. E’ necessario l’impegno della vostra Associazione e dei vostri Servizi per contribuire ad offrire queste opportunità di lavoro e di nuovi percorsi di impiego e di professionalità.”

Ognuna di queste parole è particolarmente pregnante, e dà ragione di alcune scelte fondamentali che sono tipiche di questo Pontificato.

La povertà e l’esclusione sociale diventano sono per Francesco la chiave interpretativa della storia, conducendo così ad un capovolgimento dell’ottica abituale, ed assume quindi significato la scelta del Papa, come prima dell’Arcivescovo di Buenos Aires, di vivere poveramente e di amare quei sacerdoti che mescolano la loro vita con quella del popolo, i famosi “pastori che hanno l’odore delle pecore”, secondo una felice immagine coniata dallo stesso Francesco.

Eccoci dunque all’“hic Rhodus hic salta”, che non solo conduce ad una denuncia della strutturale ingiustizia del sistema politico e sociale che domina il nostro pianeta, richiamando l’assai poco approfondita categoria delle strutture di peccato, che Giovanni Paolo II aveva coniato oltre venticinque anni fa nell’Enciclica Sollicitudo rei socialis, e che è stata ripresa dal nuovo Catechismo universale senza, peraltro, che vi fosse un tentativo sistematico di definire quali fossero queste strutture e come operare per superarle.

Ma un richiamo indiretto viene anche per quei molti progressisti da salotto del Primo Mondo che la miseria dei “dannati della Terra”, per usare la sempre efficace espressione di Frantz Fanon, la conoscono solo per sentito dire, e che spesso barattano la loro impotenza ad immaginare una struttura sociale più giusta con una serie di battaglie sui “diritti”che dimenticano come il primo diritto sia quello a viveredignitosamente. In qualche misura assomigliano anch’essi a quei teorizzatori del “giusto mezzo” che non hanno la grandezza filosofica degli ideologues francesi del XIX secolo, ma ricordano piuttosto certi critici della virtù ascetica del cardinale Federigo Borromeo che “predicano sempre che la perfezione sta nel mezzo; e il mezzo lo fissan giusto in quel punto dov’essi sono arrivati, e ci stanno comodi”.

Tanto più che Bergoglio non è affatto un ingenuo o un sognatore. In quello che è forse il suo testo “politico” più organico, sviluppatosi da un discorso pronunciato nel 2010 per il bicentenario dell’indipendenza argentina, egli ricorda che “bisogna farsi carico del conflitto, bisogna viverlo, ma ci sono diversi modi di assumerlo. Uno è quello adottato dal sacerdote e dal levita di fronte al pover’uomo sulla via da Gerico a Gerusalemme. Vedere il conflitto e voltarsi dall’altra parte, dimenticarlo. Chi evita il conflitto non può essere cittadino, perché non lo assume, non se ne fa carico. È un abitante che di fronte ai conflitti quotidiani se ne lava le mani. Il secondo modo è prender parte al conflitto e restarne imprigionato. […] Il terzo modo è immergersi nel conflitto, compatire il conflitto, risolverlo e trasformarlo nell’anello di una catena, in uno sviluppo”.

È significativo questo passaggio perché segna un diverso approccio alla questione del conflitto – in primis, ovviamente, quello sociale – che la dottrina sociale della Chiesa ai suoi esordi semplicemente negava riducendolo a cattiva disposizione d’animo fra ricchi e poveri, e che i successivi sviluppi hanno riconosciuto mettendolo tuttavia fra parentesi, soprattutto alla luce della tormentata relazione con il marxismo che sul conflitto sociale costruiva la sua architettura. Il Papa non nega il conflitto, anzi dice che chi lo fugge è un cattivo cittadino e forse primariamente un illuso, ma invita a guardare in fondo al conflitto e cercare di costruire a partire da esso, anche tramite un duro scontro, una sintesi superiore che non escluderà ulteriori conflitti ma permetterà alla dialettica sociale di progredire.

Più avanti Bergoglio propone la sua peculiare visione del rapporto fra cittadini, società civile e Stato, affermando che : “Le persone sono soggetti storici, cioè cittadini che formano un popolo. Lo Stato e la società devono creare le condizioni sociali atte a promuovere e tutelare i loro diritti e a consentire loro di essere costruttori del proprio destino. Non possiamo ammettere che si consolidi una società duale. […] Questo debito sociale esige la realizzazione della giustizia sociale. (…) Dobbiamo recuperare la missione fondamentale dello Stato, che è quella di assicurare la giustizia e un ordine sociale giusto al fine di garantire ad ognuno la sua parte di beni comuni, rispettando il principio di sussidiarietà e quello di solidarietà (…). C’è consenso nell’accordare allo Stato una presenza più effettiva nella questione sociale. Lo Stato e la società devono lavorare insieme per rendere possibili questi cambiamenti e modificare alla radice l’affronto dei problemi di disuguaglianza e distribuzione”.

Ben a ragione, nella sua introduzione all’edizione italiana del testo, mons. Mario Toso, noto studioso salesiano della Dottrina sociale della Chiesa ed ora Vescovo di Faenza, può annotare come nel pensiero del nuovo pontefice “la vera democrazia mira a sradicare la povertà e a perseguire lo sviluppo integrale per tutti”.

Se ne può concludere che la questione democrazia per Bergoglio è essenzialmente una questione di sostanza e non di procedura: una democrazia formale che si limiti all’enunciazione di taluni principi senza dare loro sostanza, consolidando la supremazia del forte sul debole, non serve a nulla, è finzione e inganno e prepara da sé la propria rovina.

Se le ACLI sapranno incontrare il Papa su questa strada, probabilmente inizierà una nuova, ricca stagione della loro storia.

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