“Custodia del tempo”, ha voluto intitolare il suo testo il prof. Casavola, e come sempre dietro un titolo vi è un pensiero. Non si tratta di una semplice memoria, di una testimonianza resa ai posteri perché giudichino, ma implica un più forte senso di responsabilità. Se l’ empietà di Caino è svelata dal suo rifiutarsi di essere custode di suo fratello, allora la custodia è qualcosa di più ampio e di più profondo, è il segno di un’ attenzione, è il ritenere che il tempo non sia semplicemente il fluire insensato di uomini e cose, una farsa “piena di strepito e di furore” come nel lucido delirio di Macbeth, ma da esso è possibile ricavare un senso, una chiave di lettura, in qualche modo un finalismo.
1. leggi il testo dell’introduzione di Lorenzo Gaiani
2. leggi la trascrizione della relazione di Francesco Casavola
Testo dell’introduzione di Lorenzo Gaiani a Francesco Casavola
Le pieghe delle storia e del diritto.
1. Vorrei cominciare questa riflessione in modo forse irrituale e in apparenza non pertinente: questa raccolta di articoli pubblicati su diversi quotidiani fra il 1974 e il 2001 dal prof. Francesco Paolo Casavola sarebbe incomprensibile e forse impossibile al di fuori del contesto particolare in cui l’ autore si è formato e nel quale ha prevalentemente operato, quello di Napoli, della sua università, delle sue scuole e della sua gente. Lo stesso fatto che fra i quotidiani su cui il prof. Casavola si è esercitato con l’ acume e la sapienza giuridica e storica che gli sono propri prevalga di gran lunga come tribuna preferita il “Mattino”, il giornale di Matilde Serao, Edoardo Scarfoglio e Giovanni Ansaldo, testimonia già nel senso.
Ma vi è di più, nel senso che dalle pur brevi – non più lunghe dello spazio di un editoriale o di un elzeviro- note raccolte in questo volume traspare un insieme altrove irripetibile di solida cultura giuridica che rimanda a Giovanni Porzio ed Enrico De Nicola, alla mai obliata lezione dello storicismo crociano e di Chabod , a quella degli illuministi che vissero e morirono nell’ utopia della Repubblica partenopea, dal padre del diritto costituzionale moderno Mario Pagano all’ acuto e sarcastico Vincenzo Cuoco, dall’ abate Conforti all’ ardimentosa Lenòr Fonseca (e prima ancora di Vico e di Giannone, di Filangieri, degli abati Galiani e Genovesi…), per ridiscendere ad Alfredo De Marsico, agli amici e maestri come Francesco De Martino ed Ettore Gallo con sullo sfondo gli spiriti poliedrici di Renato Caccioppoli, il grande matematico, e di Gerardo Marotta, il giurista che ha fondato l’ Istituto di Studi filosofici nell’ immensa biblioteca del palazzo Serra di Cassano, mentre su tutti riflette pensosa la maschera di Eduardo… Una Napoli diversa da quella dei Pulcinella e delle tarantelle, ma da essa non separata (in fondo Sainte – Beuve, nel suo elogio di Galiani, ebbe a scrivere che sulla sua arca funebre avrebbero dovuto venir scolpiti sia Socrate che Pulcinella…),a formare, lo ripeto, un clima irripetibile senza il quale non sarebbe possibile l’ autore e, quindi, l’ opera che esaminiamo oggi.
2. “Custodia del tempo”, ha voluto intitolare il suo testo il prof. Casavola, e come sempre dietro un titolo vi è un pensiero. Non si tratta di una semplice memoria, di una testimonianza resa ai posteri perché giudichino, ma implica un più forte senso di responsabilità. Se l’ empietà di Caino è svelata dal suo rifiutarsi di essere custode di suo fratello, allora la custodia è qualcosa di più ampio e di più profondo, è il segno di un’ attenzione, è il ritenere che il tempo non sia semplicemente il fluire insensato di uomini e cose, una farsa “piena di strepito e di furore” come nel lucido delirio di Macbeth, ma da esso è possibile ricavare un senso, una chiave di lettura, in qualche modo un finalismo. Ovviamente per il cattolico Casavola il tempo è tempo redento, ed al giurista compete una funzione particolare, giacché egli è nello stesso tempo testimone, memorialista ed anche indagatore delle profondità della storia sapendo trarne una lezione che non è solo morale ma è anche finalizzata all’ attento esame di come gli uomini costruiscono le ragioni della convivenza comune. Il giurista assume quindi la funzione che spetta in altro senso ed in altra forma al sacerdote, ed insieme essi possono ripetere i versi di David Maria Turoldo quando afferma che “mi è toccato essere/ custode delle vostre solitudini/ Io sono/ salvatore di ore perdute”. E veramente il mondo di oggi appare congerie di solitudini e succedersi di ore perdute da custodire e salvare, insomma un caos forse creativo ma solo nella misura in cui esso è ricondotto a ragione dalla capacità del giurista, e insieme a lui del politico e del filosofo, di trasformare l’ osservazione del nudo fatto in capacità di costruzione di un futuro diverso e più degno della persona umana.
3. Ci sarebbe la tentazione di citare tutto, di leggere per intero quest’ opera così significativa proprio perché così composita, scritta in tempi diversi ma con un’ attenzione ed un’ ispirazione di fondo che si mantengono costanti e che per questo conservano la loro specifica freschezza. Le esigenze di sintesi e gli interessi particolari del nostro Circolo e del corso che esso promuove ci spingono a restringere la nostra analisi a tre problematiche fondamentali che sono ben rappresentate nelle sezioni in cui il libro si articola: i rapporti fra etica e politica, la Costituzione e il diritto inteso essenzialmente nella sua funzione regolatrice della vita sociale, come espressione del “facere justitiam” che è l’ obiettivo da sempre fissato dalla dottrina giuridica tradizionale.
4. La questione del rapporto fra etica e politica è antica quanto il mondo, e non è un caso che su di essa si siano interrogati i principali pensatori, da Platone ad Agostino, da Machiavelli a Hobbes fino ai contemporanei. E’ sintomatico che nella sua raccolta Casavola apra la sezione dedicata a questo tema topico con un articolo del 1985 dedicato al tema della “dissociazione attiva” dalle organizzazioni criminali (allora il terrorismo, più tardi le mafie) e della correlata legislazione premiale. Casavola non contesta l’ opportunità di tale legislazione, pur invitando alla prudenza e alla distinzione fra criminali comuni e criminali politici. Ciò che lo preoccupa, e che contesta, è l’ utilizzo di un linguaggio parareligioso, a partire dai concetti di “pentimento” e “perdono”, che non hanno significato in un contesto giuridico, dal momento che “il diritto deve restare al di qua della soglia della coscienza. Guai se esso pretendesse di entrarvi, di esigere il pentimento cui far seguire il perdono. Simili possibilità e prerogative sono di Dio, non dello Stato”. Pertanto, viene fissato uno dei paletti che dividono inesorabilmente lo Stato laico da quello etico, ossia la pretesa di sovrapporre il livello della coscienza individuale a ciò che ha rilevanza giuridica, a condizionare, in sostanza, l’ erogazione di benefici a un’ impossibile valutazione di un vero pentimento nel senso cristiano della parola. Un anno dopo, in occasione del quarantesimo anniversario di nascita della Repubblica, Casavola centra la sua riflessione sulla tematica del bene comune, ricordando che esso, se veramente vuole essere espressione della “res publica” deve essere “eguaglianza nelle opportunità di esistenza e di destino personale, è libertà di pensiero nel pluralismo culturale e politico, è onestà nel lavoro, è buona fede nell’ informazione, è imparzialità del giudice e dell’ Amministrazione, è tutela dei deboli e degli sfortunati, è religione civile per il comune focolare nazionale”. Pertanto Casavola crede, crede fermamente che laddove la Costituzione afferma il dovere della Repubblica di svolgere alcuni compiti (rimuovere le barriere sociali e culturali, promuovere le personalità dei singoli e dei corpi sociali, garantire il diritto alla salute, alla casa, al valore sociale della proprietà privata….) ciò implichi atti conseguenti da parte dei governanti. Lo rileva due anni dopo, nel richiamare la distinzione fra cittadini e sudditi, quando ricorda che le virtù civiche, così necessarie alla salute morale di una democrazia, non sono in alcun modo disgiungibili da interventi severi sulla dimensione politica e legislativa, ed anzi “proprio per recuperare tante eticità alla politica occorre una riforma di sistema, e non di disorganici ritocchi, delle nostre istituzioni. A partire dalla legge elettorale, fino al Parlamento, al governo, alla giustizia, alle autonomie locali, agli enti economici ed erogatori di servizi…”. In questo senso è necessario non avere paura dei tabù, e non è un caso se qualche anno dopo, di fronte al malaffare e al prosperare del sottobosco dell’ economia criminale (un problema che i nostri attuali governanti hanno finto di non vedere o hanno addirittura legalizzato, in qualche misura), Casavola invochi “una economia sottomessa a regole etiche e legali che premino l’ intraprendenza degli onesti ed espellano dal mercato i disonesti”, anche attraverso un più stretto controllo dello Stato sulla trasparenza dell’ economia senza soverchie preoccupazioni di violare una libertà di iniziativa economica la quale al contrario, ricorda il giurista, risulterebbe esaltata dalla maggiore correttezza nell’ impostazione dell’ agire economico.
5. La riflessione sul diritto è l’ occasione per Casavola di affermare alcune sue convinzioni di fondo. In una nota del 1998 egli rileva come: “Nell’ economia dei compiti del potere, prima viene la giustizia, poi la guerra. E’ questa la ragione per cui giustizia e potere sono stretti in una endiadi dai tempi dei Romani all’ Europa moderna”. Negli ordinamenti moderni, tuttavia, il rapporto diretto fra giustizia e potere sovrano è spezzato, la magistratura si costituisce in ordine autonomo e chiede garanzie contro l’ invadenza della politica che comunque tenta sempre di riprendere lo scettro strappatole. Certo, Casavola non si nasconde i problemi, vede quelli che possono essere i rischi, il protagonismo o, peggio, la politicizzazione surrettizia di parte della magistratura, ma il suo atteggiamento di fondo non deflette da quelli che sono i principi costitutivi di quella che a lui pare, ed è, una scelta di civiltà, ossia l’ indipendenza del potere giurisdizionale da quello regio, quella che fa sì che effettivamente il povero mugnaio possa trovare il giudice in Berlino che gli dia ragione anche contro Federico il Grande. In un’ ampia sinossi risalente al 1996 delle varie proposte di modifica dell’ ordinamento giudiziario Casavola vaglia ad uno ad uno gli argomenti finalizzati ad unificare le funzioni dei Pubblici Ministeri, a sottoporli ad un’ autorità diversa da quella del loro Ufficio e del CSM, a rendere discrezionale l’ azione penale e quant’ altro. La riflessione è puntuale e precisa: “Il tema del PM ingombra tanta parte della questione giustizia perché è il sintomo della contraddizione del sistema costituzionale vigente. Uno Stato che non si è del tutto liberato della sua tradizione autoritaria non realizza compiutamente l’ indipendenza del potere giudiziario, che per essere un potere diffuso in ogni singolo organo giurisdizionale non può essere interpretato come un potere compatto e personificato nei suoi vertici, come accade per gli altri poteri dello Stato”. E prosegue ricordando che il potere giudiziario è in qualche misura “non soltanto distinto, ma contrapposto agli altri poteri dello Stato, perché esso guarda e protegge la libertà dei cittadini, come gli altri poteri non possono fare”. Piuttosto, esorta il giurista, non si vada per le quattro strade a cercare soluzioni finalizzate solo agli interessi di potenti “impicciati” in affari giudiziari, ma il Parlamento assuma le proprie responsabilità:”La legge ordinaria può aumentare il numero dei magistrati rapportandolo alle grandezze della popolazione, come è stato fatto in altri paesi europei; può ridisegnare i codici di procedura per adottare riti più celeri, facendo cadere formalismi che, anziché giovare e garantire, nuocciono ora all’ una ora all’ altra delle parti e alla credibilità stessa della giustizia; può deflazionare la giustizia penale riducendo le fattispecie incriminanti del codice sostanziale”. Una bella lezione, si direbbe, a beneficio di quanti sognano doppi CSM e carriere separate mentre i processi civili e penali affogano nel mare delle carte e dei rinvii! Nello stesso tempo, Casavola sembra ricordarci quanto con parole diversamente ispirate ebbe a dire a suo tempo Albert Camus, ossia che la giustizia va presa nel suo lato umano, senza di che essa diverrebbe un’ orribile passione a freddo che ha mutilato il cuore di molti uomini. Ciò vale a maggior ragione nella battaglia contro la pena di morte, rinfocolata da fatti di cronaca inerenti il sempre più largo uso di tale pena non solo negli Stati totalitari ma anche in una grande democrazia come quella statunitense. Casavola è acuto nel ricordare che “la pena di morte rivela la paura delle collettività americane per la violenza che, da sempre, fin dalle origini coloniali, ne insidia la vita quotidiana. I governanti non hanno la forza per correggere la rappresentazione e i modelli di comportamenti relativi al nesso tra violenza criminale e sanzione penale . Tutto quello che si è ottenuto è una ritualizzazione formalistica della esecuzione capitale, che svela, come meglio non si potrebbe, la intrinseca natura di quella pena come tragico taglione. E’ la vendetta privata che, gestita dal potere pubblico, perde le sue modalità tumultuarie e diventa appunto un macabro rito”. Potente e significativo l’ appello finale agli americani affinché “si mettano al passo del progresso morale ritrovato, sia pure da non molto tempo, dai loro fratelli europei”.
6. La questione della Costituzione è legata e connessa a questi elementi poiché da essa, e lo studioso del diritto lo sa, si dipana la vicenda non solo giuridica, ma anche morale e politica dell’ intero Paese. Ciò è vero sia che la Costituzione venga considerata secondo l’ interpretazione kelseniana della Grundnorm, che sembra rimandare più che a una legge ad un atto o ad un insieme di atti fondativi, come quelli che celebreremo di qui a nove giorni facendo memoria del sessantesimo anniversario della liberazione, sia che lo si intenda come Grundgesetz, testo fondamentale, come tuttora viene chiamata la Costituzione della RFT. Nell’ uno e nell’ altro caso la difesa della Costituzione è dovere primario dei cittadini e dei giuristi in particolare anche perché, ci ricorda Casavola, “una Costituzione, che sia da riformare o da creare ex novo, è sempre una occasione tumultuosa o soltanto appassionata di incontro attorno ad una grande idea di unità e di libertà. Non sembra che nelle condizioni presenti della nostra vita pubblica spiri il vento di questo pathos e di questo ethos”. Anche perché, per certi versi, sembra che si ripresenti oggi quella fase di “stanchezza della democrazia” che già preluse nella prima metà del secolo scorso alla nascita e all’ affermazione dei totalitarismi. Il fascino ambiguo dei totalitarismi nasce dalla crisi della democrazia moderna che si è dimostrata incapace di offrire agli individui una vita eticamente sostanziata perché si è voluta quasi programmaticamente pensare staccata o indifferente alle questioni morali, creando nei singoli (e nelle masse) il bisogno di cercare altrove la strada della salvezza dall’ anomia, dal vuoto nichilistico della civiltà moderna. Lo Stato totalitario è in qualche misura l’ ovvia riposta a questo malessere, giacché esso è la sintesi delle due strade che l’ azione dello spirito umano identifica come possibili vie d’ uscita dal vicolo cieco della modernità: la prima, annota Giuseppe Capograssi, forse il maggiore filosofo del diritto italiano del secolo scorso, è l’ attivismo, il lavoro “abbandonato a se stesso, abbandonato alla sua natura (che) porterà l’ individuo al suo sbocco nella vita comune”; la seconda, più radicale, è la negazione di se stessi: “l’ individuo in quanto tale non può arrivare a quello sbocco che è la sua salvezza se non nega radicalmente se stesso”. Lo Stato totalitario riunisce in sé queste due opzioni in quanto risolve la crisi dell’ individuo nella sua negazione attraverso un perenne attivismo, una gigantesca organizzazione del lavoro umano che riduce la persona a numero, a massa di manovra, fino a cancellare il significato stesso della sua umanità. Il totalitarismo, tuttavia, non è solo una “malattia dello spirito”, come a dire una patologia passeggera destinata ad essere inevitabilmente sconfitta dagli anticorpi dell’ umanesimo e della democrazia: esso è invece- sono ancora parole di Capograssi- il male che corrode dall’ interno l’ “ ‘umanità disponibile’ , d’ una disponibilità come pura capacità, pura passività a qualunque esperienza e qualunque direzione” : questa umanità reificata diventa una semplice variabile, uno strumento nelle mani dei manipolatori del consenso e “l’ individuo come uomo, cioè come essere intelligente e morale, non entra più a formare il pensiero comune e la volontà unitaria che sono la vita dello Stato, ma questa vita partecipa come forza puramente passiva di adesione emozionale, nella devozione ad un simbolo oscuramente creduto della razza del sangue della classe del partito, in un fanatismo integrale”. E questo monito vale, ovviamente, anche per quei totalitarismi che non si presentano con qualche oscura o fiammeggiante mitologia, ma con un sorriso plastificato e sotto il segno della sovranità dell’ economia globalizzata che diventa regime e combatte per espandere una democrazia che coincide con il mercato globale. Perché come ci ricorda Casavola in un testo non inserito in questa raccolta ma meritevole della più ampia diffusione, la prolusione, vera e propria lectio magistralis , alla Settimana sociale dei cattolici dell’ ottobre scorso “se una democrazia si legittima non soltanto con regole e procedura di investitura del potere, ma anche per i fini che persegue, ebbene la preservazione della vita umana dalla guerra diventerà il valore supremo, su cui giudicare l’ autogoverno dei governati, perché i governati non possono voler morire per una causa ingiusta o illegale”. Nel momento in cui il mercato invade lo spazio della politica e della società civile, e la nostra Costituzione è brutalmente manomessa per inseguire le fantasie localistiche ed i sogni di potere di governanti che si comportano come un esercito di occupazione in territorio straniero, la voce della coscienza e del diritto che Casavola ed altri fanno risuonare è orientamento per un possibile riscatto, per un tempo migliore da vivere e custodire per le generazioni che verranno.
Trascrizione della relazione di Francesco Casavola
Etica e Costituzione
Io non so come esprimere la mia gratitudine per la vostra attenzione e, soprattutto, per questa introduzione molto penetrante non soltanto del mio testo, ma anche delle intenzioni che voleva esprimere, introduzione fatta da Giovanni Bianchi e poi, così analiticamente, da Lorenzo Gaiani.
Voglio fermarmi, per coerenza con il programma del vostro corso, ai tre temi qui toccati dell’etica, della giustizia e della Costituzione. Richiamo alla mia e vostra memoria che se, da un lato, viviamo decenni in cui l’etica si riscopre (nelle scienze della vita, come nelle scienze della natura; c’è un’etica biologica e un’etica ecologica; la si vorrebbe reimporre, sia pure in termini nuovi, all’economia e al diritto) e se è evidente che il luogo dove l’etica dovrebbe esprimere i suoi principi e valori – non soltanto le sue regole – è proprio una Costituzione; ebbene, dall’altro lato, questo luogo si sta allontanando, sia nell’aspetto della scrittura dei testi costituzionali, che per quanto riguarda la lettura che una comunità cui la Costituzione è indirizzata deve compiere per riscoprirne il sogno e l’ispirazione ideale.
Perché dico che si va allontanando? Lo dico per una ragione precisa, non semplicemente per una percezione del clima in cui si muove l’immaginario di una grande comunità nazionale.
Da un testo di una delle tante Costituzioni francesi della fine del XVIII secolo leggo: “Nessuno può essere buon cittadino se non è buon padre, buon figlio, buon fratello, buono sposo, buon amico”. Guardate che saldatura profonda tra l’etica ed una disposizione costituzionale! Qui l’interlocutore del costituente non è lo Stato: è il padre di famiglia, il figlio, il fratello, il coniuge, l’amico. A quale falda profonda delle vita reale degli uomini, che si affratellano in una comunità, giunge l’attenzione del costituente e l’etica di questa società viva e vivente nelle figure più rappresentative, paradigmatiche, dei legami interindividuali. A quale profondità giunge il costituente!
Non è accaduto mai più dopo di allora; e si tratta di un testo – se la memoria non mi inganna – del 1793!
“Preamboli” e “principi fondamentali”
Le Costituzioni si aprono o con “preamboli”, o con “principi fondamentali” che esprimono alcuni valori di indirizzo. Parlo delle Costituzioni di seconda generazione, nate dopo il secondo conflitto mondiale. Ma già le Costituzioni di prima generazione si occupano dell’organizzazione del potere e non della società a questa profondità, del rilevamento di legami esistenziali di persone vitali e viventi nella società degli uomini. Ciò non vuole significare che le Costituzioni si siano volute liberare dalla valutazione etica della convivenza sociale, ma che si sono astrattizzate e tecnicizzate.
Facciamo una comparazione, a titolo di esempio, fra due Costituzioni che sono pressoché contemporanee. Quella italiana del 1948 e quella della Germania Federale del 1949. Le rispettive Assemblee Costituenti hanno lavorato, più o meno negli stessi anni: quella italiana nel ’46-’47 e quella tedesca nel ’47-’48. Ebbene la Costituzione italiana si dà 12 articoli che dovevano – secondo l’intenzione di alcuni (ad esempio, per Giorgio La Pira) – rappresentare un organico preambolo; poi prevalse l’idea che la forma del “preambolo” avrebbe avuto una scarsa forza precettiva e sarebbe apparsa come una mera proclamazione di strani valori; e si volle, pertanto, che tali valori fossero incorporati nella Costituzione e valessero come “principi fondamentali”. Qual’è l’articolo che dà inizio? E’ la definizione dell’Italia come “una Repubblica democratica fondata sul lavoro”, alla stregua della Costituzione francese del ’46-’47 che dà la definizione della Repubblica francese. In quella definizione – se avremo tempo – ricorderemo la sequenza degli aggettivi, molto significativi, che qualificano la Repubblica francese: il primo di questi aggettivi è “laica”; la Francia è una repubblica laica!
Invece vediamo che cosa accade in Germania: il primo articolo – il primo comma diremmo oggi – dice che “La dignità dell’uomo è intangibile”. Anche qui c’è un salto e si recupera una saldatura tra etica e politica. Però spieghiamoci, cerchiamo di capire la ragione: è un Paese in cui la dignità umana era stata devastata, come in nessuna altra parte del pianeta, dal regime nazista!
E se compariamo la Costituzione tedesca con le Costituzioni che la precedono di mesi e con quelle dei Lender, ecco troviamo conferma che questo rientro dell’etica nella Costituzione nasce ovunque in Germania, evidentemente, dall’indignazione morale del popolo tedesco rispetto a coloro che avevano governato nel decennio nazional-socialista.
Il principio di intangibilità della “dignità dell’uomo”
Ma la dignità dell’uomo è niente altro che il punto di arrivo di una rotazione storica del significato dell’individuo: dal diritto di proprietà alla dignità. Il diritto si era costruito, si può dire, fin dal millennio e mezzo dell’esperienza romana; dopo 1400 anni dalla costituzione del diritto romano su un soggetto che è insieme padre di famiglia e proprietario. E questa costruzione romana era stata data in lascito alla storia dell’Occidente europeo, al punto che ancora nel codice di Napoleone il diritto di proprietà è considerato uno dei “sacri” diritti.
Bene; le tragedie del XX secolo determinano l’abbandono di questo concetto e la sua sostituzione con la dignità, che riguarda l’uomo “nudo”, inerme, senza appartenenza di nazionalità; l’uomo in quanto “essere umano”, che vive secondo l’indicazione della Dichiarazione Universale votata dall’Assemblea generale della neonata O.N.U. nel 1948; l’essere umano, il vivente umano, che non ha altra prerogativa, nel mondo del diritto, se non quella della “dignità”. Una dignità inviolabile, intangibile, che ogni potere pubblico è obbligato – come dice la Costituzione tedesca – a rispettare e proteggere.
E’ il punto terminale di una rivoluzione certamente, ma per parlare davvero di un ritorno dell’etica nella Costituzione e, quindi, attraverso la Costituzione, nella vita di una comunità, nella vita politica (come ci ha ricordato Giovanni Bianchi: “politica come aggettivo”), bisogna comprendere in che cosa consista la dignità dell’uomo.
Perché su questa struttura della dignità dell’uomo non ci fu accordo neppure nella Commissione presieduta da Anna Eleonor Roosevelt, che doveva preparare la bozza della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo. “Dignità” perché l’uomo è dotato (questa era un po’ la formula condivisa all’interno della Commissione) di coscienza e di ragione, che sono lo scheletro su cui compare il corpo della dignità.
Ma ci si pose subito in quella Commissione la domanda: coscienza e ragione fornite da chi? Coscienza e ragione con quale investitura? Allora il mondo occidentale pensava che si dovesse richiamare la natura creaturale dell’uomo, risalendo così al Creatore non necessariamente identificato nella divinità di una religione positiva, ma in forza di una tradizione di deismo naturale esistente in Occidente.
Però non dimentichiamo che nel 1947, nell’ambito della neonata O.N.U. – che era stata costituita con la carta di S. Francisco nel 1945 – le potenze vincitrici rivendicavano a sé questo regime e valore della “democrazia”, non soltanto, cioè come forma di organizzazione del potere, ma anche come “valore”; peraltro con due aggettivazioni: c’era la democrazia dell’Occidente libero e c’era la democrazia popolare dell’Est. Ebbene queste due versioni della democrazia rinviavano a diverse ideologie, a diverse filosofie, dove non c’era spazio per una concordia su un tema così di radice qual è, appunto, il tema della dignità.
Quindi si preferì considerare la dignità come una risultante di questa struttura di coscienza e di ragione che l’uomo possiede in quanto uomo. Cioè ci si ridusse ad un puro assioma: l’uomo in quanto è uomo, è dotato di coscienza e di ragione e dunque ha – di fronte al genere umano (non soltanto di fronte ad un determinato Stato, all’interno del sistema di garanzie di una particolare cittadinanza) – una dignità intangibile.
L’interpretazione delle Costituzioni
Per cui la questione etica resta, ancora una volta, una questione separata, per non dire esclusa, dalle Costituzioni. Le Costituzioni devono essere interpretate perché possono essere continuamente, in ogni loro disposizione, particolarizzate con una lettura etica. Questo è stato il compito – in tutte le Costituzioni cosiddette “di seconda generazione” – dei giudici delle leggi, vale a dire delle Corti Costituzionali, che leggono le Costituzioni non come un insieme di disposizioni, come un insieme di norme, ma come un insieme di valori etici.
Le Costituzioni, da questo punto di vista, sono caratterizzate (stiamo parlando, segnatamente, di quelle europee di seconda generazione) dal fatto di essere suscettibili di un’interpretazione evolutiva permanente, perché l’evoluzione dei costumi, della società, dei giudizi che nella quotidianità vengono espressi sui comportamenti individuali e collettivi, è adattativa per l’etica che, nel suo significato originale, significa appunto insieme di principi che regolano i comportamenti e la condotta degli uomini. Questa opera di interpretazione è compiuta da chi ha avuto (qui è bene chiarire questa questione) lo specifico compito che noi diciamo “costituzionale”.
La Corte Costituzionale e la lettura “etica” della Costituzione
Quando si pensò di creare la Corte Costituzionale nell’Assemblea Costituente, si toccò proprio questo dilemma: allora che facciamo? Facciamo un Tribunale più alto degli altri tribunali? Badate che in tutte queste Carte Costituzionali, a seconda delle terminologie dei vari ordinamenti, si parla di Corti o di Tribunali: in Germania e in Spagna si parla più di “Tribunale”; noi abbiamo parlato di “Corte”; in Francia si parla di “Conseil Costitutionail”.
La posizione che fu più chiara all’interno del dibattito in Costituente fu questa: è certamente un organo espresso dalla costruzione politica di questo patto fondamentale che è la Costituzione. Notate che la Costituzione, ha in sé l’idea del patto (se avremo tempo, magari dopo le vostre domande, lo chiariremo anche filologicamente), però le sue procedure, il “vestito” delle sue decisioni non possono che appartenere alla qualità della giustizia (poi ritorneremo su questa tema). Perché? Perché la giustizia è il potere – per usare una metafora di Montesquieu – che fra tutti gli altri poteri è un “non potere”.
E allora, ecco che nasce una “giurisdizione”. Quest’organo che è politico; che è l’organo davvero regolativo della vita politica, riveste le forme di una giurisdizione ed è a questo organo politico che si deve una lettura etica della Costituzione. Ed è qui che il circuito tra etica e Costituzione torna veramente e nuovamente a saldarsi.
Guerra e Giustizia
Il secondo punto su cui si è soffermato Gaiani è “guerra e giustizia”. La concezione antica del potere, che noi troviamo nelle nostre radici romane, è che il Capo supremo della comunità politica è, contemporaneamente, il Capo supremo militare e il supremo giudice. Questa tradizione – che in Roma trova forme molto articolate dal punto di vista costituzionale – appartiene alle vicende della costruzione dell’umanità civile nelle sue fasi primitive.
Pensate alla tradizione biblica dove i Re sono Giudici oltre che detentori del potere militare. Voglio, qui, ricordare un aneddoto (che poi, probabilmente, è un piccolo evento reale perché la prima testimonianza risale ad uno scrittore greco contemporaneo) che ha avuto una grandissima eco nella civiltà occidentale ad opera di Dante Alighieri nella Divina Commedia. Si tratta dell’Imperatore Traiano che sta per partire per la guerra; è il momento solenne della partenza; monta a cavallo con tutto il suo comitatus di cavalieri, con i labari delle legioni, quando al morso del cavallo si aggrappa una piccola, vecchia donna che gli chiede giustizia, giustizia per alcuni suoi figli morti assassinati. E allora l’Imperatore dice: beh, adesso sto partendo, quando tornerò dalla guerra ti renderò giustizia. E la vecchia replica: e se tu non tornerai dalla guerra? L’Imperatore le risponde: sarà il mio successore a renderti giustizia. Ma la vecchia imperterrita continua: tu hai il dovere di rendermi giustizia, se me la renderà il tuo successore, tu resterai con questo peccato di debito per non avermi reso giustizia. A questo punto l’Imperatore si convince; scende da cavallo e istruisce un procedimento estremamente sommario, ancorché non semplice, e dopo aver reso giustizia alla vecchia, si rimette alla testa delle truppe e va alla guerra.
Che cosa significa? Significa che nella mentalità antica la giustizia è un dovere di coscienza di chi detiene il potere supremo che precede e prevale sul potere militare. Tra la guerra e la giustizia domina la giustizia. Io credo di aver scritto anni fa un editoriale per “Iustitia” (che è la rivista dei giuristi cattolici) su questa tematica: lì c’è poi tutta la descrizione del prosieguo nell’asse europeo di questa tradizione, di questo problema della prevalenza della giustizia sulla guerra.
Poi potremmo dire che se attualizziamo il termine guerra riempiendolo di tutti gli altri aspetti (la necessità, l’esercizio del potere, l’economia, la finanza, tutto quello che oggi richiede appunto l’intervento delle autorità che governano) e, dall’altra parte, lasciamo invece la giustizia nel suo significato originario (attesa dei cittadini che sia conservato l’ordine nella convivenza) vediamo che questo è il vero problema; perché la vecchietta non è che imponesse la vendetta, voleva che si frenasse la spinta omicida che gli aveva fatto perdere i figli.
Beh, dobbiamo dire che oggi le democrazie si debbono interpellare anche su questo: dove c’è questa priorità della giustizia? Peraltro, anche la giustizia sottostava ad una ragione di stato e le riforme dell’ordinamento giudiziario tornano a rispondere a questa priorità iniqua delle ragioni di stato, della ragione di classe, della ragione economica rispetto alla incondizionata supremazia del valore della giustizia.
E quindi anche da questo punto di vista occorrerebbe che nel ripensare la Costituzione, nel rivedere la Costituzione (addirittura con una legge insufficiente dal punto di vista del suo rango, vale a dire con una legge ordinaria, perché l’ordinamento giudiziario lo si sta riformando con una legge ordinaria), bisognerebbe mantenere questa forza etica della Costituzione che si esprime, in questo caso particolare, con il riconoscimento della incondizionata supremazia della giustizia come attesa civile, come esigenza di conservazione della ordinata convivenza e quindi dell’ordinata gerarchia dei valori tra i cittadini rispetto a qualunque altro interesse e ragione del potere.
Etica e passione civile, ingredienti della Costituzione
Ma torniamo al tema. Gaiani mi ha citato quasi alla lettera a proposito di questi due momenti che riguardano il clima della fondazione di una Costituzione e quello della sua applicazione. Abbiamo visto come l’ethos è rientrato nella Costituzione. Poi c’è il pathos (che vuol dire la passione civile) che deve in qualche modo affratellare, unire, schierare tutti insieme, sia i cittadini che i loro rappresentanti.
Ma il pathos storicamente non è una componente del clima quotidiano di una vita democratica; il pathos si rivela nei momenti straordinari della storia di una comunità: il pathos della “Liberazione” (che la prossima settimana evocheremo in molte città italiane) ha condotto alle urne milioni di cittadini – e, per la prima volta, milioni di cittadine – nel giugno 1946 per eleggere l’Assemblea Costituente e per rispondere al referendum tra Monarchia e Repubblica; è su quel crogiolo di sentimenti, quindi non soltanto di calcoli, di interessi, di potenti astratte ragioni di Stato, che si fonda una Costituzione.
Stanchezza della democrazia
E poi viene il momento della stanchezza della democrazia, il pathos si consuma e quanto più forte è stato quel pathos, tanto più rapidamente si consuma. Dobbiamo essere molto realistici nel ripercorrere gli itinerari della nostra democrazia. Dopo il 1948, la stanchezza fu pressoché istantanea nella stessa magistratura, che cominciò a distinguere nel nuovo testo costituzionale le norme precettive dalle norme programmatiche, indulgendo a considerare la prevalenza delle norme programmatiche, il che significava il rinvio sine die dell’attuazione della Costituzione.
La stanchezza della democrazia si vide subito anche nella burocrazia, che temeva il decentramento, il trasferimento del personale dalle grandi strutture ministeriali alle città capoluogo di Regione. E la si vide, poi, nel fatto che si lasciarono passare oltre venti anni prima di avere i primi statuti delle Regioni ordinarie (che datano dall’inizio del decennio ’70) e dal fatto che si ritardò di otto anni – fino al 1956 – l’istituzione della Corte Costituzionale, vale a dire l’organo che avrebbe dovuto garantire una conversione radicale dell’ordinamento giuridico italiano ai principi della democrazia repubblicana.
Ed è significativo che, nell’ udienza inaugurale della Corte, chi ne fu il primo Presidente (cioè Enrico De Nicola) deplorò pubblicamente l’ignoranza della Costituzione non solo da parte della massa dei cittadini, ma anche da parte del ceto politico, ricavandone il presagio che questa ignoranza, spesso voluta, avrebbe causato “mala sorte” al popolo italiano. Anche in questo la napolitanità di De Nicola, malgrado la sua signorilità, induceva a dire pane al pane e vino al vino. Fu un monito gravissimo, pronunciato in quella circostanza e da quell’Organo che si era voluto sabotare con la dilazione della sua istituzione che, di fatto, significò la dilazione dell’inizio della vita regolatrice della nostra Costituzione.
Immaginate in che modo, nella crisi progressiva dovuta a questa stanchezza della democrazia, ci siamo apprestati a pensare ad una riforma della Carta del 1948! Ci sono argomenti che qualificare banali è usare molta generosità (lo ha richiamato Giovanni all’inizio della sua introduzione). Uno di questi argomenti è che sono passati troppi anni, che ci teniamo un vestito così vecchio. Si ragiona più o meno così: la Costituzione del ’48 rifletteva un’Italia per tre quarti contadina, mentre adesso l’Italia non solo è tra le grandi potenze industriali, ma comincia ad avere strutture e forme di comunicazione tipiche della società post-industriale. Possiamo, dunque, tenerci una Costituzione da società rurale nel mondo della post-modernità e dell’economia globale?
La Costituzione come fattore di modernità
L’argomento è straordinariamente banale perché trascura il fatto che la modernizzazione reale dei comportamenti degli italiani, cioè della vita civile dei nostri connazionali (non dell’ industria, della tecnologia e della scienza), è stata propiziata proprio dalla Costituzione del ’48, attraverso l’interpretazione della giurisprudenza costituzionale. Dobbiamo pensare alla Corte Costituzionale non solo come ad un organo che dirime i conflitti tra Stato e Regioni (e che, comunque, regola i poteri dello Stato), ma come una giurisdizione cui pervengono tutte le questioni, i bisogni, le attese reali della vita di ciascun italiano, a partire dai problemi dell’educazione, del lavoro, fino – lo dico per paradosso – al funerale. Pensate ai problemi della vita e della morte di un operaio rispetto a quelli di un possidente. Ci sono principi di uguaglianza, che arrivano dovunque, fino alla soglia della morte di un cittadino!
Bene, tutto questo nasce dal fatto che la giurisprudenza costituzionale ha dato una lettura dei principi della nostra Costituzione che ha accompagnato, favorito e, spesso, promosso e anticipato l’evoluzione della società e la modernizzazione della vita civica degli italiani.
L’ignoranza di questo aspetto della Costituzione fortifica l’idea che essa deve essere cambiata, perché è vista come un ostacolo allo sviluppo della vita italiana, mentre è esattamente il contrario. D’altra parte il carattere molto provinciale, autarchico dell’educazione civile degli italiani (a cominciare da quella scolastica), fa ignorare che gli USA sono il modello della modernità; tutto ciò che avviene negli USA è avanti di mezzo secolo rispetto a quello che poi si realizzerà nei paesi d’Europa. Ebbene gli USA hanno una Costituzione che risale alla fine del XVIII secolo – quando ancora si navigava a vela e si viaggiava col traino a cavalli – ma nessun cittadino americano ha mai lamentato l’obsolescenza della Costituzione, che appartiene certamente non alla supermodernità, al futuribile fantascientifico in cui vive oggi la società americana. In America c’è un culto della Costituzione, che fa capire ad ogni cittadino che essa contiene valori e principi e non disposizioni di dettaglio o regolamentari come, invece, si immagina da quest’altra parte dell’Oceano.
Revisione o stravolgimento?
E allora ecco che – nella stanchezza della democrazia; nel distacco, in qualche modo strategicamente voluto, della stragrande maggioranza dei cittadini da questa Carta di principi e di valori (e non solo di regole) che è la nostra Costituzione – nasce l’iniziativa “riformatrice” del ceto politico, che risale alla IX legislatura; quindi “Commissione bicamerale” che, a fasi alterne, si replica nell’XI legislatura e nella XIII legislatura dove, certo, si intravedono le esigenze di un miglioramento della struttura della Costituzione. Nessuna Costituzione è in sé perfetta; ma la Costituzione ha in sé, per adoperare un termine usato dai giuristi francesi dell’800, il diritto di diventare antica perché essa deve dare la direzione di marcia, i fini da raggiungere che ci restano sempre davanti e che la Costituzione stessa continuamente ci addita come obiettivi da conseguire.
No! Da noi si è pensato che la Costituzione del ’48 bisognasse trasformarla, come dire, nella dimenticanza, perché un conto è modificare disposizioni su procedure, altro è stravolgere principi e valori. Questo modo di porre il tema lo ha reso tanto ambiguo che è sfuggito come un’anguilla dalle mani stesse degli autoproclamati riformatori, soprattutto dai componenti delle Commissioni bicamerali. Tanto è vero che non si è avuto nessun esito da queste Commissioni, fino a che è intervenuto al termine della XIII legislatura l’idea che almeno il Titolo V della Costituzione dovesse essere rivisitato per quanto riguarda la distribuzione delle materie elencate nel ’48 come competenze dello Stato e delle Regioni. Il colpo di mano, non prudente (richiamo l’endiadi di Giovanni “prudentia politica”), del Centrosinistra, varò la riforma del Titolo V, con un numero di voti e una maggioranza assolutamente irrisori.
Nella XIV legislatura si riprende questa tematica in maniera molto unilaterale, riconoscendo la competenza legislativa esclusiva delle Regioni in materia di scuola, di sanità e di sicurezza pubblica. Questo significa che lo Stato in questi tre ambiti è messo da parte, senza considerare che così si va a ritoccare non solo una struttura dell’ordinamento della Repubblica, ma anche il principio di uguaglianza fra i cittadini. Programmi scolastici diversi; prestazioni differenti relativamente al diritto fondamentale alla salute; condizioni disomogenee anche per quanto riguarda quel bene che non può che essere uguale per tutti e che è la sicurezza pubblica…; i cittadini si trovano ad essere – come dire – espulsi da una Patria comune e trovo giusto il titolo di un editoriale di Galli della Loggia in argomento: “La patria perduta”!
Questa non è riforma della Costituzione, non è decentramento, e non è federalismo: è “desovranizzazione” della Repubblica. E, qui, si tocca un altro punto fondamentale che è l’indivisibilità della Repubblica che non è un’indivisibilità di tipo amministrativo, ma dei principi. E’ inutile che la chiamino Repubblica Federale. D’altra parte noi parliamo di una spaventosa incompetenza e usiamo ancora un eufemismo!
Il ceto politico richiama il federalismo ispirandosi al modello americano, trascurando il fatto che l’aquila pescatrice di starne (lo stemma dello Stato federale) ha sotto gli artigli la scritta: “e pluribus unum”. Quello sì è federalismo: dalla pluralità all’unità, non il contrario; non la destrutturazione dell’unità nella pluralità e, soprattutto, nella pluralità “coordinata” (come leggiamo nel testo licenziato dal Senato), che è la riduzione in frantumi non solo dell’unità della Repubblica, ma anche della costruzione di tanti piccoli stati in miniatura.
L’urgenza di un risveglio
E allora come è immaginabile che ci si riduca soltanto alla polemica tra i leaders di uno schieramento o dell’altro sul fatto che una riforma costituzionale debba essere una riforma condivisa? C’è in gioco ben altro: non si vuole procedere alla “revisione” della Costituzione; si vuole cambiare la Costituzione, si vuole annientare la Costituzione del ’48 e la si vuole sostituire con un’altra! Ammesso che questo procedimento riformatore arrivi al suo risultato; ammesso pure che il popolo in un momento di panico (e uso ancora un termine generoso) non risponda come dovrebbe al referendum confermativo della riforma; resta il fatto che il funzionamento di questa Repubblica “riformata” sarebbe impossibile perché è stato costruito un sistema che creerà soltanto inceppi, conflitti e contenziosi. Diventeremo la patria degli avvocati dinnanzi a tutte le giurisdizioni possibili, ma sarà uno Stato in cui nessuna legge potrà essere obbedita perché sarà immediatamente contestata; nessuna legge che provenga dalle Regioni, nessuna legge che provenga dallo Stato, nessun atto che sarà oggetto di decisione di una delle due Camere che dovranno – nelle intenzioni dei riformatori – superare il bicameralismo, ma che in realtà si porranno in due rami contrapposti che daranno luogo soltanto a conflitti.
Bene. Questo è il momento, secondo me, di uscire dalla stanchezza della democrazia in Italia, di risvegliare un pathos istituzionale che abbiamo perduto, perché altrimenti noi subiremo una Costituzione privata dei suoi valori, ridotta soltanto a procedure; e noi diventeremo neppure sudditi, neppure vittime, ma soltanto spettatori di un definitivo tramonto! Grazie.