Il mese di maggio si inizia con la Festa dei lavoratori, il giorno 1, che, compressa per anni da Governi reazionari e dittatoriali e trasformata da altri Governi dittatoriali nel pretesto per una parata di forza, ha travolto gli argini delle resistenze politiche e religiose ed è stata persino “battezzata” da Pio XII nel 1955 come festa di San Giuseppe artigiano (ora “lavoratore”, anche se per la verità gli aclisti, che furono i promotori dell’innovazione, la volevano dedicata a Gesù Divino lavoratore, cui ora sono dedicate molte chiese).
Come tutte le feste comandate anche quella del Primo Maggio ha subito nel corso degli anni un certo appannamento, con robuste concessioni ad una retorica d’occasione che non hanno fatto bene alla percezione dell’importanza della festa, così che molti hanno finito per credere che essa si riducesse all’organizzazione di un grande concerto gratuito con star nostrane ed internazionali.
Ci voleva forse l’esplodere in tutta la sua drammaticità della crisi economica perché si vedesse in faccia quella che è oggi la situazione del lavoro, in termini di disoccupazione, di precarietà travestita ipocritamente da flessibilità, di diminuzione dei diritti di coloro che già lavorano e di azzeramento di quelli che aspirerebbero ad entrare in un mondo del lavoro che sembra essere una gigantesca trappola.
Soprattutto la nostra è l’epoca di una potente polarizzazione sociale che, almeno nel mondo occidentale, non era riscontrabile dall’immediato dopoguerra e forse anche da prima, e che sta portando ad una compressione verso il basso delle classi medie, le quali, come si sarebbe detto una volta, stanno sperimentando una fase di proletarizzazione derivante in pari tempo dalla riduzione del potere d’acquisto dei salari, dalla precarizzazione del lavoro e dal venir meno delle tutele dello Stato sociale. Nello stesso tempo, la posizione della porzione ristretta di popolazione che dispone di larga parte dei mezzi economici si rafforza sempre di più, mettendo peraltro in discussione la funzione stessa della politica in una società democratica, dal momento che la percezione crescente fra i cittadini è che nulla possa la politica per correggere gli squilibri di un sistema economico-finanziario ormai autosufficiente e per di più agevolato da burocrazie cieche che impongono politiche di rigore che puniscono i ceti medio-bassi senza sostanzialmente intaccare le posizioni di privilegio.
Persino commentatori di destra come Ferdinand Mount, forse una delle migliori penne del Partito Conservatore britannico, hanno rilevato con preoccupazione come la logica dei “new few” , dei “pochi” ricchi e privilegiati finisca per spaccare in due la società con conseguenze al momento imprevedibili. Non aveva torto il gesuita Sergio Bernal, già docente presso l’Università Gregoriana, quando affermava che “la globalizzazione si è sviluppata in un vuoto etico dominato dai valori del mercato e da atteggiamenti dei ‘vincenti’ che lacerano il tessuto sociale”. Allo stesso modo non ha torto il Compendio di Dottrina sociale della Chiesa nel dichiarare che “il lavoro, per il suo carattere soggettivo o personale è superiore a ogni altro fattore di produzione: questo principio vale, in particolare, rispetto al capitale”. Proprio per questo lo stesso testo ammette, rifacendosi all’enciclica di Giovanni Paolo II Laborem exercens che “il rapporto fra lavoro e capitale presenta spesso i tratti della conflittualità, che assume caratteri nuovi con il mutare dei contesti sociali ed economici” (cpv. 279) e si aggiunge che “non si deve ritenere erroneamente che il processo di superamento della dipendenza del lavoro dalla materia sia capace di per sé di superare l’alienazione sul lavoro e del lavoro” (cpv.280).
Se oggi il Primo Maggio ha ancora un senso è essenzialmente quello di ricordarci che le conquiste dei lavoratori – conquiste che sono costate dolore, sangue e rabbia di intere generazioni- non sono mai acquisite per sempre, e che la lotta di classe non è un concetto superato ma una realtà politica e sociale dell’ora presente. Il compito di una politica seria sarebbe quello di incanalare la marea della rabbia sociale che sta crescendo progressivamente, prendendo atto che il “riformismo” non è il progressivo adattamento al peggio, ma la ricerca delle strade per attualizzare e consolidare i meccanismi redistributivi e diffondere i diritti senza creare artificiose distinzioni fra vecchi e giovani, quando l’unica distinzione reale è quella fra sfruttatori e sfruttati.