Non è solo questione di tempo: se crisi vera è, non quindi la semplice esplosione di una o più bolle speculative, allora innesca e determina un cambiamento; una mutazione, cioè, più o meno radicale, del paradigma economico tra un prima e un dopo. Si direbbe, anzi, che un percorso ed un momento di uscita siano possibili solo passando attraverso il come: non è, cioè, con il semplice assorbimento di deficit, che è possibile una uscita da questa crisi.
Occorrerebbe, quindi, non solo non ripetere gli errori del passato, ma anzi ripensare l’ economia globale, ed il funzionamento dei sistemi economici particolari, in modo tale da permettere un nuovo ciclo economico, espansivo e al contempo virtuoso. In questo discorso è immancabilmente contenuto anche quello sull’ Italia: la cui economia, tra punti di forza e macroscopiche debolezze strutturali, è legata E al sistema-mondo E a quello europeo; a quest’ ultimo, com’è noto, da vincoli ed interazioni estremamente stabili e dense.
Queste sono le considerazioni alla base della scelta di presentare, in un continuum logico, due differenti lavori di Enrico Morando, che graditamente ospitiamo per la seconda volta nel nostro Corso, entrambi scritti insieme a Giorgio Tonini, il secondo anche con Antonio Funiciello e Dario Parrini; il quale ringrazio personalmente per averci tempestivamente inviato una copia dell’ ebook “Un’ agenda per Renzi”, permettendoci così una stesura organica della presentazione.
1. leggi il testo dell’introduzione di Luca Caputo
2. leggi la trascrizione della relazione di Enrico Morando
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1. premessa di Giovanni Bianchi 05’15” – 2. introduzione di Luca Caputo 15’34” – 3. relazione di Enrico Morando 1h 05”44″ – 4. domande 10’19” – 5. risposte di Enrico Morando 38’18” – 6. domande 06’05” – 7. risposte di Enrico Morando 30’48”
Testo dell’introduzione di Luca Caputo a Enrico Morando
Quale economia dopo la crisi
Non è solo questione di tempo: se crisi vera è, non quindi la semplice esplosione di una o più bolle speculative, allora innesca e determina un cambiamento; una mutazione, cioè, più o meno radicale, del paradigma economico tra un prima e un dopo.
Si direbbe, anzi, che un percorso ed un momento di uscita siano possibili solo passando attraverso il come: non è, cioè, con il semplice assorbimento di deficit, che è possibile una uscita da questa crisi.
Occorrerebbe, quindi, non solo non ripetere gli errori del passato, ma anzi ripensare l’ economia globale, ed il funzionamento dei sistemi economici particolari, in modo tale da permettere un nuovo ciclo economico, espansivo e al contempo virtuoso.
In questo discorso è immancabilmente contenuto anche quello sull’ Italia: la cui economia, tra punti di forza e macroscopiche debolezze strutturali, è legata E al sistema-mondo E a quello europeo; a quest’ ultimo, com’è noto, da vincoli ed interazioni estremamente stabili e dense.
Queste sono le considerazioni alla base della scelta di presentare, in un continuum logico, due differenti lavori di Enrico Morando, che graditamente ospitiamo per la seconda volta nel nostro Corso, entrambi scritti insieme a Giorgio Tonini, il secondo anche con Antonio Funiciello e Dario Parrini; il quale ringrazio personalmente per averci tempestivamente inviato una copia dell’ ebook “Un’ agenda per Renzi”, permettendoci così una stesura organica della presentazione.
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Innegabile punto di forza di questi lavori, al di là della qualità dell’analisi (e delle rispettabili opinioni di ciascuno in merito), è la pretesa di presentare un possibile piano integrale di ammodernamento del sistema economico e istituzionale italiano.
Una proposta di cambiamento, cioè, oltre che di lungo periodo, anche radicale ed unitaria, che finisce per coinvolge la forma dello Stato, le istituzioni nazionali ed europee, la vita politica.
Non, quindi, una mera trattazione economica; nè la proposizione di un disegno politico fine a se stesso, connotato soprattutto su un piano ideologico, o retorico, o di pura tattica; e neppure l’elencazione di una serie slegata di riforme settoriali, incapaci di apportare valore aggiunto a causa dell’ assenza di un progetto organico.
Piuttosto, un lavoro caratterizzato dall’ apprezzabile coerenza interna e dall’ organicità delle proposte, tutte spiegabili a partire da una idea di economia possibile che, prendendo le mosse dallo scenario globale, scende poi sui terreni europeo e nazionale.
E, d’altro canto, appare di evidente chiarezza una delle considerazioni cardine di questo lavoro: che cioè, nel contesto globale e locale dato, tutte e tre le via d’uscita tradizionali (risanamento della finanza pubblica, redistribuzione del reddito, crescita), proponendosi come ricette unilaterali ed alternative l’una alle altre, prese da sole siano ormai inefficaci.
Ecco quindi che ci si offre la visione di un quadro dai tratti netti, che si propone di dirci convintamente sia in che scenario economico globale ci troviamo e ci troveremo nel prossimo futuro, sia qual è la maniera migliore, per noi, di starci dentro.
L’ organicità della trattazione, infatti, si esprime nella fusione dei due aspetti sotto i quali opera l’idea del cambiamento possibile: un nuovo orizzonte politico-istituzionale per i Democratici corrisponde qui alla spinta verso un nuovo orizzonte economico per il Paese, con la stipula di una alleanza tra meriti e bisogni quale architrave della visione di questa area di pensiero politico.
Non è, questa introduzione, la sede migliore per approfondire la questione di quale Partito Democratico possa meglio realizzare le riforme necessarie alla modernizzazione del Paese. Rimandiamo, per ciò, all’esposizione dell’ autore, limitandoci ad enunciarla velocemente:
- Il superamento della contrapposizione sociale novecentesca e delle categorie politiche ad essa collegate, fino alla costruzione di una identità democratica, che innesti le vecchie culture politiche di sinistra nel fecondo terreno del liberalismo democratico.*
- Il superamento dello storicismo, ben radicato in tutte le culture politiche del campo democratico, in favore di un più utile pragmatismo politico;
che si traduca naturamente nell’ idea di uno Stato non più mediatore tra forti blocchi sociali e redistributore di ricchezza, ma regolatore snello ed efficiente.
- La necessità della vocazione maggioritaria, quale espressione di una effettiva capacità di compredere le dinamiche economiche -e, conseguentemente, sociali- globali;
che si traduce poi in quella di recepire le istanze di strati sociali non tradizionalmente legati alla sinistra, e di attrarne il consenso. - La strutturazione di un Partito aperto, contrario ontologicamente al conservatorismo, e per conseguenza credibile e coerente nella proposta di riformare il Paese nel senso della innovazione, dell’ adeguamento competitivo al tipo di economia su cui il mondo poggia oggi.
- Il superamento del “complesso del tiranno”, ossia il passaggio a un sistema di governo in cui la leadership sia dotata della forza, nel proprio partito e quindi anche in sede di potere Esecutivo (numerosi gli accenni alle debolezze, su questo piano, dei Governi Prodi), necessaria per attuare il piano di riforme proposto.
* Quanto a questo, da cattolici democratici sentiamo l’esigenza, anche perchè direttamente “chiamati al compito” dagli autori, di un approfondimento, al fine di chiarire a noi stessi quali elementi, e quali autorevoli interpreti, appartenenti alla nostra cultura politica, siano in grado di collocarla positivamente dentro il XXI secolo e il suo complesso e multilaterale sistema di rapporti.
La credibilità della proposta, d’altro canto, appare un cruccio costante degli autori, e si pone trasversalmente sui due temi centrali (riforme politico-istituzionali, riforme economico-sociali): é alla mancanza di credibilità del Pd e delle sue leaderships che vengono attribuite le non vittorie elettorali; è alla mancanza di credibilità verso l’ estero che sono dovute molte delle difficoltà dell’ economia italiana (dall’ interesse verso il debito sovrano a quello per la redditività degli investimenti in genere); è alla mancanza di credibilità del sistema di welfare e del mercato, anche del lavoro, che il Paese risponde con comportamenti più orientati al conservatorismo che non alla innovazione.
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Eppure, e qui veniamo alla parte più squisitamente economica, proprio durante le crisi si aprono i margini per una emersione delle qualità migliori e spesso inespresse di una comunità. La maggiore disponibilità al cambiamento apre la strada ad un piano di riforme strutturali purchè tempestive.
Il momento sembrerebbe tutto sommato propizio: dato come un fatto acquisito il progressivo passaggio dall’ economia della produzione materiale a quella della conoscenza, fino al primato di questa su quella, appare chiaro che la fonte del plusvalore non è più nel lavoro necessario a produre il bene, ma in quello necessario a concepirlo; e che detenere e controllare ricchezza materiale dovrebbe essere in futuro meno vantaggioso rispetto alla gestione dei flussi immateriali.
Questo provoca, per chi è indietro come noi, la necessità di un adeguamento dei sistemi economici e produttivi e conseguentemente la premialità per i comportamenti e le scelte, a tutti i livelli, orientati verso l’innovazione.
Necessità, ma anche opportunità: la conoscenza, essendo per natura trasferibile senza perdita della proprietà, permetterebbe giochi a somma sempre positiva, quindi la realizzazione di scenari di crescita costante (Cohen, 2011). Ed è di crescita che abbiamo bisogno, come vedremo.
D’ altro canto, se la logica del cambiamento ha come fine ultimo quello di creare i presupposti concreti perchè aumentino le possibilità di salita nella scala sociale a vantaggio degli ultimi meritevoli, allora questo è forse un panorama nel quale anche i cattolici (iniziamo a mettere un mattoncino in tal senso) si possono riconoscere.
E del resto, saremmo in buona compagnia.
Un principio di cultura politica “neodemocratica” prende le mosse negli Stati Uniti dall’ iniziativa portata avanti da Barack Obama in occasione della sua candidatura alla Presidenza: proporsi come elaboratori e sperimentatori di un nuovo paradigma economico, rinunciando all’ idea che l’uscita dalla crisi potesse attuarsi con il ritorno a una impostazione socialdemocratica.
Concretamente, si trattava di agire lungo le due “linee di faglia” individuate da Raghuram Rajan, sviluppatesi all’ interno del modello neoconservatore e prodotte dal suo assunto di base, che cioè sia la disuguaglianza il motore dello sviluppo.
Due macroscopiche situazioni di squilibrio che sarebbero state alla base, ben più in profondità rispetto all’ esplosione della bolla speculativa, della crisi:
1) la crescente disuguaglianza nei redditi USA e la spinta da questa determinata verso il credito facile, usato dai governi come palliativo;
2) il gigantesco squilibrio tra Paesi creditori e Paesi debitori, che ha raggiunto un punto di rottura (crisi, appunto) quando il valore degli immobili negli USA, Paese al centro dell’ intera costruzione mondiale della crescita spinta dal debito, ha iniziato a diminuire.
Questa costruzione, basata sul fatto che i Paesi più ricchi siano indebitati con i Paesi più poveri, tradottasi all’ interno dei Paesi ricchi nei mutui c.d. subprime, concessi cioè a debitori non affidabili, avrebbe così colpito al cuore un meccanismo che produceva crescita accumulando debito.
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Squilibrio, quello tra economie indebitate ed economie in surplus, macroscopicamente riprodotto all’interno dell’ Unione Europea e dell’ Eurozona in particolare. Con l’aggravante di non poter contare nè sugli strumenti tecnici, nè sulle potestà politiche, necessari per governarlo.
Bloccata tanto dall’ incapacità tedesca di assumere un ruolo di “egemonia responsabile” e dalla miopia ordoliberista dei governi germanici (circostanze segnalate sia da Tommaso Padoa Schioppa che da Mattijs e Blyth), quanto dall’ irresponsabilità dei Paesi mediterranei in materia di conti pubblici, l’ Europa a guida tedesca non ha saputo che imporre meccanicamente i rigidi vincoli di cui disponeva, pur essendo evidente che il non riuscire a porre in essere misure anticicliche avrebbe strozzato i Paesi in difficoltà.
Miopia ed egoismo nazional-liberalista: non facendo distinzione tra paesi virtuosi e non virtuosi, la “teoria della casa in ordine” (secondo la definizione di Padoa-Schioppa) ha impedito che il surplus dei Paesi virtuosi si trasferisse agli altri.
Cosa si poteva (e si può ancora) fare?
Un mercato per i prodotti dei Paesi meno competitivi; prestiti anticiclici a lungo termine; tassi di cambio stabili; coordinamento macroeconomico; e prestiti di ultima istanza durate le crisi finanziarie, sono i campi sui quali sia a Berlino che a Roma si è drammaticamente fallito, da posizioni diametralmente opposte.
E poi un nuovo compromesso che scambi politicamente, sul piano della finanza pubblica, il rigore fiscale col sostegno nel rientro dal debito eccessivo.
Ed ancora, il confronto sulle reciproche paure (è l’idea di chi scrive), insieme all’ incontro e la fusione delle ragioni dei Paesi del Nord (c.d. Lega Anseatica) e del Sud (le Repubbliche dell’ Ulivo, nella definizione di Kotkin), è la sola possibilità che l’ Europa ha di uscire dalle difficoltà strutturali da cui è percorsa.
A proposito di austerity e di politiche anticicliche, poniamo poi un quesito al nostro autore, a partire da un rapporto del FMI di un paio di anni fa, a proposito degli effetti recessivi del taglio della spesa pubblica: che nel corso di una recessione risulterebbe essere particolarmente pesante.
Il working paper analizzava separatemente Francia e Italia, dando risultati recessivi più contenuti nel caso italiano (diminuzione del PIL dall’1,4% all’ 1,8% a fronte di una media dell’ Eurozona del 2,56%). A cosa è dovuta questa differenza?
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Veniamo così all’ Italia: la cui particolare situazione di crisi presenta tre componenti: troppe disuguaglianze, scarsa crescita ed eccesso di debito pubblico.
Ognuna delle quali è alla base del determinarsi e dell’aggravarsi delle altre due.
In particolare, il debito pubblico, è: troppo grande (in assoluto, e come percentuale rispetto al PIL) in gran parte “cattivo” (perchè contratto per finanziare la spesa corrente e non gli investimenti), e rischioso, per ragioni legate alla crisi dell’ Euro e dei debiti sovrani.
Se la revisione integrale della spesa pubblica è per i riformisti la madre di tutte le riforme (per la credibilità politica, per la crescita della produttività, per ridurre il prelievo fiscale), chiediamo allora all’ autore di scendere in profondità nelle tre mosse proposte per l’abbattimento del debito pubblico, vale a dire: 1) pareggio di bilancio strutturale in tempi medi e immediata ricostituzione di un significativo avanzo primario;
2) utilizzo (vendita e valorizzazione) del patrimonio pubblico;
3) imposta straordinaria a carico del 10% delle famiglie italiane che detengono il 46% della ricchezza patrimoniale.
Quanto alla prima, e all’ idea (sensata) di un allineamento con i livelli medi di spesa pubblica per le istituzioni nei quattro più grandi Paesi Europei, chiedo se sia possibile svolgere analoga operazione dal punto di vista dell’ imposizione fiscale, diretta ed indiretta.
Al centro dell’ architettura riformatrice proposta, tra la riduzione del debito pubblico e la revisione della spesa da una parte, e la maggiore mobilità sociale (auspicabilmente volta alla riduzione delle disuguaglianze) dall’ altra, c’è la crescita, senza la quale non è possibile realizzare nè le une nè le altre.
E’ del resto il FMI a dire: «Osserviamo che periodi di crescita più lunghi si associano fortemente a una distribuzione del reddito più egualitaria. Su orizzonti più lunghi, una riduzione della disuguaglianza e una crescita sostenuta potrebbero essere quindi i due lati della stessa medaglia».
E tuttavia, nel contesto dato, il denaro necessario per la crescita non può essere pubblico, ma deve essere privato: in poche parole, occorre facilitare la mobilitazione di capitali privati, interni ed esteri, verso le imprese italiane: particolarmente stimolante ci pare, in merito, l’idea che possa partire dall’ Italia, dalle sue sensibilità e dalle sue positive peculiarità, la progettazione di un ben regolato mercato di capitali per le PMI.
Molti sono i campi d’azione nei quali si ritiene di dover agire in profondità a questo proposito:
l’ istruzione; la ricerca e l’innovazione; la concorrenza e l’ aumento della produttività; il livello qualitativo delle prestazioni della Pubblica Amministrazione; la costruzione di infrastrutture materiali e immateriali al servizio dello sviluppo del Paese.
E ancora, lo spostamento della pressione fiscale dai produttori ai titolari di rendite; la riduzione della spesa pubblica sui capitoli che meno impattano sulla domanda.
Tutto ciò si traduce, com’è spiegato, nella preparazione di una sorta di Agenda 2020 per l’Italia, che preveda un piano organico e temporalmente ben cadenzato, di riforme strutturali volte ad aumentare la competitività del sistema-Paese, attraendo così investimenti e sviluppando grazie ad essi la crescita. A partire dall’ idea della innovazione come nuovo motore della prosperità (Enrico Moretti).
Lodevole e lungimirante è poi la volontà di scommettere sulle tante aree delle potenzialità inespresse, dal lavoro giovanile e femminile, all’ immigrazione “buona”, ai campi dell’ energia e dell’ ambiente.
Fino alla ormai secolare sfida su come fare del Sud un importante motore dell’ economia del Paese anzichè un problema.
Se di crescita parliamo, infatti, il Sud ha dotazioni su cui fondare una strategia di ripresa: i beni culturali e ambientali; le conoscenze scientifiche in università e centri di ricerca; milioni di giovani, che hanno investito sulla loro formazione; il saper fare legato ad antiche vocazioni del territorio.
Così come, sempre a proposito di potenzialità inespresse, nel quadro della suggestiva alleanza tra la comunità della cura e quella dell’ operosità (Bonomi, 2010), orgogliosamente riteniamo che quella particolare versione dello stato sociale all’ italiana abbia tanto da dire e da insegnare nel compito di rafforzare e migliorare il sistema di welfare europeo.
5.
Al termine dell’ introduzione all’ impegnativo tema di oggi, vogliamo però tornare, per concludere, su un piano più squisitamente politico e culturale.
Perchè a un certo punto della storia si renderà necessario fare i conti con il doloroso passato che, da qualche tempo, stiamo costruendo, e con il quale ci stiamo confrontando.
Passato, perchè nello sforzo di responsabilità, politica, economica e sociale che i cittadini italiani e quelli europei sono chiamati a fare, c’è, e non può non esserci, la pretesa che si sia fatto un lavoro necessario ma efficace, quindi destinato a passare.
Un passato fatto di vittime (nel senso proprio del termine) della crisi economica, di martiri della salvezza dell’ Eurozona, di sacrificati sull’ altare dei conti pubblici, di esodati, di imprenditori suicidi per la disperazione o la vergogna, di milioni di famiglie la cui modesta routine è stata sconvolta dalla crisi, di uomini maschi di cui nessuno parla ma la cui improvvisa inutilità lavorativa è diventata inutilità sociale, familiare, relazionale, interiore.
I cambiamenti che avvengono sulla pelle dei milioni di italiani che hanno investito decenni del proprio lavoro e del proprio studio, e di quello dei propri figli e nipoti, in una direzione, e si trovano a dover fare i conti con un “mutamento del paradigma economico”, che vanifica i loro sforzi e li costringe a una competitività e una riconversione che non possono darsi da soli, nè inventarsi, per quanto necessari, non possono essere tracciati a tavolino, e una volta per sempre: richiedono la presenza attiva, costante, e sensibile, della politica nella società, a partire dagli uomini e dai partiti di governo.
Trascrizione della relazione di Enrico Morando
Prima di tutto vi ringrazio per avermi invitato. Abbiamo finito ieri sera il lavoro sulla legge di stabilità, quindi non è detto che questa mattina per me sia una mattina di particolarissima lucidità; diciamo che sono 15 giorni che al massimo dormo due o tre ore per notte quindi spero di non essere troppo al di sotto delle aspettative. Sono venuto molto volentieri perché qui si sente, ci sono già stato, lo sforzo di capire e lo sforzo di progettare, quindi è un posto dove mi trovo a mio agio.
Capire prima di tutto. Io sostengo che, andando all’essenziale, oggi l’alternativa vera in campo sul piano politico è quella tra riformisti e populisti; i riformisti sono quelli che cercano le cause dei problemi economici, sociali, istituzionali che abbiamo di fronte e sviluppano una iniziativa per rimuovere quelle cause e per questa via cercando soluzioni strutturali ai problemi. I populisti sono quelli che lavorano sugli stessi problemi perché sono abili nella intuizione e nell’analisi dei problemi aperti, ma loro cercano dei colpevoli, non delle cause, illudendo che basti rimuovere il colpevole, colpire il colpevole, per risolvere i problemi. I populisti ce l’hanno più facile il rapporto immediato con la popolazione, i riformisti sono più affidabili: hanno un problema di costruzione del consenso per le proprie strategie perché l’agitazione è più facile se si ha un approccio da populisti; questo è noto.
L’economia dopo la crisi. Secondo me, per parlarne non da populisti ma da riformisti, bisogna cercare di capire bene da dove nasce la crisi. Ora, sinceramente non credo di fare molto meglio di quello che è già stato fatto per riassumere le mie opinioni, le opinioni che mi sono fatte leggendo e cercando di capire le cose che vedo intorno a me. Ma io per l’essenziale la vedo così: certo la crisi, quella scoppiata nel 2007-2008, ha una causa contingente, la pistolettata di Sarajevo c’è sempre, in tutte le grandi crisi c’è un fattore contingente, come ci insegnavano una volta in quinta elementare, adesso non so in quale classe spiegano le guerre, diciamo, tra le cause contingenti e le cause profonde: io le ho imparate in quinta elementare. La pistolettata di Sarajevo, lo sapete, è stata l’esplosione come è stato citato, della bolla immobiliare negli Stati Uniti America, che poi ha preso il nome di crisi dei mutui subprime, I mutui subprime erano mutui concessi a persone che non potevano permettersi di pagarli, questa è la sostanza.
La bolla immobiliare in cosa consisteva? In un andamento dei prezzi degli immobili che negli Stati Uniti è cresciuto per circa 13 anni ininterrottamente a un ritmo medio del 6-7% l’anno, ogni anno rispetto all’anno precedente, quindi un aumento della ricchezza patrimoniale cresciuta attraverso la bolla veramente impressionante con pochi precedenti nella storia del capitalismo che noi conosciamo. Ma questa è la pistolettata di Sarajevo. Le cause di fondo, secondo me, sono due e sono già state citate. La prima è quella del determinarsi nel tempo progressivamente e dell’accrescersi progressivo di uno squilibrio globale che ha i suoi due, diciamo, migliori esponenti da una parte negli Stati Uniti d’America e dall’altra nella Cina, tra paesi con un enorme disavanzo commerciale che, per dirla con un linguaggio da bar, significa che importano molto più di quello che esportano sostanzialmente e quindi con un conseguente disavanzo enorme della bilancia dei pagamenti correnti, cioè delle relazioni tra quel paese e il resto del mondo, e i paesi con un enorme avanzo commerciale che significa che esportano molto più di quello che importano. E il paese che viene immediatamente in mente a questo proposito è la Cina anche se quantitativamente, come vedremo, l’avanzo commerciale della Germania, in rapporto al suo prodotto interno lordo è addirittura, non lo dice mai nessuno perché non è politicamente corretto, ma è più grande di quello cinese, il che spiega, a mio parere, poi lo vedremo, molto della crisi cosiddetta dell’area dell’euro.
In realtà, le cose sono semplici: per molto tempo questi due squilibri, che secondo la teoria economica, non importa quale, non sono sostenibili a lungo nel tempo, cioè un eccesso di avanzo commerciale e un eccesso di disavanzo commerciale, per molto tempo questi due squilibri si sono sostenuti reciprocamente, montando bolle, naturalmente. È inesorabile. Cosa vuol dire: si sono sostenute reciprocamente? Vuol dire che negli Stati Uniti, malgrado il reddito della grande massa della popolazione diminuisse sostanzialmente, rispetto alla fase precedente, l’importazione di prodotti dal resto del mondo, e in particolare dalla grande manifattura del mondo che è diventata la Cina, a bassissimo prezzo, ha consentito naturalmente di contenere le conseguenze economiche, di fatto, della staticità se non addirittura della riduzione dei redditi della classe media e della parte più debole sotto il profilo reddituale della popolazione, mentre pacificamente la gestione del dollaro, come grande moneta di riferimento da parte degli Stati Uniti, ha consentito di contenere gli effetti negativi che di solito si manifestano quando hai un eccesso di disavanzo commerciale. E naturalmente per la Cina questo disavanzo degli Stati Uniti è stata una delle molle fondamentali del loro sviluppo perché hanno potuto diventare la manifattura del mondo, assieme ad altri paesi.
Intendiamoci, adesso io sto estremizzando un po’ i due paesi limite perché questo spiega le loro relazioni che si sono sviluppate con questi due squilibri che si sostenevano reciprocamente. Quando naturalmente è scoppiata la bolla sugli immobili negli Stati Uniti questo equilibrio dei disequilibri, questo reciproco sostegno tendenzialmente ha subito uno scrollone gigantesco con le conseguenze che abbiamo visto. Questa è la prima causa, lo squilibrio eccessivo di bilancia commerciale che naturalmente ha a che fare con moltissimi altri problemi. Lo so che se ci fosse, se c’è qui, un esperto economista, dice va beh adesso stai citando una cosa ma ce ne sono tantissime altre che devono essere associate, ma in fondo stanno tutte dentro alla definizione di questi due squilibri fondamentali.
La seconda causa fondamentale è invece interna ai paesi industriali avanzati ed è l’eccesso di disuguaglianza: la lunga fase del miracolo economico susseguita alla Seconda guerra mondiale è stata caratterizzata da un paradigma fondato sul fatto che la produzione poteva crescere, cioè c’era crescita di produzione, di prodotto e di reddito, naturalmente, in rapporto a una situazione nella quale la grande massa dei produttori poteva consentirsi, a causa del crescere del reddito, di comperare le cose che produceva, per questa via sostanzialmente alimentando attraverso un processo di progressivo avvicinamento tra il livello del reddito medio dei produttori, dei lavoratori e il reddito del vertice della scala sociale, diciamo, 14, 15, 12 volte, grosso modo, il livello più basso di reddito di un produttore, cioè di una persona che avesse occupazione, lavoro e quindi, diciamo, che stesse nella società in modo dinamico, e la parte che aveva di più, che aveva un reddito più elevato: distanze grandissime, ma non enormi, anzi in progressiva fase di riduzione.
Dei fattori oggettivi e delle scelte politiche, perché ci sono state scelte politiche che hanno mosso le cose in questa direzione, hanno determinato invece, da un certo momento in poi, diciamo da metà degli anni Ottanta, progressivamente, invece, la dilatazione del divario tra chi sta molto bene e la grande massa dei produttori, diciamo delle persone che hanno un reddito, che lavorano, ma hanno visto il loro reddito progressivamente diventare stazionario. E come è stato appena detto, citando una frase di un documento del Fondo Monetario Internazionale, ormai è chiaro: questo eccesso di disuguaglianza ha effetti depressivi sulla domanda e quindi ha effetti depressivi sull’economia. Il paradigma conservatore della signora Thatcher, “la società non esiste, esistono solo gli individui”, fondato patentemente sull’idea che la disuguaglianza fosse l’elemento dinamico, naturalmente era una risposta; intendiamoci, una risposta di fronte alla quale la sinistra del mondo non è stata all’altezza ed è per questo che i conservatori hanno vinto, ma era una risposta che progressivamente ha mostrato la corda fino ad arrivare appunto alla esplosione della crisi.
C’è però da dire che a fronte dell’emergere del come mai se questo fatto è diventato evidente progressivamente dalla metà degli anni Ottanta fino a esplodere verso l’inizio del nuovo secolo, cioè questo eccesso di disuguaglianza determina problemi dal lato della domanda e quindi problemi anche sul versante della crescita, come mai negli Stati Uniti, cioè il paese guida, non si è riusciti ad affrontare il tema, non c’è stata una crisi devastante? Perché per fare fronte alle conseguenze negative dell’eccesso di disuguaglianza si è fatto ricorso a un’ennesima bolla, cioè si è montata la bolla del debito, il denaro che non costa niente, e la casa che ogni anno vale il 10% in più di quello che valeva l’anno prima. Cioè, quei consumi che prima venivano alimentati nel processo di progressiva eguaglianza, venivano alimentati dalla crescita del reddito, sono stati alimentati da un lato dalla crescita della rendita, se sei padrone di casa puoi consumare anche a credito tanto l’aumento del prezzo delle cose che hai ti consentirà di spendere di più malgrado il tuo reddito non cresca, e per fare questo ci volevano tassi bassissimi, e infatti i tassi di interesse sono stati bassissimi, l’unica cosa che costava poco era il denaro: si è così montata la bolla del debito, del debito privato, prima ancora, e negli Stati Uniti in assoluto, del debito privato, non del debito pubblico che non era affatto particolarmente grande.
Sapete che è qui che nasce il mutuo subprime, cioè è qui che nasce il mutuo per comperare una casa dato a una persona che patentemente non ha il reddito per pagare le rate, nel presupposto che il proseguo della bolla speculativa gli dia la rendita necessaria per continuare a pagare il mutuo. Sapete che si facevano mutui per un valore superiore a quello del bene comperato, del patrimonio comperato attraverso quel mutuo, sapete che noi in Italia queste cose non le abbiamo mai fatte per la verità, al massimo si arrivava a un mutuo dato per l’80% del valore dell’appartamento comperato che in Italia è tendenzialmente un’eccezione anche se durante quella fase queste eccezioni erano piuttosto, diciamo così, numerose, ma di solito si stava un po’ al di sotto. Negli Stati Uniti si è arrivati a fare diffusamente mutui al 120% del valore dell’appartamento nel presupposto che nel termine di 2-3 anni quel 120 sarebbe diventato il valore del patrimonio e che quindi il soggetto avrebbe potuto permettersi, passati i primi anni, di pagare abbastanza tranquillamente il mutuo e di rivendere la casa facendo un altro mutuo e con quel 120 nel frattempo comperava anche la macchina, oltre l’appartamento.
Questo è un fenomeno attraverso il quale la progressiva eguaglianza del reddito che ha animato l’economia della fase successiva alla fine della Seconda guerra mondiale, è stata sostituita dall’economia dinamica alimentata dal debito privato. Ora, in Europa, d’accordo, Cina e Stati Uniti nell’economia globale, ma in Europa abbiamo avuto delle cause specifiche? Sì e no, perché secondo me anche in Europa, per l’essenziale, le cause fondamentali sono le stesse. Anche in questo caso ci sono fattori che possono essere considerati la pistolettata di Sarajevo: i conti volutamente falsi della Grecia sono la pistolettata di Sarajevo in Europa, tra virgolette, ma non si può seriamente sostenere che nasca di lì la crisi nella quale noi siamo precipitati anche in Europa qualche anno dopo l’esplosione della crisi dei mutui subprime. Per l’essenziale infatti in Europa il problema è identico.
Le cause fondamentali sono queste due seppure in una versione diversa: squilibrio delle bilance commerciali. L’Europa offre l’esempio di due paesi, di cui uno addirittura è più emblematico di quello tra Cina e Stati Uniti, perché la Germania, come ho già detto, anche grazie alle sue virtù… perché ci dobbiamo intendere una buona volta su questa benedetta Germania: cioè, non è che sono arrivati lì ad avere questo avanzo commerciale perché qualcuno dall’alto così ha deciso e ha fatto un miracolo; loro hanno un gigantesco avanzo commerciale, una capacità di esportare spaventosa, una capacità competitiva enorme. Là, in Germania hanno fatto le riforme, riforme strutturali. Il governo rosso-verde di Schröder-Fisher ha cambiato la Germania, ha cambiato lo stato sociale, ha cambiato le relazioni contrattuali, ha cambiato le politiche, diciamo, strategiche in fatto di infrastrutturazione materiale e immateriale, ha cambiato la scuola: hanno fatto riforme strutturali. La Germania che nei primi anni Duemila era la grande malata d’Europa, così erano i titoli, questo fu il titolo di una copertina famosa dell’Economist, la grande malata d’Europa, nel 2010, realizzata agenda 2010, la Germania si era messa in grado di tornare a competere. E la Germania ha un avanzo commerciale pari al 7% del Prodotto interno lordo, la Cina ha un avanzo commerciale del 5,5%. 7% di avanzo commerciale è un dato impressionante e la Germania ce l’ha da anni, cioè ha un’enorme capacità di produrre e di esportare. E in Cina, con la dittatura del Partito comunista, succede questo: tengono volutamente basso, in rapporto al rapporto di sviluppo raggiunto, il livello dei consumi e la domanda interna. In Germania, naturalmente non con la dittatura, perché sono una democrazia tra le più avanzate del mondo, ma attraverso un’azione di concertazione sociale che vede tutti gli attori fondamentali, comprese le due grandi forze tra di loro alternative che stanno governando assieme da 10 anni, perché non sarà mica un caso nemmeno questo, naturalmente, tengono, orientano la loro economia all’esportazione e lo fanno anche, diciamo, distribuendo sul versante del mercato interno una quota del vantaggio così acquisito, ma facendolo con grande parsimonia. Tradotto nel linguaggio da bar, i consumi interni della Germania, la domanda aggregata interna della Germania, è decisamente troppo bassa rispetto a quello che sarebbe necessario, il che naturalmente aumenta questo squilibro.
La Grecia, ripeto, che prendo come paese limite e non come causa del problema, la Grecia si trovava al momento dell’esplosione della crisi in una situazione drammatica per il contrario: il disavanzo commerciale della Grecia nel 2008 superava il 20% del Prodotto interno lordo, cioè una situazione considerata da tutti gli economisti, non importa di quale scuola, assolutamente insostenibile, totalmente. Però, se ci pensate un attimo, anche qui i due estremi si sono sostenuti reciprocamente per un sacco di tempo. Dall’inizio dell’area dell’euro, cioè dalla fine degli anni Novanta-inizio anni Duemila, hanno cominciato a sostenersi reciprocamente questi due squilibri. Poi, tutti i paesi europei li potete collocare in una scala: da una parte, in alto, c’è la Germania, dall’altra, in basso, c’è la Grecia, tutti gli altri stanno nel mezzo con livelli di squilibrio spostati da una parte o dall’altra. Ma se considerate i due estremi vedete bene che, per lungo tempo, è stato il bengodi di entrambi. Perché? Ma per una ragione molto semplice: perché i tedeschi, se avevano un po’ di risparmio, e non ne avevano un po’, ne avevano una quantità assolutamente abnorme perché ogni anno avevano un avanzo commerciale del 7%, vuol dire che in Germania ci sono dei soldi, se no sembra un linguaggio astruso, ci sono dei soldi accumulati progressivamente grazie alle relazioni con l’esterno, con tutto il resto del mondo, che sono lì e vanno alla ricerca di un impiego. Se si impiegavano in Germania, il tasso di interesse…, la cosa più banale: se comperavano un titolo, se uno ha un po’ di risparmio in Germania compera un titolo di stato, va già bene se non gli chiedevano dei soldi per venderglielo, non che gli davano l’interesse, zero virgola… Adesso sono arrivati appunto a farsi pagare, siamo entrati anche noi nel novero di quelli, a farsi pagare per dare un titolo di debito pubblico. Quindi i tedeschi praticamente, quando impiegavano il loro denaro nell’acquisto di un debito pubblico non ricevevano niente. Se portavano nella stessa area monetaria possibilità di circolazione perfetta, tutto legale, tutto a posto, tutto tranquillo, nessuno ha commesso illegalità nel fare questo, comperavano un titolo di debito greco che rendeva improvvisamente, nel momento in cui si fa l’euro, improvvisamente rende meno, molto meno di un quarto di quello che rendeva fino a qualche anno prima, perché fino a qualche anno prima il titolo rendeva il 13-15%dl tasso di interesse, il titolo rendeva il 3 o 4%, ma il 3 o 4 rispetto allo zero virgola è pur sempre una enormità.
Per i greci era un sogno e per i tedeschi un sogno al contrario nel senso che vado là, li porto là invece che qua, sicuri uguali perché c’è l’euro, che problema c’è? Eccetera, eccetera. Ed ecco che il capitale, tra virgolette, il risparmio creato dall’avanzo commerciale enorme dei tedeschi andava in Grecia. I greci che avevano pagato i soldi fino a poco prima il 13-14%, vederseli arrivare così al 3%, al 3 e mezzo, al 2 e mezzo, dicono: qui è arrivata la befana praticamente, è la felicità. Per di più, se in Grecia uno vuole comperare una macchina un po’ buona che macchina compera? Lo sappiamo tutti chi è che fa le macchine buone, è successo l’incidente, ma allora non era ancora successo e in ogni caso le macchine tedesche obiettivamente sono considerate, e secondo me sono considerate perché lo sono anche se io sono un ignorante in materia, le più affidabili, le migliori, in ogni caso quelle che costano di più. I tedeschi producevano le loro macchine ed erano felicissimi di venderle ai greci che se le comperavano a debito felicissimi perché quel debito costava molto meno della metà di quello che costava prima. I due squilibri che si sostengono.
Naturalmente, come è arrivata da oltre Atlantico l’aria della crisi, cosa hanno fatto i capitali? Io dico sempre che il capitale è codardo, cioè il capitale se la situazione è tranquilla, cerca rendimento: se la situazione è a rischio globale basso, va dove trova un rendimento migliore. In Grecia trovava un rendimento 4, perché doveva andare in Germania a rendimento zero? Andava in Grecia. Ma quando il clima non è stabile immediatamente il capitale se ne fotte del rendimento e va a cercare la sicurezza, la tranquillità. Ecco, il ritiro, il grande ritiro dei capitali dai paesi in disavanzo, quindi esplosione del nodo del debito, del debito privato e del debito pubblico. In Europa rispetto agli Stati Uniti il debito pubblico, già di suo …..noi abbiamo lo stato sociale strutturato quindi noi abbiamo un debito pubblico strutturalmente molto più alto di quello dei paesi anglosassoni perché abbiamo lo stato sociale organizzato secondo il modello interventista, diverso e quindi il debito pubblico già alto che è immediatamente diventato molto più alto. Pensate al paradosso dell’Irlanda che aveva un debito pubblico prima della crisi per cui i parametri… L’Irlanda prima dell’esplosione della crisi aveva un debito pubblico del 36% del Prodotto interno lordo cioè vicino alla metà di quello previsto dal trattato di Maastricht. Se non che le banche irlandesi, esplosa la crisi dei mutui subprime dopo due giorni sono state interamente nazionalizzate perché erano tutte fallite se le lasciavi andare. Salvate come? Salvate con i soldi dei contribuenti naturalmente, quindi il debito pubblico irlandese che era al 36% dopo un anno dall’esplosione della crisi era sopra il 125% del Prodotto interno lordo, 126 mi pare, adesso non mi ricordo più. Immediatamente perché? Perché il debito privato delle banche è diventato tutto debito pubblico per ragioni ovvie, quindi esplosione della crisi del debito.
Come vedete quindi lo squilibrio di bilancia commerciale che, ripeto, riassume in sé una quantità enorme di dati che riguardano il livello dell’occupazione, il livello dei prezzi e così via, è la causa anche della crisi europea così come, a mio avviso, la caduta della domanda aggregata, determinata dalla crisi, dalla staticità dei redditi medi, e in qualche caso dalla caduta dei redditi medi in Europa, è a sua volta un’altra delle cause, la seconda delle cause fondamentali della crisi europea.
Anche in Europa il fenomeno della disuguaglianza crescente, determinata dal fatto che i redditi di chi stava molto meglio non sono caduti o non hanno avuto la stessa staticità dei redditi del ceto medio basso, anche in Europa questo ha determinato, ha avuto un effetto sulla crisi, sull’economia, nel senso depressivo, anche se la dimensione del fenomeno della disuguaglianza crescente in Europa non ha… Quando sento descrivere l’Europa come se fosse gli Stati Uniti da questo punto di vista, dico questa è propaganda mal fatta perché il fenomeno c’è ma naturalmente non è comparabile per dimensioni a quello degli Stati Uniti d’America. Il che non toglie che questo fenomeno ci sia, naturalmente.
Questa situazione in Europa è stata aggravata dall’orientamento di fondo della politica economica fiscale dell’Unione Europea perché c’è in realtà un orientamento di politica economica fiscale della Unione Europea: e questo orientamento ha fatto da moltiplicatore della crisi invece che, diciamo, da strumento per attutirne l’impatto. Malgrado si senta dire, come cosa ovvia, qui i liberisti, qui in Europa i liberisti c’entrano poco, diciamo la verità. La Merkel non è liberista, la Merkel ha un orientamento di politica economica che è di tipo tradizionale tedesco, si può definire ordoliberale, per usare l’espressione caratteristica di quell’ orientamento, diciamo che descrive meglio quell’orientamento, e che, tradotto in un linguaggio da bar, se no ci vuole mezz’ora, è grosso modo: sentite, teniamo a posto le cose, ecco questo “ordo”, teniamo a posto le cose perché se le cose non le teniamo a posto, dal debito pubblico alle relazioni sociali, ai rapporti sindacali, cerchiamo di capirci, cioè stiamo in situazione di sostanziale equilibrio: i sindacati sappiano che quando le cose vanno un po’ così così non si possono mettere a fare i matti sul salario, però in azienda li facciamo partecipare perché devono avere voce in capitolo sulle scelte, perché se non li facciamo partecipare poi come li convinciamo a tenere basso il reddito. Adesso io la sto mettendo un po’ facile ma la sostanza culturalmente è questa. E quindi, teniamo in ordine le cose e cerchiamo di vendere i nostri prodotti agli altri.
Questa è la ricetta, per cui i tedeschi sono sinceramente convinti che tutta l’Europa possa fare così. Ma è un convincimento privo di senso, se ci pensate un attimo, è completamente privo di senso perché la Germania, 80 milioni di abitanti, già determina degli squilibri piuttosto consistenti. Badate, non è un caso che il presidente degli Stati Uniti d’America, non un paese dell’Europa, nei G20 degli ultimi tre anni per prima cosa come fattore di squilibrio segnali la bilancia commerciale della Germania, perché è un fattore di squilibrio globale il fatto che 80 milioni di abitanti a quel livello di sviluppo abbiano un avanzo commerciale del 7% del prodotto ogni anno rispetto all’anno precedente, e se non è il 7 è il 6, se non è il 7 è il 7,1, cioè è una cosa che cresce e che cresce nel tempo. Ma, soprattutto, già la Germania è tanto che abbia un avanzo commerciale così, ma come sarebbe possibile che l’intera area europea… per un attimo ammettiamo che l’intera area europea di 400 milioni di abitanti pretendesse di fare la stessa cosa. E a chi la vendiamo nel mondo questa roba, cioè non c’è la domanda per organizzare un’offerta modello tedesco. Cioè, bisogna per forza che lo squilibrio venga ridotto perché certo le esportazioni sono una componente fondamentale della domanda aggregata di ogni singolo paese, quindi se fossimo un unico paese avremmo bisogno, ovviamente come Unione Europea, di avere un rapporto con il mondo che preveda una nostra forte presenza nel campo dell’esportazione, ma noi dovremmo grosso modo bilanciare quella presenza attraverso uno sviluppo della domanda interna che faccia sì che gli altri paesi del mondo ci diano il loro prodotto perché altrimenti lo squilibrio globale cresce fino a determinare una esplosione.
Le esplosioni sono dalle guerre in giù: la storia l’abbiamo visto come risolve questi problemi: dalle grandi crisi economiche globali fino alla guerra come soluzione della crisi economica, è andata così strutturalmente. Quindi, siccome per ora non abbiamo possibilità di esportare su Marte, non escludiamo ma per ora non è possibile, è chiaro che il modello tedesco che funziona, e nessuno dice che non funziona, è un fattore di forza per l’Europa se naturalmente si compenetra, si riduce attraverso un superamento degli squilibri.
Questa situazione è stata aggravata naturalmente dalla pretesa tedesca, dall’incapacità tedesca di esercitare un’egemonia nel senso di rendersi conto che il suo modello non è applicabile per tutta l’Europa e che quindi era necessario, in particolare, agire sulla domanda interna tedesca, svilupparla, esattamente come è necessario agire sulla domanda interna cinese, ma là, in Cina, provoca il problema della democrazia. Anche qui, non è per farla troppo semplice, ma la sostanza è semplice. Se tu in Cina sviluppi i consumi interni, fai lo stato sociale, dai la pensione alla gente, tu in Cina non puoi pretendere di continuare con la dittatura politica; nella società il dinamismo provoca una certa domanda di libertà, di democrazia, di libertà di espressione e così via che sarà anche compatibile per un po’ di tempo con il fatto che c’è un partito unico al governo, ma dopo un po’ pone un problema di una tale dialettica dentro quel partito che è come se ce ne fossero più d’uno.
Da noi in Europa non abbiamo questo problema ma certo c’è il problema dello sviluppo della domanda interna tedesca perché la soluzione della crisi, prendiamo sempre Germania e Grecia, la soluzione della crisi sta nel fatto che da un lato la domanda interna tedesca cresca, e cresca la domanda di tutti i paesi che stanno in avanzo commerciale, soprattutto nel centro-nord d’Europa, e che però contemporaneamente Grecia, e paesi che sono in condizioni non come la Grecia ma comunque in disavanzo grave, facciano riforme interne per, da un lato mettere a posto i conti pubblici, aiutati a far questo naturalmente da prestiti che sono inesorabili, e contemporaneamente accrescano le loro capacità competitive. Lì c’è un problema di produttività da risolvere: la produttività di quei paesi è troppo bassa e la pretesa di trasformare la propria incapacità in ingiustizia divina, perché a un certo punto con Varoufakis sembrava che fosse, diciamo, la cattiva volontà del mondo che si concentrava sulla buona Grecia che aveva fatto tutto quello che poteva. Le cose non stanno così, è chiaro che la Grecia, lo dico come paese limite, deve accrescere le proprie capacità competitive, sviluppando le potenzialità che ha, aiutata da riforme strutturali che la mettano in grado di farlo.
Ora in Europa, aggiungeteci….., poi termino anche se, come vedete, la descrizione secondo me corretta delle cause induce pressoché automaticamente alla definizione dei rimedi… In Europa, a differenza degli Stati Uniti, la difficoltà che sto descrivendo è stata aggravata dal fatto che noi abbiamo avuto, e per molti aspetti abbiamo ancora, un eccesso di divergenza tra la politica monetaria e la politica fiscale, cioè la politica economica e fiscale del governo. Questo in Europa è dovuto al fatto che noi abbiamo proprio uno statuto della Banca centrale diverso: il presidente Draghi sta muovendosi in maniera a mio giudizio straordinariamente abile su un filo molto sottile determinato dal fatto che mentre la Federal Reserve americana ha tra i suoi obiettivi fondamentali, oltre alla stabilità dei prezzi, cioè una inflazione non superiore al 2%, cosa che ha anche la BCE, anche il livello di disoccupazione come uno degli obiettivi a cui pensare attraverso la politica monetaria, la Banca Centrale Europea ha uno statuto univocamente rivolto a mantenere la stabilità dei prezzi. Come mai allora Draghi finalmente dopo tanta fatica è riuscito negli ultimi anni a imporre una politica monetaria ultraespansiva? Perché l’inflazione si è allontanata dal 2% che è il target, cioè l’obiettivo fissato dallo statuto, ma si è allontanata non verso l’alto, come eravamo abituati a constatare nel passato, ma si è allontanata verso il basso: il rischio della deflazione ha consentito alla Banca Centrale Europea di adottare una politica monetaria ultra-espansiva per riportare i prezzi a crescere sotto il 2%, ma vicino al 2% come dice lo statuto. Oggi sapete che malgrado la politica monetaria ultraespansiva adottata i prezzi sono ancora lontani dal crescere vicino al 2%, sono molto più vicini allo zero che non vicini al 2%.
Qui faccio solo una constatazione brevissima poi vado rapidamente a concludere naturalmente, non vi voglio annoiare più di tanto. La deflazione… Diciamo meglio, i governi hanno imparato a governare il fenomeno della superinflazione, della iperinflazione cosiddetta, in modo piuttosto efficace. Cioè, cosa fare per impedire che l’iperinflazione si instauri in un’economia stabilmente si sa. E infatti le situazioni nelle quali l’iperinflazione si mantiene per lungo periodo le abbiamo avute, in Italia per esempio se vi ricordate fra la metà degli anni Settanta e la metà degli anni Ottanta abbiamo avuto iperinflazione, cioè inflazione superiore al 10% è iperinflazione, naturalmente, è un fenomeno estremamente negativo. E abbiamo imparato a governarlo.
I governi non sanno cosa fare, obiettivamente, perché nella storia non c’è un solo caso di rapido successo, mentre ci sono molti casi di rapido successo nel contrasto dell’iperinflazione. Adotti delle politiche monetarie, economiche e fiscali e l’inflazione scende quando è troppo alta. Quando hai nel sistema economico, Giappone, instaurata la deflazione, e cioè i prezzi non salgono più, e tendenzialmente si riducono, tu fai delle politiche e non succede niente: la politica monetaria e la politica fiscale del Giappone, ne parlano in pochi ma da un anno e mezzo a questa parte è una politica che in tutto il resto del mondo verrebbe considerata letteralmente folle, cioè politiche fiscali spendi senza tassa, non tassa e spendi come si diceva, no, spendi e basta, 200 virgola qualcosa di debito rispetto al Prodotto interno lordo, e politica monetaria ultraespansiva, il costo del denaro è negativo, se lo prendi ti do qualcosa: l’inflazione sta sotto il 2% pesantemente. Un po’ di successo c’è stato in ultimo, sembra che le cose forse, ma, ripeto, siamo di fronte a un caso limite che però dimostra questo fatto: i governi non sono perfettamente attrezzati perché non si sa bene che cosa fare per combattere la deflazione, un rischio mortale che noi stiamo correndo in questo momento.
Ma, dicevo, in Europa invece l’orientamento di fondo della politica economica e fiscale, quello ordoliberale, diciamo così, quello che vi ho già descritto, anche quando l’orientamento della politica monetaria è diventato ultraespansivo, la politica monetaria è diventata ultraespansiva ma l’orientamento di politica economica e fiscale è rimasto non dico restrittivo, ma comunque tendenzialmente contraddittorio; non è che il disavanzo commerciale tedesco è crollato, la domanda interna è cresciuta perché per ottenere il risultato ci volevano tutte e due queste cose che andavano verso un’unica direzione. Se invece da così al massimo siamo diventati così, paralleli, non funziona. Perché gli Stati Uniti hanno potuto avere un’aggressione dei dati di fondo della crisi più efficace? Perché Obama, il governo e la Fed hanno avuto un orientamento univoco e questo ha consentito agli Stati Uniti di accelerare la messa in atto delle politiche monetaria e fiscale per superare la crisi. In Europa questo non c’è stato e questo pone l’accento su cosa bisogna fare. Non c’è niente da fare, bisogna fare in modo che non solo l’orientamento di fondo della politica economica e fiscale europea cambi, ma bisogna che si costruiscano sedi per la definizione di questo orientamento perché noi di queste sedi adesso ce ne abbiamo un po’ di più di quanto non fosse prima, ma continuiamo a non avercele. Quindi ci vuole cessione di sovranità da parte degli stati membri sul versante della politica economica e fiscale verso la federazione europea da costruire.
Se queste sono le cause, cosa bisogna fare alla dimensione globale, alla dimensione europea e alla dimensione nazionale è abbastanza evidente. Il problema è se siamo capaci di farlo, se abbiamo la forza politica di fare questo, se le forze economiche e sociali hanno ciascuna un orientamento coerente, una disponibilità a comportarsi in modo coerente rispetto a quel che bisogna fare. Ma quello che bisogna fare è abbastanza evidente. Ci vuole una politica tale per cui i paesi in surplus aumentino drasticamente la domanda interna. Però questo solleva, ho già detto, problemi politici enormi, ma bisogna che accada questo, altrimenti non c’è soluzione ai problemi aperti.
Keynes, quando alla fine della Seconda guerra mondiale studiava (per la verità poi non gli diedero retta) i problemi per la costruzione di un sistema monetario stabile nel mondo, disse sostanzialmente una cosa: se volete che le monete abbiano un rapporto relativamente stabile, naturalmente con delle oscillazioni, ma le oscillazioni sono naturali e vanno bene, ma un rapporto stabile in maniera da non determinare squilibri giganteschi, dovete impedire squilibri di bilancia commerciale: Per cui, lui disse, i paesi in eccesso di disavanzo (Grecia, Stati Uniti) e i paesi in eccesso di avanzo devono essere puniti; bisogna che la comunità, che il sistema sia organizzato in modo tale che quell’eccesso di avanzo venga assorbito attraverso un coordinamento realizzato come adesso: loro si stavano preparando per la conferenza di Bretton Woods. Bretton Woods fu un grande fatto di governo mondiale, cioè si stabilì che c’era un sistema di relazioni tra le monete che seguiva una certa logica. Poi lui disse: dobbiamo organizzare un sistema in forza del quale quando c’è un eccesso di disavanzo o di avanzo c’è un intervento della comunità internazionale, previsto dal sistema, che lo riduca perché se lo lasciate alimentare determinerà uno scoppio, monterà una bolla inesorabilmente, quella bolla a un certo punto scoppierà e gli effetti saranno devastanti sull’intero sistema. Se vogliamo uscire dalla crisi bisogna che su questo lato, grosso modo attraverso l’azione di coordinamento, si creino le condizioni per superare gli eccessi di avanzo e di disavanzo.
L’Europa da questo punto di vista come è messa? È un paese in equilibrio? Non è vero che è un paese, ma se fosse un paese sarebbe in equilibrio e quindi l’Europa è in grado di dare un importantissimo contributo alla definizione di un coordinamento, e qui abbiamo degli strumenti ancora del tutto deboli che però dopo la crisi sono diventati più forti, checché se ne dica, come il G20 che non è il G8 inutile, è il G20 utile potenzialmente perché ci sono gli emergenti dentro. E avete visto che a dimostrazione del fatto che quando si stabiliscono fattori di instabilità poi anche i miracoli, quando sono fondati sull’eccesso disavanzo o avanzo, si interrompono: Brasile e Russia sono già entrati in recessione, la Cina cresce meno, l’unico paese dei BRICS (Brasile, Russia, India, Cina e Sud Africa) che sta crescendo ancora a buon livello è l’India, ma attenzione: l’India è esposta a rischi politici purtroppo, è l’unico paese di questi quattro che non è una vera democrazia, se si vuole ragionare in fondo, cioè democrazia come noi la intendiamo, però è una democrazia esposta sistematicamente, come vedete, a drammatici conflitti che potrebbero avere esiti drammatici.
Quindi vedete che anche gli emergenti, quelli del più 7, del più 8, più 10 ogni anno rispetto all’anno precedente, come noi finita la Seconda guerra mondiale, più 5, più 6, più 7, siamo andati così anche noi, non è che non l’abbiamo vista questa storia, sono entrati in difficoltà. Quindi i paesi in surplus devono accrescere la domanda, salari, welfare. In Germania il welfare c’è ma i salari in rapporto alla produttività sono troppo bassi, bisogna che crescano, paradossalmente. Capisco che dire in Italia i salari tedeschi sono troppo bassi però il basso o alto non è un concetto morale, cioè quando si parla di salari, basso o alto è in rapporto alla produttività; in rapporto alla produttività tedesca i salari tedeschi sono troppo bassi perché tengono bassa la domanda interna grazie a questo fatto. Capisco che a loro va bene così, intendiamoci, però è la Comunità Europea che riceve un danno dal fatto, perché se la domanda interna tedesca cresce, lo yogurt greco sa dove andare, adesso scusate ma è per dare un’idea. Uno produce le macchine e un altro produce lo yogurt, non è che di per sé produrre lo yogurt fa schifo, anzi tutto sommato va pure meglio, ma se la domanda interna tedesca non cresce è chiaro che anche i paesi in difficoltà vedono le loro esportazioni non crescere e quindi si ribadiscono nella difficoltà.
I paesi in deficit devono attraverso forme di coordinamento alla dimensione globale, alla dimensione europea devono fare riforme strutturali, ci vuole più governo globale e quindi il G20 io lo considero uno strumento che potrebbe risultare utile, diciamo, perché, ripeto, mette assieme… solo che l’Europa dovrebbe smettere di parteciparvi in questo modo tragicomico. È tragico, non comico; cioè, con singole nazioni che poi fanno finta di avere interessi comuni, di solito ce li hanno gli interessi comuni, ma non li fanno prevalere su quelli nazionali e quindi non pesiamo per…l’economia europea è la più grande economia del mondo se è l’economia europea: se è l’economia tedesca, per citare la più potente, è un’economia di medie dimensioni, è chiaro che è diversa.
Naturalmente, per quello che riguarda i paesi occidentali, cioè noi, siccome abbiamo detto che c’è questo squilibrio globale ma poi c’è la questione disuguaglianza, che è un fattore fondamentale di crisi, allora, a mio parere, per l’essenziale qui si impone una fase nuova, naturalmente definita secondo le condizioni di oggi e non facendo quello che abbiamo fatto ieri, di politiche per la piena occupazione nel contesto nuovo determinato dalla società della conoscenza.
E qui, per quanto ciò possa sembrare ovvio, non so trovare un’altra centralità per le politiche per la crescita qualitativa che non sia quella dello sviluppo del capitale umano. O ci prendiamo sul serio quando diciamo che siamo nella società della conoscenza, o lo diciamo e poi ci comportiamo come se fossimo nella società che abbiamo alle nostre spalle. Cosa vuol dire società della conoscenza? È già stato detto ma lo voglio riprendere perché considero questo un fattore strategico: vuol dire che il valore di un prodotto non è dato, come ci hanno insegnato gli economisti classici e come tutto sommato noi abbiamo continuato ad affermare nelle diverse versioni naturalmente, non è dato dalla quantità di lavoro che quel prodotto incorpora, misurabile in ore, giorni, mesi, quindi salario, orario giornaliero, mensile, profitto, livello dei profitti, livello dei salari, livello dei prezzi, sulla base di questi prezzi dei fattori, investimento e viene fuori il prodotto e il suo valore.
Adesso, se siamo nella società della conoscenza, cos’è che determina il valore di un bene? La quantità di conoscenza che quel bene incorpora. La quantità di conoscenza significa che se ci sarà tanta conoscenza dentro quel prodotto, il prodotto varrà tanto e naturalmente il valore della conoscenza come lo misureremo? Dalla quantità di risorse che è stata necessaria per produrre la conoscenza nuova incorporata e dalla quantità di risorse investite per consentire la circolazione di quella conoscenza. Perché la conoscenza in sé, si racconta quella dell’imperatore Adriano, mi pare, a cui si presentò uno che aveva fatto una lega che era lo zinco, no scusate l’alluminio, adesso non ricordo più che lega era, no, non è una lega, è un materiale, la mia ignoranza è abissale, lo zinco. La storia narra, non ricordo più quale storico dice che si presenta questo che aveva fatto questa lega e considera la leggerezza, l’efficacia, la tenuta, eccetera, è una cosa straordinaria dopo di che l’imperatore gli fa tagliare la testa e quello rimane lì. Quella lega sarebbe stata l’invenzione che aveva fatto quello là che aveva trovato la possibilità di fare e a cui aveva fatto tagliare la testa perché tutte le monete, lui possedeva tutto quello che era minacciato dalla presenza dell’innovazione e quindi, fatto un rapido calcolo, ha deciso che non era il caso di mettere in circolazione l’innovazione: mancata circolazione è come se l’innovazione non ci fosse mai stata, anche se c’era stata. E quindi, quando è diventata economicamente rilevante? Quando la conoscenza ha avuto un livello di circolazione sufficiente per essere applicata all’attività produttiva.
Allora, se è così, al di là di questo episodio storico mal raccontato, se è così quello che noi dobbiamo sapere è che nel futuro sia il livello di crescita, di sviluppo economico, sia la qualità di questo sviluppo, sotto il profilo in particolare dell’esclusione sociale, sarà determinato dalla produzione di conoscenza e dalla rapidità della circolazione della conoscenza. Gli esclusi di domani chi saranno? Saranno quelli che non possiedono gli strumenti per padroneggiare i nuovi livelli della conoscenza. Se noi vogliamo la crescita di qualità, sarebbe meglio quindi dire lo sviluppo, vogliamo lo sviluppo anche in senso umano, dov’è che dobbiamo iperconcentrare le risorse della politica, della politica economica, della politica sul piano culturale, della politica sul piano civile e così via? C’è poco da fare. Le dobbiamo concentrare su quelle istituzioni che producono conoscenza.
Certo, la prima istituzione che produce conoscenza è la famiglia, checché se ne dica, nel senso che lì ci sono i rudimenti fondamentali. Poi però subito c’è una comunità e quando la famiglia presenta dei deficit evidenti, e purtroppo ce ne sono tante che presentano dei deficit evidenti, noi dobbiamo sapere per definizione che se non interviene la comunità a compensare quei deficit, lì c’è un nuovo escluso. Non importa quello che statisticamente siamo sicuri, quel bambino diventerà un adulto da assistere, fuori dalla componente dinamica dello sviluppo. Siccome noi siamo quelli che al di là di come la pensiamo ideologicamente, noi vogliamo che rimangano pochi fuori. Anzi noi avremmo l’ideale che non rimanga nessuno fuori anche se sappiamo che non riusciremo mai a fare in modo che non ne rimanga nessuno, però per noi è cruciale, altrimenti cosa ci stiamo a fare al mondo, per noi è cruciale che ne rimangano sempre meno. E allora il cardine della politica economica, fiscale dei prossimi anni non può che essere la conoscenza, l’educazione, la conoscenza, la formazione, usate voi il termine che vi piace di più, naturalmente in quel contesto di politiche coordinate alla dimensione globale ed europea, che è il contesto che ci è mancato e che ha determinato, come abbiamo visto, in larga misura una crisi così devastante, che nel caso del nostro paese ha avuto effetti ancora più devastanti perché noi siamo tra i paesi industriali avanzati quello che oggi, malgrado questa piccola per ora inversione di tendenza, quello che oggi è ancora il più lontano dal livello di prodotto e di reddito medio pro capite che c’era prima della crisi. Quindi abbiamo molta più strada da fare. Ormai molti paesi, gli Stati Uniti d’America in particolare, la Germania ha già superato, hanno recuperato ciò che durante la crisi avevano perso, noi siamo ancora adesso a 8 punti e mezzo, c’è una piccola inversione di tendenza ma abbiamo perso 9 punti e mezzo di prodotto tra il 2008 e il 2014 e abbiamo perso 10 punti di reddito medio pro capite.
Come vedete, io mi sono tenuto un po’ sulle generali, sarà per reagire al fatto che da 15 giorni sono solo sul particolare e quindi ho approfittato dell’occasione, ma se volete che da questo tentativo di dare un po’ una visione di carattere generale, adesso se vogliamo scendere alla scelta politica perché nella legge di bilancio e finanziaria ci sono queste scelte, invece di quelle altre o di queste altre ancora e così via, io sono qua e mi fa piacere se mi fate anche delle domande su questo. Però se mi avete chiamato per dire quello che io penso sull’economia dopo la crisi, io penso che l’economia sarà dopo la crisi se rimuoveremo le sue cause di fondo d, e le cause di fondo della crisi non stanno, con tutto il rispetto della regola del contante, nella regola del contante, le vere cause della crisi stanno in queste cose qua. Grazie.