Il titolo di questo libro è ovviamente provocatorio: nella nostra epoca di diritti non se ne hanno mai troppi, e l’insistenza sulla tematica del rapporto diritti/doveri è a dir poco impopolare, il che spiega fin troppo bene, ad esempio, l’impopolarità e la marginalità del pensiero di Giuseppe Mazzini, l’Apostolo della libertà che intitolò la sua opera principale ai “doveri dell’uomo”. In realtà il saggio di Barbano è insieme un’analisi oggettiva di una serie di tendenze in atto ed un brillante pamphlet finalizzato, mi sembra, a scuotere le coscienze e riattivare i cervelli di fronte ad una crisi sistemica che coinvolge le persone non meno delle istituzioni.
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Premessa di Luca Caputo 05′ 51″
Introduzione di Lorenzo Gaiani 23′ 09″
Relazione di Alessandro Barbano (prima parte) 53′ 40″
Relazione di Alessandro Barbano (seconda parte) 45′ 14″
Domanda con risposta di Alessandro Barbano 08′ 46″
Domanda con risposta di Alessandro Barbano 12′ 49″
Domanda con risposta di Alessandro Barbano 07′ 13″
Domanda con risposta di Alessandro Barbano 02′ 07″
Introduzione di Lorenzo Gaiani a Alessandro Barbano
OLTRE LE NEBBIE DEL DIRITTISMO
Una lettura di “Troppi diritti” di Alessandro Barbano-
1 – Il titolo di questo libro è ovviamente provocatorio: nella nostra epoca di diritti non se ne hanno mai troppi, e l’insistenza sulla tematica del rapporto diritti/doveri è a dir poco impopolare, il che spiega fin troppo bene, ad esempio, l’impopolarità e la marginalità del pensiero di Giuseppe Mazzini, l’Apostolo della libertà che intitolò la sua opera principale ai “doveri dell’uomo”.In realtà il saggio di Barbano è insieme un’analisi oggettiva di una serie di tendenze in atto ed un brillante pamphlet finalizzato, mi sembra, a scuotere le coscienze e riattivare i cervelli di fronte ad una crisi sistemica che coinvolge le persone non meno delle istituzioni.
La radice di questa crisi viene individuata in quella che Barbano chiama l’ideologia del “dirittismo”, che a sua volta è figlia dello sviluppo dell’innovazione tecnologica, la quale ha aperto nuove ed insperate possibilità all’affermazione della soggettività umana, ma nello stesso tempo ha anche operato come elemento di degenerazione del soggettivismo soprattutto nel momento in cui l’innovazione non ha trovato davanti a sé una “cultura”, un pensiero critico che sapesse coglierne potenzialità, limiti e pericoli. In Italia, in particolare, l’impatto è stato ancora più devastante che altrove perché l’accelerazione del processo di innovazione tecnologica è coinciso con la crisi irreversibile delle grandi narrazioni ideologiche che da noi tenevano il posto di un’inesistente religione civile, il che ha fatto sì che l’innovazione venisse assunta in modo acritico come fatto globalmente positivo senza che nessuno si ponesse il problema di un governo a livello prima di tutto culturale che istituzionale. Ciò ha fatto sì, fra l’altro, che la persona umana viene a trovarsi tragicamente sola di fronte ai prodotti dell’innovazione, sola e priva di strumenti sia di analisi critica che di difesa, poiché la cultura del “dirittismo” è generica, emozionale, incentrata sulla teorica infinitezza della libertà umana che però lascia completamente sprovveduti di fronte alle conseguenze di certi gesti, come dimostrano le gravissime conseguenze della circolazione di immagini privatissime che con troppa leggerezza vengono immesse nella rete. Il tardivo pentimento – chissà quanto sincero- di Mark Zuckerberg rispetto agli evidenti eccessi di Facebook, che poi è semplicemente la punta dell’iceberg rispetto al magma generalizzato della Rete, è un evidente segnale di disagio che sta arrivando dall’opinione pubblica più avvertita ai Governi fino ai gestori dei grandi mezzi di comunicazione.
2 – È evidente che il problema sollevato da Barbano non significa una messa in causa dei diritti soggettivi in quanto tali: al contrario, essi sono stati a lungo il propellente delle grandi lotte per la libertà, nel momento in cui venivano conculcati da poteri assoluti che pretendevano di negare la sfera personale o di comprimere la capacità di espressione della persona umana nella sfera pubblica.
A buon diritto possiamo infatti affermare che la Costituzione repubblicana del 1948 definisce la più grande panoplia di diritti individuali e sociali che mai alcuna delle Costituzioni e degli Statuti del nostro Paese aveva inteso stabilire, oltretutto riconoscendo tali diritti come innati, non cioè come mere concessioni di un potere superiore che può in ogni momento revocarle.
E tuttavia, tali diritti poterono essere stabiliti in ragione del fatto che, pur essendo divisi da profondi contrasti ideologici, i padri costituenti condividevano un orizzonte etico comune, declinato in maniera trascendente o secolare a seconda delle personali convinzioni di ognuno, che chiariva quale fosse il limite entro cui quei diritti si inscrivevano i “certi denique fines” di cui parlava Orazio.
Compiendo un processo già in atto da diverso tempo, la tecnica non mediata dalla cultura e non incanalata dalla politica ha fatto saltare , per tornare all’antico poeta latino, il “modus in rebus”, nel senso che , proiettando oltre la fase adolescenziale la prospettiva di infinite possibilità che si aprono davanti ad ognuno ha permesso a molti di rinviare sine die il passaggio della linea d’ombra che segna la maturità.
La crisi della democrazia rappresentativa e procedurale, basata sulla delega e sui passaggi tecnici e burocratici (spesso oggettivamente pesanti) è stata aggravata nel nostro Paese dalla sostanziale debolezza delle istituzioni, il cui ruolo in passato era stato supplito dai partiti politici che incarnavano le grandi narrazioni storiche ed ideologiche, ma la cui capacità di influenzare le convinzioni profonde del corpo sociale si era già esaurita ben prima del 1992.
Su di un altro versante, la secolarizzazione ha agito in profondità in un Paese in cui l’apparenza dell’unanimismo cattolico nasconde la pratica incapacità della Chiesa di fungere da soggetto di orientamento morale in una società scettica ed incattivita che del cattolicesimo prende, come si è detto, l’apparenza e rifiuta il messaggio evangelico nel momento in cui implica l’accettazione del diverso, dell’alieno, percepito come concorrente rispetto ai nostri diritti (appunto).
Si aggiunga anche la diffidenza per ogni tipo di elite, anche nel campo della scienza, dove l’effetto dell’assorbimento acritico degli strumenti tecnici non si è tradotto nell’apprezzamento della possibilità di nuove forme di apprendimento e di studio, ma è degenerato in quella che Barbano definisce “mitologia antiscientifica”, come dimostrano quei fenomeni di irrazionalità che corrispondono ai nomi di Di Bella, di Stamina, giù giù fino al fenomeno brado dell’antivaccinismo coltivato da dirigenze partitiche spregiudicate ed irresponsabili per far cassa in termini di consenso : “tanti , maledetti e subito”.
3 – Più in generale, ci dice il nostro autore, il dirittismo è “un esito tecnocratico della democrazia. Ed è nemico della politica”, ed è ovvio, perché la politica è per eccellenza il luogo della mediazione e dei tempi lunghi, mentre il dirittismo si appoggia sulla soddisfazione immediata di ciò che, appunto, viene percepito come diritto indiscutibile, magari basandosi su di una lettura parziale e tendenziosa della Costituzione. In effetti, dovremo riflettere a lungo su quanto un certo tipo di letteratura costituzionale abbia contribuito a quello che Barbano chiama lo “scollamento” del testo della carta dalla storia che l’ha generata, facendone il punto d’appoggio per rivendicazioni che in se stesse poco hanno a che fare con la mens del costituente, contribuendo in modo paradossale (ma neanche tanto) all’azzeramento dei principi prepolitici che avevano reso possibile che la Costituzione venisse redatta nella forma in cui è stata redatta . A ciò si aggiunga la dilagante tendenza alla riscrittura da parte della magistratura – civile, penale, amministrativa e contabile- dei precetti costituzionali e di quelli legislativi, che hanno fatto commentare al Procuratore generale della Cassazione che il nostro sistema giuridico, basato sulla centralità della legge scritta, sta insensibilmente ma decisamente scivolando nel regime di common law a causa di una fitta messe di giurisprudenza che ormai passa decisamente dalla “interpretazione” alla “produzione” del diritto.
La logica del dirittismo è solipsista, e quindi per essa – come per il populismo più tradizionale – non esistono le classi sociali; ed i richiami in ordine alle rivendicazioni economiche e sociali, che pure vi sono, non sono inseriti in un ordine coerente ma vengono, per così dire, affogati in una concezione del “popolo” come se fosse un tutt’uno da contrapporre ad una “casta” di privilegiati che quasi sempre è composta non dalle élites economiche ma dai politici professionali, o dai ceti intellettuali, o magari dai sindacati, in nome di una concezione della democrazia che si esercita nel rapporto fra il Capo e la folla.
In assenza di un pensiero forte della politica, i populismi (ed il dirittismo ne è una variante) pretendono di rappresentare in termini genuini l’esasperazione della “gente” (prescindendo dalla distinzione fra classi sociali) contro lo stato di cose esistente. Ma la risposta populista è fallace proprio perché agisce nell’indistinzione, servendosi di parole d’ordine rabbiose e generiche che ne vorrebbero accreditare, appunto, la genuinità e hanno un’indubbia presa sul malessere personale. Nello stesso tempo, l’uniformità di queste parole disconosce la complessità delle differenze che pure esistono all’interno del popolo, e lo schema va in crisi nel momento in cui si scontra con la complessità della gestione del consenso e con l’emergere dello spirito critico dei seguaci. Già nel 1945, alle prime avvisaglie della nascita del Movimento dell’Uomo Qualunque di Guglielmo Giannini, naturale antesignano (per quanto assai più colto e spiritoso) dei Berlusconi e dei Grillo di tutte le epoche, il filosofo morale Umberto Segre rilevò che: “L’uomo qualunque vorrebbe, in politica, un potere illimitato, e in realtà non lo esercita se non nell’arbitrio della sua parola e delle sue velleitarie pretese. E poiché queste parole e queste pretese restano insoddisfatte l’uomo qualunque diviene indifferente alla socialità. Ma lo era già prima di qualsiasi delusione: lo era perché scambiava per realtà una sua illusione, un mito, una fantastica sua contrapposizione alla regola del gioco umano, che è sempre gioco di relazioni morali e politiche. Questo mito è un momento patologico del rapporto politico. È il mito per il quale si disprezza la politica come sordida, i partiti come associazioni a fine verbalistico e agitatorio, la lotta come inconcludente”.
Dal canto suo Benedetto XVI, nel suo memorabile discorso al Reichstag di Berlino del 22 settembre 2011, affermava la centralità (peraltro nient’affatto scontata in ambito cattolico fino a qualche tempo fa) dello “Stato liberale di diritto” (Rechtsstaat) contrapposto non solo alla nostalgia dello Stato confessionale, ma anche alle ricorrenti tentazioni di uno Stato in cui la subordinazione alla legge sia sostituita dalla subordinazione ad un’imprecisa “volontà popolare” che si esprime attraverso un capo carismatico ed assoluto, dando vita ad uno “Stato popolare” (Volksstaat) che non si fida delle istituzioni ma si afferma attraverso dei “portavoce”, dei “capi” la cui volontà per vie misteriose coincide con quella popolare. Ein Volk, ein Reich, ein Fuhrer, per l’appunto.
4 – Forse l’elemento più preoccupante della stagione del dirittismo sta nel fatto che la guerra contro le élite, almeno nel nostro Paese, sembra essere condotta da una parte sola , nel senso che le tanto odiate élite hanno rinunciato a presentare le proprie ragioni.
Non è stato così, ad esempio, in Francia, dove, di fronte al crollo della credibilità delle forze tradizionali di governo a sinistra come a destra, l’élite è riuscita rapidamente a strutturare una narrazione credibile intorno ad Emmanuel Macron di fronte alla minaccia ad un tempo populista e neofascista di Marine Le Pen.
In Italia, invece, al di là di una pubblicistica demonizzante, le élite culturali, economiche e politiche sembrano essersi assestate intorno al vecchio e cinico gioco del piegarsi finché c’è la piena, pensando forse di poter gestire questa fase nello stesso modo in cui i loro antecessori gestirono il rapporto con il fascismo.
A meno che non si debba interpretare l’ondata dirittista/populista come un fenomeno manipolatorio, in cui ad un moto che ha una sua spontaneità si affiancano altre concause fra cui la lotta di un pezzo dell’élite contro un altro, in nome di un’ideologia che si vorrebbe iperpolitica ma che di fatto è il frutto di un disprezzo moralistico per quello che l’Italia effettivamente è come pure per quello che è la politica , con il suo carico di mediazioni, compromessi e procedure.
Per questo l’autore non teme di sostenere che il riscatto possibile contro i guasti del dirittismo passa attraverso il recupero della sovranità della politica oltre l’utopia della disintermediazione : vengono in mente, e non solo per il rituale omaggio degli anniversari, i due pilastri del pensiero sturziano come ce li riconsegnò Giovanni Bianchi nella sua originale rilettura, ossia il riconoscimento delle originarie autonomie sociali e territoriali e la centralità della democrazia rappresentativa e procedurale.
Al fondo, argomenta Barbano, lo stesso rancore sociale così diffuso, se preso per tempo, se incanalato , se declinato – appunto – in forma politica, può essere manifestazione di istanze sociali reali che si muovono nello spazio profondo di un Paese che può essere migliore di se stesso. Ma per far questo la democrazia deve recuperare una forte dimensione etica, non tanto nel senso del moralismo terroristico , e in fondo assai autoindulgente, che si è diffuso in questi anni (Benedetto Croce affermò a suo tempo che la moralità dell’uomo politico si esprime nella competenza con cui svolge il suo mestiere) , quanto piuttosto nell’approccio a quel sedimento valoriale, quelle premesse di cui parlava Bockenforde – non a caso citato da Barbano- che lo Stato liberale non è in grado di garantire a se stesso proprio perché lo precedono. Si deve perciò uscire dalla “neutralità etica” di questa fase storica non certo per affermare un modello statuale di tipo hegeliano ma per dar conto, ad esempio, che non vi può essere neutralità fra il vero ed il falso, e che quindi l’unico linguaggio possibile per i ricostruttori, per coloro che l’autore chiama “moderati integrali”, è quello della verità.
Il riscatto della politica passa anche attraverso la riappropriazione degli spazi di discrezionalità che le sono stati via via confiscati trasformando i luoghi decisionali in strutture burocratiche sovrapposte alla burocrazia vera e propria, in una logica in cui il diritto penale sostituisce il giudizio politico, e la lotta politica si sposta alle aule giudiziarie.
5 – Se c’è un elemento di questo libro, assai interessante e meritevole di riflessione, che mi induce ad un deciso dissenso è nelle pagine in cui Barbano esamina, in relazione all’Europa, l’impatto del pontificato di Francesco in paragone ai suoi due immediati predecessori. Mi par di capire che in sostanza il nostro autore addebiti al Papa argentino una sostanziale estraneità all’ideale europeista e, più in radice, una sorta di appiattimento del messaggio evangelico sul senso comune, in cui la misericordia a buon prezzo sostituisce la chiarezza dei valori non negoziabili.
Potrei opporre a questa analisi quanto ha detto recentemente un sociologo della religione, ossia che il pontificato di Francesco si riconnette al filo interrotto con la morte di Paolo VI, il filo di un confronto senza sconti ma anche senza illusioni con la modernità, che nei trentacinque anni intercorsi fra il 1978 ed il 2013 si pensò di surrogare con quelle che l’autore definisce “scorciatoie”, vuoi di carattere leaderistico vuoi di carattere dogmatico, che di fatto, al di là della patina dell’entusiasmo di rito e dell’unanimismo di facciata, non è riuscito a colmare lo scarto che nel frattempo si andava aprendo fra il messaggio evangelico e la contemporaneità.
Credo però che una risposta in questo senso l’abbia data lo stesso Papa Francesco quando, parlando al Parlamento europeo il 25 novembre 2014 quando ha affermato che è necessario evitare di “cadere in alcuni equivoci che possono nascere da un fraintendimento del concetto di diritti umani e da un loro paradossale abuso. Vi è infatti oggi la tendenza verso una rivendicazione sempre più ampia di diritti individuali – sono tentato di dire individualistici -, che cela una concezione di persona umana staccata da ogni contesto sociale e antropologico, quasi come una “monade” (μονάς), sempre più insensibile alle altre “monadi” intorno a sé. Al concetto di diritto non sembra più associato quello altrettanto essenziale e complementare di dovere, così che si finisce per affermare i diritti del singolo senza tenere conto che ogni essere umano è legato a un contesto sociale, in cui i suoi diritti e doveri sono connessi a quelli degli altri e al bene comune della società stessa.” . E sempre nello stesso discorso, citando Benedetto XVI, il Papa argentino ha ricordato i rischi che si corrono «quando prevale l’assolutizzazione della tecnica», che finisce per realizzare «una confusione fra fini e mezzi».
Come dire che se qualcuno volesse fare del dirittismo in ambiente cattolico non potrebbe farlo appoggiandosi al pensiero del Papa.
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